Informazione

Ancora su PRC/foibe


Sulla polemica seguita alla intitolazione della piazza di Marghera ai
"martiri delle foibe" ed alle dichiarazioni di Bertinotti su "foibe" e
"nonviolenza" vedi anche:

G. Pegolo: Ma si puo' costruire qualcosa da un cumulo di macerie?
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3156

La posizione di Bertinotti sulla violenza politica
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3095

Il commento di Claudia Cernigoi sulle dichiarazioni di Bertinotti
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/3088

Foibe: dalla propaganda fascista al revisionismo storico. Un opuscolo
di controinformazione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2951

Foibe e monumenti
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2855

Spunti di discussione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2852

Luca Casarini ed i suoi squadristi
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2838

I "Centri Sociali del Nord Est" di nuovo in azione
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/2830

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(da "Liberazione", 10/2/2004)

Dell'intervento del compagno Bertinotti a Venezia ho un'opinione
decisamente negativa. Tanto per cominciare è stato un intervento già
preparato, le sue conclusioni erano pronte da prima del convegno e non
hanno tenuto nessun conto degli interventi del convegno stesso,
soprattutto dei due più interni all'argomento "foibe", quello di Joze
Pirivec e quello di Giacomo Scotti, che hanno, entrambi, detto cose
addirittura in antitesi con certi "assunti storici" dati per scontati
da Bertinotti. In secondo luogo, come tutto il convegno, era una cosa
da fare "prima" dell'intitolazione del piazzale di Mestre e non dopo,
quasi costretti dai fatti e obbligati a ripiegare in qualche modo sulle
posizioni dettate da "centrosocialisti" e diessini vari. In terzo luogo
ho dovuto rilevare la scarsezza di approfondimento storico
sull'argomento: dire che «il nostro storico Spazzali ha detto che a
Basovizza ci sono 600 morti perciò va bene così» (anche se non nel
corso del dibattito ma negli incontri di corridoio) è cosa
sconcertante; Spazzali non è "storico nostro", ma della destra, anche
se democratica e, soprattutto, non risulta aver mai detto
dell'esistenza dei 600 morti a Basovizza.

In quarto è stato politicamente intempestivo, perché andare a valutare
oggi, con conclusioni di quel tipo, le cose significa dare spazio ed
avallare le tesi della destra radicale: voglio vedere come farà
Bertinotti ed il partito a rifiutare la proposta della giornata della
memoria delle foibe istriane fatta da Fini, con tutti i falsi storici,
politici e morali e con l'automatica rivalutazione dei fascisti locali
che quella proposta comporta.

Ma ora scenderò nei dettagli, scusandomi per l'incompletezza della
trattazione, anche perché la cosa per essere fatta seriamente dovrebbe
avere più voci, ma soprattutto molto più tempo. Certo su questi
argomenti bisognerebbe fare molta, molta chiarezza.

Quando in un confronto una delle parti comincia col meschinizzare le
idee dell'altra il confronto comincia molto male, soprattutto se a
farlo è la parte "più forte", quella che è nelle posizioni più visibili
e più rappresentative. Però questa posizione "ridicolizzante" è anche
il segno che le convinzioni di chi discute sono deboli e poco
difendibili se non con metodi discutibili, in quanto la ragione le può
smontare e dimostrarne la pochezza, sia storica che politica. Quindi
spero che le posizioni che ora rileverò del nostro segretario siano
solo una caduta di stile e non la ricerca di questo metodo di
demonizzazione dell'"avversario", cosa che nel passato ha troppe volte
attraversato i partiti comunisti e, questa si, cosa sulla quale
bisognerebbe fare non tanto autocritica quanto autoriforma.

