Informazione


AMICIZIA E SOLIDARIETÀ

CON I POPOLI ROM E SINTI

SOGGETTI IN ITALIA A DISCRIMINAZIONI E VIOLENZE


Roma, domenica 8 giugno 2008
FERMIAMO UN GENOCIDIO CULTURALE
leggi l'appello ed il programma del corteo, dell'assemblea e degli spettacoli: 

Milano 13-14 giugno 2008
MEETING ANTIRAZZISTA
due giorni di mobilitazione presso il Campo Rom di via Triboniano

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di seguito il comunicato con il quale il CNJ ONLUS aderisce alle manifestazioni
indette contro gli atti di discriminazione e violenza su base "etnica" in Italia

scaricalo in "formato volantino" (PDF): https://www.cnj.it/AMICIZIA/volant080608a.pdf

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Mobilitati contro gli atti di razzismo nei confronti dei Rom e di altre nazionalità presenti in Italia,

come Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – onlus chiediamo:

VRATITE NAM NAŠU ZEMLJU – RESTITUITECI IL NOSTRO PAESE

J U G O S L A V I J A

Tanti residenti nei cosiddetti campi rom in Italia sono profughi dalla Jugoslavia distrutta, aggredita sin dal 1991 dall'interno e dall'esterno con embarghi, ingerenze di ogni tipo e bombe (Bosnia 1994-1995, Serbia e Montenegro 1999) e ulteriormente frammentata fino a oggi (Montenegro, Kosovo)… È scioccante tanta ferocia contro un paese dove cittadini delle più varie nazionalità godevano di ogni diritto e convivevano in pace all’insegna del motto Unità e Fratellanza (Bratstvo i Jedinstvo). Il processo innescato con le scelte criminose effettuate in ambito politico-diplomatico, militare, economico, culturale dal 1991 in poi è "a valanga", poiché non possono esistere "confini giusti" a separare le genti dei Balcani. Eppure l'Italia continua ad assumersi responsabilità spaventose ad esempio concedendo ancora un nulla osta alla creazione di una nuova gabbia etnica nei Balcani: la “Repubblica del Kosovo”. Si dimostra così di non avere appreso proprio nulla da 15 anni di tragedie!

Il Kosovo è stato riconosciuto da un governo dimissionario (Prodi), spaccato al suo interno sulla questione specifica, nonostante votazioni parlamentari che impegnavano a non riconoscere dichiarazioni unilaterali di indipendenza. Si è dimostrato disprezzo anche per le istituzioni internazionali: l'ONU (violata la Risoluzione 1244, spaccato il Consiglio di Sicurezza) e persino la UE (non tutti gli Stati UE riconoscono lo “Stato” kosovaro). Ora come durante la II Guerra Mondiale il Kosovo è zona di occupazione militare dell'Italia e di altre potenze straniere. Ora come allora tali potenze fomentano l'irredentismo pan-albanese e consentono l'instaurazione di un regime di apartheid. Ora come allora si prospetta il miraggio della Grande Albania. Come durante il fascismo, la politica estera italiana non disdegna alleanze con i settori più criminali presenti sulla scena internazionale: i killer dell'UCK, trafficanti di droga, armi, organi espiantati ed esseri umani, aguzzini del loro stesso popolo al quale hanno fatto compiere un balzo indietro di almeno un secolo dal punto di vista civile e dei diritti reintroducendo il kanun.

Anche sul territorio italiano sperimentiamo in concreto gli effetti di queste politiche infami. Sin dall'inizio degli anni Novanta e fino ad oggi nelle nostre città si è palesato il massiccio afflusso di profughi che da quei territori sono venuti a cercare una vita migliore, o almeno una garanzia di sopravvivenza. Tra questi profughi ci sono centinaia di migliaia di persone di tutte le etnie da noi definite impropriamente “nomadi” che nella Jugoslavia godevano di ogni diritto nazionale e individuale, avendo casa, lavoro, previdenza. A costoro nei Balcani non è stata regalata nessuna repubblichetta perchè, evidentemente, non risponderebbe agli interessi geo-strategici delle grandi potenze: viceversa, gli esuli jugoslavi e kosovari in particolare – oltre ai rom, anche serbi, askali, gorani, "egiziani", "bosgnacchi", "turchi"… – hanno trovato rifugio in molte località italiane talvolta grazie al notevole sforzo di enti e comunità locali, talaltra dovendosi adattare a condizioni di profondo squallore. Una dopo l'altra, le ondate di fuggitivi si sono sovrapposte creando crescenti difficoltà di integrazione in un contesto sociale-politico nel quale, soprattutto adesso, la problematica dell'immigrazione è agitata in senso razzista e con finalità strumentali.

MA DOVE DOVREBBERO ANCORA SCAPPARE I ROM JUGOSLAVI??

Soprattutto i rom, che in Italia sono storicamente trattati da ultimi della scala sociale, rischiano più di qualsiasi altro gruppo: esclusi e perdenti in partenza, da secoli. In Italia i diritti di cui godevano nella Jugoslavia e negli altri paesi socialisti (es. Romania) non sono mai stati neanche lontanamente conseguiti. Viceversa, una demagogia vigliacca addita nei rom il "nemico del popolo", il capro espiatorio di tutte le insicurezze e i disagi propri di questa società ingiusta. La voce che viene adesso amplificata all'inverosimile è che "i rom rapiscono i bambini"; è una storia che circola da tempo immemorabile benché in tutta la giurisprudenza non esiste un solo caso di rom che abbiano effettivamente rubato bambini. Il nuovo "caso" è successo a Ponticelli (Napoli), e già i pogrom si sono scatenati: schiaffi e pugni contro la ragazza che – dicono – teneva in braccio un bambino non suo, e poi bombe molotov contro i campi rom – tanto sono rom, non si difenderanno… L'anno scorso una rom rumena era stata malmenata e arrestata per avere accarezzato un bambino, e poi di nuovo picchiata in carcere. E dopo i fatti di Ponticelli, in un grande magazzino di Catania si è urlato a un altro inesistente “rapimento”. Inoltre, si imputano spesso ai rom fatti delittuosi commessi da persone di altre “etnie”. Il clima instaurato dai media e dai politici è quello della caccia all'untore, quello delle urla e dei linciaggi. Come nel Medioevo contro l'”ebreo sanguinario uso sacrificare bimbi cristiani”, o contro la donna accusata di “stregoneria” e bruciata sul rogo a furor di popolo…

O come è successo ai serbi kosovari nel 2004, accusati ad arte da media nazionalisti e razzisti di avere affogato tre bimbi albanesi, allo scopo di dare l'avvio a violenze indiscriminate contro i cittadini non-albanofoni. In Kosovo, infatti, persecuzioni e violenze di matrice irredentista si protraggono da anni sotto gli occhi quantomeno… disattenti dei soldati occidentali, spingendo i kosovari di etnia non-albanese o albanesi non-nazionalisti lontano dalla propria madrepatria. In questo si dimostra il prevalente carattere non umanitario della missione militare italiana: chiediamo perciò la fine di tali missioni neo-coloniali che costano cifre esorbitanti al provato bilancio dello Stato. Chiediamo che questi soldi così mal spesi vengano piuttosto usati in Italia per creare condizioni di vita decorose a queste persone doppiamente esuli e doppiamente vittime. Chiediamo che non si replichino da parte degli italiani gli atteggiamenti di fanatismo nazionalista e “pulizia etnica” spesso raccontati – quasi mai in modo veritiero e onesto – con riferimento al dramma jugoslavo.

A chi giustamente oggi paventa il pericolo del diffondersi di mitologie neo-etniche ... il riaffermarsi di un senso comune razzista e di pratiche razziste di massa facciamo notare che le premesse per giungere a queste abiezioni sussistono già da quasi venti anni: chi ha “sdoganato” lo squartamento “etnico” della Jugoslavia ha sdoganato anche il razzismo ed il revanscismo fascista nel nostro paese e in tutta Europa; chi partecipa alla spartizione delle risorse del Kosovo e dei Balcani dimostra di saper piangere solo lacrime di coccodrillo. Si risarciscano piuttosto gli jugoslavi per tutto quello che è stato loro sottratto con la perdita del loro paese: casa, lavoro, cittadinanza, speranze.

Solidarietà con il popolo rom! Basta con le favole sui “furti di bambini”, 
basta con l'odio e la disinformazione diffusi dai mass-media!
Solidarietà con chi viene in Italia a cercare una vita migliore!
Basta secessioni, basta gabbie etniche, basta "divide et impera": 
ritirare il riconoscimento della “indipendenza” del Kosovo!