La differenza tra fascismo e antifascismo non è certo data solo dai
numeri dei morti, e nessuno ha mai osato sostenere una cosa del genere.
Però per capire (non giustificare) i fatti del passato si deve fare
ricerca storica e capire cosa è successo, scremandolo dai falsi della
propaganda, che in queste terre è stata purtroppo molto attiva sia
prima che dopo la guerra. Fare ricerca storica però significa anche
confrontarsi con i fatti, ed i fatti sono dati anche dai numeri.
Perché, nel rispetto di ogni vita umana, sapere se si tratta di un
omicidio, di 10 morti, di 100, mille o diecimila ha un valore molto
diverso, sia dal punto di vista storico che da quello giuridico
(omicidio, omicidio plurimo, strage, genocidio sono valori sia storici
che giuridici diversissimi). Liquidare la cosa dicendo che «ci sono
molti tra noi che su una questione così scottante e così drammatica
come quella delle foibe si azzuffano su una questione di numeri» o «la
manipolazione verso il basso (dei numeri dei morti, ndr) tende a
configurare l'idea che in quelle fosse ci fossero solo fascisti
colpevoli» è un modo rapido ma semplicistico di affrontare la
questione. Modo che è sbagliato e fuorviante per ogni possibile
analisi. Certo è buono per demonizzare chi vuole fare la ricerca
storica, soprattutto quando questa non collima con la scelte politiche
che si sono volute assumere anche contro i risultati della ricerca
stessa. Ma così facendo si fa un pessimo servizio alla storia ed uno
ancora peggiore alla politica. Altrettanto semplicistico è il discorso
sul "vuoto di potere" e sullo "scontro tra poteri" che hanno portato a
questi fatti. Certo, queste componenti ci furono, ma durante la
Resistenza vi fu anche contemporaneità di poteri. C'era la gerarchia
militare degli uni ma c'era anche il volontariato, il rispetto, la
collaborazione degli altri. Le repubbliche partigiane, le zone libere,
le aree controllate e tutelate, con le armi e con le battaglie furono
luogo di autogestione e palestre di gestione democratica, ancorché in
armi. Vi furono anche vendette, ma gli atti individuali agli individui
vanno ascritti. A Trieste e nell'Istria, soprattutto nel '45 furono
anche molto limitate nel numero reale. Tanto che, e questa è storia, vi
furono proteste da parte proletaria perché non si lasciava fare come
altrove in Italia, dove valeva il decreto luogotenenziale che
autorizzava all'uccisione di tutti i volontari delle truppe di Salò. E
scusate se è poco. Comunque il discorso del confronto tra "poteri"
diversi esiste continuamente. Anche oggi il dire "un altro mondo è
possibile" (slogan che andrebbe almeno specificato con un auspicio
concreto, perché anche il fascismo è possibile "altro" rispetto
all'attuale governo) significa scontro di poteri. Fare politica
significa scontro di poteri, tra quello che esiste con le sue regole
vigenti e quello auspicato, con le regole che si propongono. Dietro
questa spiegazione dei fenomeni esiste solo, scusate il bisticcio,
banale banalizzazione, che nel non spiegare nulla lascia liberi tutti
di dire ciò che si vuole. Certo permette di fare il successivo salto
logico dei "regimi contrapposti" che si sarebbero affrontati a Trieste,
cioè degli estremismi opposti, fascismo e movimento partigiano
comunista, che portano entrambi a lutti e distruzioni. Forse non era
questa la volontà di Bertinotti, ma è questa la sola lettura possibile
delle sue parole.

La critica dei crimini del fascismo non è mai servita, tra i compagni
seri, a giustificazione per non fare i conti con la nostra storia né
per darsi alla vendetta ed alla distruzione indiscriminati, dove fare
giustizia da parte delle autorità, con metodi anche criticabili, è e
deve rimanere altro dalla vendetta personale. Gli storici seri hanno
sempre cercato di collegare tra loro i fatti e di capire il perché del
succedersi degli avvenimenti. Dire che una cosa avvenuta è stata il
motore di cose successive non è giustificazionismo, è studio storico.
Nulla accade a partire da un punto, senza fatti precedenti. Così in
ogni rivolta, in ogni tensione sociale nei secoli, vi sono fenomeni che
hanno portato al punto di rottura, che lo hanno determinato e che
hanno, in parte, determinato il tipo di azione. Imporre, per il
fascismo, di dimenticarlo, pena rischiare di passare tra i
"giustificazionisti dei nostri errori" è antistorico, dire che questo
può portare ad aspetti negativi è chiudere la porta in faccia
all'analisi storica dei fatti e criminalizzare chi la fa. Certo sta
agli uomini, anche ai compagni, non crearsi miti intoccabili ma
ricordare sempre che tutti, noi come chi ci ha preceduto, siamo solo
umani con pregi e difetti. Ma detto questo, sulla resistenza, bisogna
sempre ricordare che vi fu chi combatté (magari per motivi personali
"buoni") dalla parte della sopraffazione fisica e morale, dalla parte
del "superuomo" con diritto di vita e di morte, dello sfruttamento del
lavoro schiavizzato, del diritto di eliminare intere etnie e gruppi
perché considerati inferiori e chi lottò (magari con motivazioni
personali abiette) contro tutto ciò, anche con le sue contraddizioni. E
questa è storia, non esaltazione. Comunque, se si vuole vedere il male
bisogna vederlo in ogni luogo in cui si annida. Ad esempio
bisognerebbe, cosa mai fatta, affrontare il tema della "doppia
resistenza", di chi partecipò per arrivare alla rivoluzione sociale,
con un mito (forse errato) di socialismo, e chi partecipò su posizioni
chiaramente reazionarie, di legame con la monarchia e con il
capitalismo, con il criminale di guerra Badoglio, contro il movimento
proletario. Dire che Sogno, la Franchi, la Osoppo erano gruppi
reazionari, favorevoli al cambio della guardia dirigente, non al
cambiamento della società, che a volte (molto spesso) trovavano linee
di accordo con i fascisti e con i capitalisti contro i partigiani
rossi, lasciandoli massacrare o isolandoli è dire fatti. Fu giusto
reagire e si reagì nella maniera giusta? Non spetta a noi giudicare.
Successe. Possiamo valutare i risultati, e dire che non furono positivi.

Sapere dove si poteva evitare di commettere abusi, e quali siano stati
commessi, è importante per evitare in futuro di commetterne. Ma se
proprio si voleva fare questa presa di coscienza perché non si sono
prese ad esempio altre situazioni, dove gli ordini precisi erano di
"fucilare" tutti i volontari della Rsi, senza distinzione? I partigiani
jugoslavi (serbi, croati, sloveni, italiani, tedeschi, ecc.) hanno,
invece, come riconosciuto da tutti, anche dagli storici di destra,
sempre operato con sistemi di Stato. Ogni arresto doveva avere delle
prove concrete per venir mantenuto. Ogni arrestato doveva risultare
accusato da almeno tre accusatori di crimini precisi. Che poi in alcuni
casi ci siano stati abusi di singole persone è cosa che riguarda loro e
va oltre quelle che erano le precise disposizioni dei vertici, che
chiaramente dicevano di colpire in base al fascismo e non in base
all'etnia e invitavano i comandanti a frenare l'eccessiva solerzia di
alcuni attivisti. Processi contro gli eccessi li fecero, e quanti, gli
stessi jugoslavi anche nel corso della guerra. Comunque non si può,
neppure in questo caso, colpevolizzare il movimento. A meno che non si
intenda sostenere che "italiano" è comunque più buono che "salvo" e che
era meglio essere fascisti ma italiani che jugoslavi e comunisti.

Il problema della violenza è stato, poi, affrontato molto
superficialmente e su fatti lontani. La non violenza è certamente un
fatto positivo. Se posso ottenere delle cose senza ricorrere a
coercizioni è bene. Ma a volte già solo per chiedere e farsi sentire si
deve gridare. E' violenza? Gli scioperi di questi giorni per certe
persone sono violenza: contro le regole, contro le persone, contro le
cose. E seguendo la logica in senso stretto si può concludere che è
vero. Lo sciopero è una forma di coartazione, di ricatto, di pressione:
quindi di violenza. Ma se noi conquistiamo dei successi
democraticamente, ad esempio il Cile di Allende, cosa dobbiamo poi
fare? Lo sciopero con sit-in per bloccare ogni movimento? Buona
ipotesi, ma resta ipotesi che non ha mai visto luce dei fatti. Certo,
fino a quando la via politica è praticabile e può dare dei risultati si
deve perseguire la via politica. Cedere al mito del "vietkong vince
perché spara" (oggi Zapatista con le armi) è stato deleterio in passato
e sarebbe ancor più deleterio oggi. Esiste oggi un fermento, al quale
dobbiamo garantire lo spazio di agibilità. Un fermento che non deve
percorrere la strada dell'estremismo, giustamente definita a suo tempo
"malattia infantile del comunismo". Un fermento che deve poter
crescere, deve poter svilupparsi nelle forme e nelle direzioni positive
che collettivamente saprà trovare e sviluppare. Con l'aiuto anche della
conoscenza degli errori del passato, che è il miglior modo per evitarne
la ripetizione. Cosa che significa sostanzialmente anche con la
conoscenza del passato, non con la sua demonizzazione. E con la
conoscenza del pensiero dei compagni che hanno fornito strumenti
teorici al movimento proletario. Essere "nuovi" non significa dover
ogni volta ripensare tutto di nuovo, ricostruire tutto ogni volta da
zero. I pensatori del passato costituiscono un trampolino per il
futuro. Significa passare il tempo a studiare e non fare? No, significa
non dichiarare ad ogni piè sospinto chiuse certe esperienze e sepolti
certi valori ed autori (Marx, Lenin, …), significa non esorcizzare come
mefitico un passato, quello delle lotte di liberazione di intere
società, solo perché gli esiti non sono stati quelli che oggi, a cose
fatte, noi avremmo desiderato.

Ma riprendiamo col convegno. Auschwitz e Hiroschima sono veramente
diverse come dice Bertinotti? No, strutturalmente no. Sono entrambe
frutto del capitalismo, delle sue necessità e delle sue volontà.
Esattamente come Dresda e Amburgo. Volontà di vincere la guerra, ma non
necessariamente con meno lutti. Anzi, con una quota di distruzione di
popolazione civile non combattente tale da terrorizzare chi avesse
intenzione di proseguire, per esempio, sulla via dell'espansione non
dell'Onu ma dell'Urss. Probabilmente questa espansione non avrebbe
avuto risultati positivi, viste le degenerazioni dei partiti, anche di
quelli comunisti, nell'Europa pre e post-bellica, ma noi possiamo
parlarne solo col "se". Certo è invece che il trionfo del capitalismo
ha portato enormi danni alle società umane. Lo stato agonico in cui
versa il sud America e, ancor più, tutta l'Africa (con decine di
milioni di morti per fame, malattie e guerre) da decenni è un esempio
evidente degli effetti devastanti del colonialismo prima e
dell'imperialismo poi messi in campo dal sistema capitalista.