Nessuna civiltà, nessuna democrazia è credibile
dove dominano nazionalismo e razzismo!
Nessuna Europa unita è possibile senza la Jugoslavia!
Viva la Fratellanza e l'Unità dei popoli!

Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia - onlus
 
sito internet: https://www.cnj.it/
posta elettronica: jugocoord(a)tiscali.it 
notiziario telematico JUGOINFO:
http://groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/messages




ROMA LIBRERIA ARION
VIA VENETO 42 presso Hotel Majestic Via Veneto 52

MARTEDI 3 GIUGNO 2008 ORE 18:00

La casa editrice Nutrimenti ha il piacere di invitarla alla

presentazione del libro di Alessandra Kersevan

LAGER ITALIANI
Pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili 
jugoslavi 1941-1943

Oltre all'autrice intervengono

Guido Crainz
Università di Teramo

Amedeo Osti Guerrazzi
Istituto storico germanico

Modera: Bruno Luverà
giornalista TG1

www.nutrimenti.net




Sapienza antifascista e antirevisionista

1) Alessandra Kersevan e Alexander Höbel rispondono al “Corriere della Sera”
2) Solidarietà agli studenti di Roma impegnati e mobilitati contro l’aggressione squadristica e la falsificazione storica dal Comitato promotore convegno “Foibe: la verità”


=== 1 ===

Al “Corriere della Sera”

A proposito dei dibattiti alla Sapienza sulle foibe

Leggiamo sul “Corriere” del 31 maggio che il preside della facoltà di Lettere della Sapienza, prof. Pescosolido, motiva il suo assenso al dibattito sulle foibe organizzato dalla componente studentesca di Forza Nuova col fatto che giorni prima si sarebbe svolto, sempre alla Sapienza, “un convegno negazionista” sullo stesso tema. Come studiosi intervenuti a quella conferenza – con una breve introduzione sul revisionismo storico (Höbel) e con un’analisi del fenomeno delle foibe basata su documentazione d’archivio e una disamina degli eventi che ne costituirono il retroterra (Kersevan) – respingiamo fermamente tale definizione, peraltro lesiva della nostra dignità di studiosi. Alla conferenza erano presenti vari docenti, che possono testimoniare dell’approccio scientifico delle nostre relazioni. Contestualizzare, analizzare sulla base di documenti e provare a interpretare i fatti sono le componenti essenziali del “mestiere di storico”. Non vorremmo che fuorvianti etichette contribuissero a chiudere un dibattito che – in particolare se svolto con i metodi e gli strumenti della storiografia – è auspicabile rimanga aperto.

Alessandra Kersevan

Alexander Höbel

(sul convegno che ha visto la partecipazione di Kersevan e Höbel si veda: http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/6019 )

 

=== 2 ===


Esprimiamo la nostra solidarietà agli studenti di Roma

 

impegnati e mobilitati contro l’aggressione squadristica, la falsificazione storica e che in cambio ricevono i fermi e gli arresti dagli organi preposti di quello stesso Stato che ha istituito la “Giornata del Ricordo” delle foibe e dell’esodo del 10 febbraio. Giornata che riabilita il fascismo passato e presente che nel vostro striscione avete definito “odio e aggressione” e che ha oppresso, represso, torturato, ucciso e precipitato nella guerra le masse popolari e lavoratrici del nostro paese.

Quale che sia il nome che la canaglia fascista assume oggi, sul piano istituzionale o militante, essa non ha mutato la sua sostanza reazionaria e antipopolare.

Come Comitato promotore del Convegno “Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico”, tenutosi a Sesto San Giovanni (Mi) il 9 febbraio scorso, abbiamo ritenuto “necessaria e importante la riconquista della verità storica basata su quanto accaduto e non su come gli eredi e ispiratori del nazifascismo vorrebbero raccontarla”.

A fronte di una campagna che mira ad instaurare una vera e propria egemonia politica e culturale è necessario superare un’impostazione meramente difensiva della questione, con una risposta politica determinata e documentata alle menzogne e alle falsità di forze reazionarie e revisioniste.