Non si capisce perché noi si debba continuamente fare ammenda dei morti
dei gulag (morti che pesano, e come, anche sul nostro presente, ma dei
quali non abbiamo mai esaltato l'uccisione e che mai abbiamo
contribuito a far arrestare), mentre nessuno addossi mai, nemmeno tra i
compagni, quei morti africani, sudamericani ecc. al capitale, che si
guarda sempre molto bene dal riconoscerli come frutto necessario e non
eliminabile del suo sistema. E' questo un modo di dire "voi uccidete
più di noi"? No, si tratta solo di sapere che certe cose sono state
fatte cedendo, nella maggior parte dei casi, al frutto degli anatemi
settari e demonizzanti gruppi e movimenti interi, dobbiamo imparare,
volendo cambiare la società, a non ricadere in questi errori. Ma tenere
sempre presente che mentre noi soffriamo per quei morti il capitale
continua a farne ogni giorno migliaia senza mai soffrire per loro.

Nella lotta poi, è vero che oggi il fascismo non è più il nemico? Solo
se si considera il fascismo come un corpo a sé stante. Ma se si vede
nel fascismo solo una delle forme del capitale, come la guerra e come
il terrorismo, allora ci si rende conto che bisogna sì combattere il
sintomo più evidente e minaccioso del sistema (e che oggi questo è la
guerra più che il fascismo) ma che per vincere si deve combattere il
capitalismo e la sua iniqua ripartizione dei beni. Altrimenti sarebbe
come combattere con l'aspirina le sofferenze date da un cancro.

Peter Behrens

Ancora in merito al dibattito interno al PRC

da Liberazione, domenica 8 febbraio 2004:


Contrastare l'offensiva revisionista e anticomunista

di CLAUDIO GRASSI


Una domanda sorge spontanea pensando a questo dibattito sulla violenza
e la non-violenza. Una domanda che potrebbe apparire retorica o
provocatoria. Non lo è. Davvero si stenta ad afferrare il filo di una
discussione che ha coinvolto i temi più disparati, sviluppandosi lungo
linee polemiche che ben di rado ormai si incontrano in punti condivisi
e comprensibili. C'è di tutto: la non-violenza come filosofia e pratica
politica; il pacifismo come teoria e come forma della prassi; il
giudizio sulla Resistenza e sulle guerre imperialistiche di ieri e di
oggi; la critica dei poteri; l'analisi della repressione del dissenso e
del conflitto sociale: forse sarebbe il caso di semplificare e di
cercare di mettere un po' d'ordine.

Di che cosa discutiamo parlando di non-violenza?
Secondo alcuni, di un concetto e di una forma dell'agire politico
adeguati sempre e dovunque. Posto così, è un tema impraticabile in una
prospettiva politica. Se non si vogliono produrre discorsi fini a se
stessi, occorre contestualizzare, riferirsi a situazioni determinate.
Ma anche la posizione di chi ritiene che «oggi nel mondo globale in cui
siamo precipitati, la forma più estrema dell'antagonismo, quella
davvero irriducibile e non mediabile, è l'azione "non-violenta"» (Marco
Revelli su "Carta") appare a dir poco discutibile. Si argomenta, a suo
sostegno, che l'assunzione della non-violenza è necessaria perché vi è
la «guerra permanente» e «preventiva» e perché la superiorità militare
degli Stati Uniti non consentirebbe altre strade. Ma in questa materia
è opportuno evitare toni dogmatici e assumere l'onere
dell'argomentazione razionale. C'è una sola via per mantenersi su
questo terreno: spiegare come si pensa di fermare i bombardamenti, i
cingolati, i missili e la disseminazione dell'uranio impoverito.

Si ripete da più parti che oggi tutto è nuovo, che il mondo è cambiato
di sana pianta e impone concezioni nuove. È davvero così, o è la nostra
memoria che si accorcia e che si indebolisce? Se tornassimo con il
pensiero agli ultimi atti della Seconda guerra mondiale e all'immediato
dopoguerra, avremmo materia per riflettere su queste presunte cesure
radicali. Allora davvero la storia cambiò. Illuminato dai sinistri
bagliori di Hiroshima e Nagasaki, il mondo fu costretto a guardare in
faccia una novità assoluta e atroce. Per la prima volta nella storia la
distruzione del genere umano era divenuta concretamente possibile. Pian
piano la consapevolezza di questo salto di qualità si diffuse e vi fu
anche tra i comunisti italiani chi valutò attentamente le sue
conseguenze. A Bergamo, nel '53, Togliatti tenne un memorabile discorso
incentrato su questi temi: la bomba atomica, l'enorme divario di
potenza che essa istituiva nei rapporti internazionali, la impellente
necessità di una lotta dei popoli per il disarmo e la pace. Ma in quel
discorso non si commetteva l'errore di generalizzare. Nemmeno la bomba
riduceva a un minimo comune denominatore i diversi conflitti: né sul
piano della logica che li determinava, né in relazione al loro
dispiegarsi. Imponeva l'accumulazione di coscienza critica, non
consentiva il ricorso a rigidi schemi, a parole d'ordine unilaterali.

Ma forse c'è dell'altro, in questo dibattito. Si suggerisce, da parte
di qualcuno, che il tema è la forma della lotta politica adeguata qui e
ora: nel nostro paese, in Europa, nell'Occidente capitalistico. Se
davvero le cose stessero in questi termini, verrebbe da dire che ci si
sarebbe potuti risparmiare tanta fatica e tanta carta, talmente ovvio è
- almeno per noi - che oggi, in questa parte del mondo, la lotta
sociale e politica deve ricorrere esclusivamente agli strumenti
pacifici del confronto, pur aspro, delle idee; della libera
manifestazione delle proprie istanze; della mobilitazione di massa;
dello sciopero; della protesta e della disobbedienza civile. E talmente
ovvio è - per noi - che se il conflitto sociale e politico non è sempre
scevro da violenza, la responsabilità di ciò incombe in primo luogo a
chi controlla gli apparati coercitivi dello Stato. Proprio questa
evidenza legittima tuttavia una riflessione: che tutto questo dibattere
di non-violenza serva in realtà a parlar d'altro: che la non-violenza
sia soltanto una parte di un ragionamento più complesso. La sensazione
è che siamo - di nuovo - alle prese con la discussione sulla nostra
storia e sulla nostra identità di comunisti. Se è così, è bene essere
chiari, almeno tra di noi. Riflettere sulla nostra esperienza,
indagarne i limiti, cercare di comprendere le cause delle nostre
sconfitte: questo non è solo utile, è anche indispensabile. Purché si
abbia la consapevolezza che l'errore più grave che potremmo commettere
oggi - nella giusta ricerca di una rifondazione del pensiero e della
prassi comunista all'altezza dei tempi - sarebbe accodarci alla voga
liquidazionista oggi imperante. C'è un grande patrimonio alle nostre
spalle: di esperienze, di idee, di valore, di passioni. Un grande
patrimonio storico che dev'essere in primo luogo rivendicato e
riconosciuto per la straordinaria influenza che ha esercitato nel corso
degli ultimi 150 anni ai fini del riscatto di miliardi di essere umani.
Anche questa smania di trascinare «il Novecento» sul banco degli
imputati è pericolosa, oltre che poco comprensibile. Come si può
ridurre un secolo a un unico motivo? «Un'immane violenza», si dice. E
si getta tutto in un calderone che allontana la possibilità di capire.
Ma il Novecento è stato anche il secolo delle grandi rivoluzioni
operaie e contadine, queste sì «inizio» di una nuova storia! Oggi è di
moda la critica dell'«assalto al cielo», cioè dell'idea che una società
possa essere trasformata anche attraverso il comando politico.
Discuterne, naturalmente, non fa male. Ma certo non giovano le
semplificazioni caricaturali. Un nome dovrebbe bastare a sgombrare il
campo da ogni equivoco: non è stato Gramsci - il bolscevico, il
leninista - a insegnarci che la società è un campo di poteri diffusi e
che la distinzione tra società e Stato (quella che oggi agitano, come
fosse un dogma, i nuovi critici anarchici dell'idea comunista) è uno
strumento teorico - un modello - e non una realtà di fatto? Con ciò
non si tratta, naturalmente, di chiudere il discorso: semmai di aprirlo
in modo serio, una volta per tutte. Certo la storia nostra ha
conosciuto sconfitte e gravi errori. Che vanno analizzati, di cui
occorre cercare le cause, dai quali dobbiamo trarre insegnamento. Ma
anche in questo caso c'è una questione ineludibile che deve essere
posta: bisogna chiedersi se, senza quell'«assalto» di cui oggi tanti
compagni sembrano voler chiedere scusa, il mondo sarebbe stato migliore
o peggiore: sarebbero stati possibili - per fare solo pochi esempi - le
lotte anticoloniali, la rivoluzione cinese, lo stesso sistema di
welfare in Europa? Cercare ancora: certo. Altrimenti nessuna
rifondazione sarà mai possibile. Ma altro è una ricerca seria, severa,
rigorosa, tutt'altra cosa una sommaria liquidazione della nostra
storia. A questa ci siamo sempre opposti e sempre ci opporremo con
tutta la forza delle nostre convizioni e passioni, che sappiamo
radicate in questo partito e in tanti compagni che al nostro partito
guardano con rispetto e fiducia. Basta con le autocritiche a senso
unico, basta con i mea culpa! Perché piuttosto non chiediamo agli altri
di fare i conti con il loro passato? Di chi furono figli il fascismo,
il nazismo, la Shoah? A chi debbono la morte i milioni di vittime della
Corea, del Vietnam, dell'Algeria, dell'America Latina? E che dire
dell'indulgenza vaticana verso i fascismi? Mi chiedo come pensiamo di