In questi anni il revisionismo (da destra e da “sinistra”) ha fatto carte false pur di deformare, falsificare e cancellare la storia. Nel nome della pacificazione e della costruzione di un’artificiosa “memoria condivisa” viene condotta una campagna di stravolgimento della verità storica, tesa alla sistematica assoluzione del fascismo e alla denigrazione di chi lo ha realmente combattuto – in particolare dei comunisti, che ebbero un ruolo fondamentale nell’antifascismo e nella Resistenza – arrivando alla vergogna di mettere sullo stesso piano nazi-fascisti, repubblichini e partigiani, combattenti per la libertà e oppressori o, peggio ancora, presentando i carnefici come vittime e martiri e i perseguitati come aggressori”.

Il lavoro che abbiamo finora condotto è in controtendenza, sia nel merito della battaglia politica, che nel metodo che abbiamo perseguito, negando il fare ognuno per sé e premiando la logica di unire le forze per valorizzare l’esperienza, la conoscenza, la militanza, la forza di organizzazioni, associazioni e organismi di compagni e compagne, nella comune battaglia politica.

Il feroce attacco sferrato contro il movimento partigiano organizzato e la Resistenza affinchè non viva come elemento di coscienza, forza e prospettiva di una nuova società, deve essere contrastato con una lotta capace di unire quello che la borghesia e la sua manovalanza fascista e squadrista vuole divisi.

Il criminale di guerra generale Graziani (che non ha mai pagato per i crimini in Jugoslavia e in Africa) dichiarò: “Non è necessario vincere la guerra perché il fascismo e i fascisti possano, sia pure dietro altre bandiere, salvarsi”.

La Resistenza non è mai finita, l’unico antifascismo è quello militante!

 

 

29 maggio 2008                                                  Comitato promotore convegno “Foibe: la verità”

 

convegnofoibe2008@...

(sul convegno “Foibe: la verità”, svoltosi a Milano il 9/2 u.s., si veda: https://www.cnj.it/INIZIATIVE/milano090208.htm )




TERRA - Condannati all'esilio

(c) Pervij Kanal, Russia 2007
testi di Evgenij Baranov
regia di Aleksandr Zamyslev
con riprese e testimonianze di Ninoslav Randjelkovic

"Questo è un film sul Kosovo. Questo è un film sul dolore, sull'assenza di solidarietà, sull'insensibilità, sulla cecità. Non è un film su come gli albanesi hanno perseguitato i serbi. È un film su come certe cose possano accadere sotto gli occhi di tutti senza che nessuno le veda. E non solo a Ovest, ma anche qui da noi in Russia".
Con queste parole Evgenij Baranov ha presentato il suo documentario sul Kosovo, realizzato con il regista Aleksandr Zamyslev e trasmesso nel dicembre del 2007 dal primo canale della televisione russa: un'opera di poco meno di un'ora che ricostruisce le vicende storiche e umane del Kosovo e Metohija mettendo da parte la correttezza e l'opportunità politica per concentrarsi sui volti e i racconti delle persone e sulla compassione per le loro sofferenze e sventure.
Il titolo originale, "Kraj", significa provincia, e più genericamente area, zona. Si riferisce dunque al Kosovo e al suo essere storicamente provincia serba, e dunque allude all'appartenenza a un'area geografica e a un diritto al ritorno negato. Significa però anche limite, margine, orlo: "na kraju" - al limite, sull'orlo del baratro - è dove si trova ora il popolo serbo. Nella consapevolezza di non poter riunire questi significati in un'unica intensa parola, abbiamo preferito tradurlo semplicemente "terra": un termine che, per tanti protagonisti di queste storie - costretti a un doloroso esilio e all'umiliazione e all'abbandono dei campi profughi - ha perso ogni significato geografico.

Qui ne presentiamo una versione divisa in sette parti, di circa 8 minuti ciascuna.
La traduzione dal russo ed i relativi sottotitoli in italiano sono opera di Manuela Vittorelli, che ringraziamo sentitamente per la sua disponibilità.

http://byebyeunclesam.wordpress.com/2008/04/19/kraj-documentario-russo-sul-kosovo-e-metohija/


riconsegna delle salme di desaparecidos serbi, 2006
storia; Kosovo Polje
intervista allo storico Slavenko Terzic

Batajnica: Milica Rakic, testimonianza del padre Zarko
bombardamenti 1999
testimonianza di Albert Andijev, volontario russo del nord Ossezia