attrarre verso le nostre idee i giovani se non facciamo altro che
denigrarle, cospargendoci il capo di cenere per ogni nostro atto, per
il fatto stesso di dirci ancora comunisti. E mi chiedo anche come
pensiamo di rispondere a Berlusconi che attacca a testa bassa persino
il comunismo «meno palese» di chi «rinnega il proprio passato, si lava
pilatescamente le mani per tutti gli orrori e i delitti di cui si è
macchiato, ma ancor oggi vuole l'eliminazione dell'avversario»: cosa
gli diremo, che è troppo severo, che siamo cambiati, che abbiamo
compreso quanto pessimi fossero i nostri padri e fratelli maggiori?
Qui nessuno intende «angelizzare» alcunché. Si tratta solo di
contrastare un'offensiva revisionista e anticomunista che punta a
demolire le ragioni stesse della nostra esistenza e delle nostre
battaglie. O ci siamo scordati del «chi sa parli» e delle «ragioni dei
ragazzi di Salò»? Abbiamo già dimenticato i continui attacchi alla
Resistenza, mossi da chi cercava una legittimazione a buon prezzo?
L'opportunismo servile di chi, pur di accedere al governo, ha preso
distanza da una storia di cui avrebbe dovuto andar fiero, perché è la
storia della liberazione di questo paese e della costruzione della sua
democrazia? Non c'è futuro per chi non serba memoria del proprio
passato, che non è «piombo», bensì radice e consistenza. Non è libertà
quella di chi si sbarazza della propria storia, bensì disorientamento
immemore. Questa smania di gettar via il peso della storia accecò
molti quindici anni fa. La fine della Guerra fredda e la scomparsa del
«campo socialista» furono scambiate per una «grande opportunità»: fu
invece l'inizio di una fase di grave arretramento del movimento di
classe in tutto il mondo, e della ripresa in grande stile del
colonialismo e delle guerre imperialistiche: ci sarà bene un nesso tra
quella fretta di disfarsi dell'eredità storica del «secolo breve» e la
sconvolgente incapacità di leggere le tendenze in atto che accomunò un
intero gruppo dirigente. E anche noi oggi, stiamo attenti, perché non
è affatto scontato che siamo in grado di interpretare correttamente
quanto sta avvenendo. Che cosa ci suggerisce, per esempio, la
discussione tra noi sul «terrorismo» e la resistenza irachena? Che ci
sono - se non altro - stili di analisi diversi, che si riflettono in
differenti idee delle cause e degli effetti. Chi dice che è sbagliato
parlare di una «spirale guerra-terrorismo» non ha esitazioni nel
condannare le azioni terroristiche dei kamikaze e gli attentati
dinamitardi che mietono vittime tra la popolazione civile. Ma il punto
è un altro. Sta nel collocare tutto questo discorso sullo sfondo di una
guerra coloniale e imperialistica, che ha a sua volta cause ben
precise: il profilarsi, dinanzi alla superpotenza Usa, di altri
avversari sulla scena del mondo; la necessità «preventiva» di
controllare le maggiori riserve energetiche del pianeta; l'enorme
influenza politica del «militare-industriale»; il disastroso deficit
del bilancio Usa; il peso di una cerchia politico-intellettuale vicina
al Likud e determinata nel sostenere ad ogni costo le mire colonialiste
della destra israeliana. Ma se questo è il quadro, occorre allora dire
con chiarezza che quella delle popolazioni occupate, saccheggiate,
schiacciate dal tallone militare è innanzi tutto resistenza contro
l'occupazione, sacrosanta lotta per la liberazione. E non solo. Quanto
sta avvenendo in Iraq oggi è importante per tutto il mondo, a
cominciare dal Sud del pianeta. La resistenza irachena parla ai popoli
che sono nel mirino degli Stati Uniti: dice loro che la superpotenza
non è invincibile, che non è così ovvio che dopo un Iraq venga una
Siria o un Iran, quasi si trattasse di passeggiate al sole. In questo
senso, proprio la resistenza contro le forze di occupazione è un aiuto
alla pace. Lo hanno capito bene, non per caso, i rappresentanti dei
popoli riunitisi a Bombay. Nel documento conclusivo del Forum sociale
mondiale la denuncia della guerra e del colonialismo è netta, senza
tentennamenti, così come è forte e univoca la solidarietà verso le
popolazioni oppresse, il loro anelito all'indipendenza, le loro lotte
di liberazione. Al di là di qualsiasi sottigliezza, l'esperienza
materiale della sopraffazione produce consapevolezza. E permette di non
scambiare le lucciole del nuovo imperialismo per le lanterne di un
presunto impero che non dovrebbe più incantare nessuno, fuorché -
ovviamente - Bush e chi condivide i suoi paranoici sogni di gloria.

(english / italiano)

William Walker, lo stragista di Racak

1. Un esperto della NATO dimostra che uno dei massacri serbi secondo i
mezzi di comunicazione ed il Tribunale dell'Aia, in realtà, fu un
montaggio (Michel Collon, Rebelión/resistenze.org)

2. Kosovo : Kosovo Bombing Prompted By Us Diplomat’s
“Deception” (Seeurope.net, January 26, 2004)
3. Covic: Trial of Walker will be long (Politika 4/2/2004)
4. Yugoslav pathologist on Racak: Faked reports (Politika 9/2/2004)

"Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi col favore della
notte, uscii..."

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Da "Liberazione" del 4/2/2004:

<< Le foibe oggi su Raitre.
La testimonianza dell'unico sopravvissuto alle Foibe, Graziano Udovisi,
parlerà della propria esperienza con Giovanni Minoli e lo storico
Giovanni Sabbatucci nella puntata de "La storia siamo noi" che Raitre
manda in onda oggi alle 08.05 e alle ore 00.20. Sulle foibe, nonostante
esistano studi storici accreditati, si è diffusa una pubblicistica di
destra. Su questo capitolo della storia italiano si abbatte di
frequente la scure del revisionismo storico. La vicenda è ricostruita
da Giovanni Minoli con due rari documenti. L'unico testimone di cui
finora si abbia notizia è Graziano Udovisi, che sarà chiamato a
raccontare gli eventi di cui è testimone. Tra i documenti, le immagini
esclusive girate da un operatore del luogo.>>

Qualcuno di noi ha avuto la malaugurata idea di guardare la
trasmissione di cui sopra. La ripresentazione acritica del documento di
Vitrotti, con le dissolvenze delle immagini dei partigiani che entrano
festosi nelle città e la mano che fa i mucchietti con le ossa degli
infoibati, e tutto il resto...
Propaganda di guerra, sostanzialmente. Fatta da chi la guerra l'ha
incominciata e l'ha persa, ma vorrebbe ancora capovolgerne gli esiti.
Certo, oggi senza la Jugoslavia ed in un clima di nuove guerre e nuovi
fascismi, si ha gioco facile.

Vediamo un esempio piu' specifico della propaganda di guerra contenuta
nel documentario di RaiTre:

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In merito alla trasmissione di Raitre educational dedicata alla “foibe”
ed andata in onda il 4 febbraio scorso, parliamo di un episodio che è
entrato nel “mito”, e che viene riportato come oro colato anche da
Gianni Oliva e del quale nessuno pare averne ancora colto le
contraddizioni. Parliamo dei racconti dei due “sopravvissuti alla
foiba”. Il primo si chiama Graziano Udovisi, e racconta di essere stato
arrestato a Pola nel maggio ‘45 dai “partigiani slavi”. A questo punto
va inserito, nella biografia di Udovisi, quanto si legge nella sentenza
n. 165/46 della Corte d’Assise Straordinaria di Trieste, che giudicò
Udovisi responsabile degli arresti di due partigiani nel 1944. “Udovisi
Graziano, appena ottenuto il diploma delle scuole magistrali di Pola,
all’età di 18 anni, si arruolò nella milizia per evitare di iscriversi
nelle organizzazioni tedesche. (…) Fatto il corso allievi ufficiali,
venne nell’ottobre 1944 inviato a Portole quale comandante del Presidio
e quivi rimase fino alla fine della guerra (…)”. Udovisi venne
riconosciuto colpevole di avere arrestato i partigiani Antonio Gorian e
Giusto Masserotto, nei pressi di Portole. Il teste Gorian dichiarò che
Udovisi legò lui e Masserotto con filo di ferro: ricordiamo questo
particolare, ed anche che risulta da varie testimonianze che i
prigionieri dei nazisti che venivano caricati nei vagoni per essere
deportati nei lager venivano legati col filo di ferro.
Torniamo al racconto di Udovisi (la versione che citiamo è quella
raccolta da Maria Paola Gianni e pubblicata ne “Il rumore del
silenzio”, dossier curato da Azione Giovani nel 1997, p. 153 e sgg.):
“Mi hanno imprigionato in una cella di quattro metri con altre trenta
persone, stretti come sardine, quasi senza aria e tutti con le mani
legate col fil di ferro dietro la schiena”.
Dopo essere stato torturato “tutta la notte” e “dopo mezz’ora non
sentivo più nulla (…) dovevo avere la testa rovinata completamente (…)
una donna ufficiale mi spaccò la mascella sinistra con il calcio della
pistola (…) ci legarono in fila indiana, l’ultimo di noi era svenuto e
gli fecero passare il fil di ferro intorno al collo. Lo abbiamo
inevitabilmente soffocato nel dirigerci verso la foiba. (…) durante il
tragitto sono scivolato e caduto. Immediatamente mi è arrivata una
botta con il calcio di una mitragliatrice al rene destro. Durante il
tragitto (…) mi hanno fatto mangiare della carta, dei sassi, mi hanno
sparato vicino alle orecchie (…) Poi la Foiba. (…) quando ho sentito
l’urlaccio di guerra mi sono buttato subito dentro come se questa Foiba
rappresentasse per me un’ancora di salvezza. Sono piombato dentro
l’acqua e mentre calavo a picco sono riuscito a liberarmi una mano con
la quale ho toccato quella che credevo essere una zolla con dell’erba
mentre in realtà era una testa con dei capelli. L’ho afferrata e tirata
in modo spasmodico verso di me e sono riuscito a risalire (…) ho
salvato un italiano”.
Udovisi avrebbe quindi salvato un italiano. Chi? C’è un’altra persona
che racconta più o meno la stessa storia, e torniamo a pag. 48 dello
stesso libro dal quale abbiamo tratto la storia di Udovisi, cioè
“Genocidio… “ di Marco Pirina .
Titolo: “La Foiba doveva essere la sua tomba”. Segue il racconto di
Giovanni Radeticchio di Sisano, che sarebbe stato arrestato il 2.5.45 a
casa sua. Fu condotto assieme ad altri 4 prigionieri a Pozzo Littorio,
dove videro altri prigionieri che venivano fatti “correre contro il
muro piegati e con la testa all’ingiù. Caduti a terra dallo stordimento
vennero presi a calci in tutte le parti del corpi finché rinvennero
(…)”. Seguono le descrizioni di altre sevizie ed alla fine “dopo tenta
ore di digiuno”, li fecero proseguire a piedi per Fianona dopo aver
dato loro “un piatto di minestra con pasta nera non condita”, e “per
giunta legati col filo di ferro ai polsi a due a due”. Altre torture
all’arrivo ed infine “prima dell’alba”, assieme ad altri cinque
prigionieri, e cioè: “Carlo Radolovich di Marzana, Natale Mazzucca da
Pinesi (Marzana), Felice Cossi da Sisano, Giuseppe Sabatti da Visinada
e Graziano Udovisi da Pola”, con le mani legati dietro la schiena e
picchiati per strada, lo condussero fino all’imboccatura della Foiba. E
qui viene la parte più interessante: “mi appesero un grosso sasso, del
peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di filo di ferro ai polsi
già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo
dietro Udovisi, già sceso nella Foiba. Dopo qualche istante mi
spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo
di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua della
Foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto
arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e
dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima
gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non
reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i
polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi
cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio
di ore. Poi col favore della notte, uscii da quella che doveva essere
la mia tomba…”.
Dunque se crediamo al racconto di Udovisi, questi, che dice di avere
salvato un italiano, ma non ne fa il nome, dovrebbe avere salvato
Radeticchio, dato che Radeticchio dice di essere sopravvissuto alla
“Foiba”. Mentre a voler credere al racconto di Radeticchio, Udovisi non
solo non lo avrebbe salvato, ma non si sarebbe salvato neppure lui.
Curioso che i curatori del “Rumore del silenzio”, così inclini a
rilevare le piccole inesattezze di chi si occupa di storia in modo non
propagandistico, non abbiano rilevato questa contraddizione. Curioso
anche che Oliva riporti tutte e due le storie, una dopo l’altra, senza
rilevare che si tratta della stessa vicenda.
D’altra parte, sono ambedue le storie che non stanno in piedi. Intanto
non è credibile che uomini ridotti in condizioni fisiche così precarie
come vengono descritte, siano riusciti ad uscire da una “foiba” piena
d’acqua. Né, per quanto si accetti l’improbabile, ci sembra possibile
che il colpo di moschetto che ha colpito il filo di ferro che legava il
sasso di dieci chili ai polsi di Radeticchio legati dietro la schiena
sia riuscito a spezzare il filo di ferro e non colpire l’uomo. Che
oltretutto sarebbe rimasto illeso sotto i colpi di moschetto, di
mitragliatrice e dopo l’esplosione della bomba a mano, sarebbe riuscito
a “rompere il filo di ferro” e pur con le carni “completamente
straziate” sarebbe riuscito ad uscire dalla foiba dopo un paio d’ore
trascorse dentro l’acqua.
Verifichiamo inoltre i nominativi di coloro che sarebbero stati
infoibati assieme a Radeticchio. I dati sono tratti dall’“Albo d’oro”
di Luigi Papo, che riteniamo possa essere almeno su questo argomento
una fonte attendibile, dato che tutti gli arrestati risultano essere
stati in forza al 2° Reggimento “Istria”, cioè l’arma di Papo.
Radolovich e Mazzucca risultano infoibati il “13/14.5.1945 nei pressi
di Fianona”; Cossi risulta invece “deportato in Jugoslavia”; Sabatti
“catturato nei pressi di Sissano fu infoibato assieme ad altri sei
prigionieri nei pressi di Fiume”. Dunque neppure i dati di Papo
concordano assolutamente con la versione di Radeticchio.
Eppure, nonostante il fatto che Udovisi racconti questa storia sempre
in maniera diversa (pure nella trasmissione di Minoli, così come in
altre occasioni in cui abbiamo sentito il “sopravvissuto” raccontare
pubblicamente la vicenda, il racconto differisce in molti punti da
quello da noi riportato), nessuno si è mai posto il problema
dell’attendibilità del testimone: perché?

(testo a cura della redazione de La Nuova Alabarda, Trieste)