Racak
Testimonianza di Helena Ranta (patologa a Racak)
I resti di Klecka

Testimonianza di Bozidar Delic (generale JNA)
L'appoggio di Lord Paddy Ashdown (futuro alto rappresentante in Bosnia)
e dell'MI6 all'UCK
Pogrom di marzo 2004
Suore di Devic
Video d'epoca della occupazione nazifascista

devastazione del monastero di Devic
Video d'epoca della occupazione nazifascista

ragazzi schipetari a Devic
storia di Hayriya
immagini dei primi anni 80
Video d'epoca della occupazione nazifascista
Testimonianza di Mitra Relic

(continua la testimonianza di Mitra Relic)
Mitrovica
devastazione dei cimiteri
testimonianza di Duska Percic
testimonianza di Bozidar Delic
testimonianza di Mileva Ristic


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Area - Fated on Exile
A Russian film on Kosovo

na srpskohrvatskom - with english subtitles

Russian film about Kosovo 1/7
 
Russian film about Kosovo 2/7
 
Russian film about Kosovo 3/7
 
Russian film about Kosovo 4/7
 
Russian film about Kosovo 5/7
 
Russian film about Kosovo 6/7
 
Russian film about Kosovo 7/7

The Russian documentary ``Area - Fated on Exile`` deals with the problem of Kosovo and Metohija. The film was shown two times in the beginning of December of 2007 on the First channel of Russian State television and provoked a huge interest by public.

The movie shows the destinies of people from Kosovo who for a number of years have lived in a state of permanent fear, despair and suffering. Within a historical retrospective the film analytically presents the causes and consequences of Kosovo and Metohija crisis. In the Russian documentary there are no politicians, its participants are historians, clergy, soldiers, publicists, journalists, pathologists, citizens...

The authors of the film, which is done in the production of First channel of Russian state television, are Yevgeny Baranov and Aleksandar Zamisov.

Hvala Bojanu Teodosijeviću, Jeleni Pašić i Maši Vujanović za prevod.

If you cannot open the videos by clicking the links copy and paste them into your browser.



In rosso le parti più demenziali di questa intervista al leader della destra albanese, che chiede tra l'altro i diritti di minoranza nazionale agli albanesi immigrati in Italia... Grande Albania fino alla Sicilia? E mentre Berisha delira, i lavoratori albanesi onesti come tanti altri stranieri in Italia sono bestialmente sfruttati e discriminati (vedi l'aggressione razzista a Kledi, cui va la nostra solidarietà - http://www.corriere.it/cronache/08_maggio_28/kledi_aggedito_albanese_razzismo_b8e207ea-2ce9-11dd-8f6e-00144f02aabc.shtml . A cura di AM; segnalato da PC)



L’INTERVISTA IL NUCLEARE

Berisha: siamo pronti a costruire
le centrali nucleari per l’Italia


Il premier albanese: «Sicurezza garantita. Avviati contatti con un gruppo»

DAL NOSTRO INVIATO


TIRANA—Signor Berisha, l’Albania è disposta a costruire le centrali nucleari che vuole Berlusconi?

«La mia decisione è di non escludere gli albanesi da questo grande potenziale che è l’energia nucleare. Più economica, più pulita. Manca un quadro normativo necessario, stiamo lavorando con l’Agenzia atomica di Vienna. Il progetto è avanti. Appena pronti, l’ideale sarà arrivare a un accordo coi Paesi vicini, Italia per prima. Finanzieremo col governo di Roma un impianto da costruire in Albania. E se questo non sarà possibile, ci rivolgeremo al settore privato per studiare il mercato balcanico e italiano».

Qualche settimana fa, Tremonti ha detto che l’Albania è una soluzione possibile. È vero che avete già individuato un sito a Durazzo? 

«Il nostro Paese è aperto all’energia atomica. Aperto a chiunque. Non ne ho ancora parlato col governo italiano, perché quello precedente era antinucleare. Con Berlusconi invece cambia tutto. C’è un gruppo italiano che è venuto a discutere la possibilità d’una centrale in Albania. Ma non abbiamo ancora deciso il sito. Sappiamo solo che ci sarà».

E i tempi? Il governo italiano ha parlato di cinque anni...

«Dipende. Se ci sarà un accordo fra i nostri governi, cinque anni è un termine possibile». 

Nucleare? Po, faleminderit! Non c’è bisogno di promettere sconti fiscali ai sindaci italiani: oltre Adriatico, c’è già il «sì, grazie» dell’Albania e del suo premier, l’eterno Sali Berisha che non rinnega vecchie alleanze («Prodi resta un grande amico! ») e intanto ne cerca di nuove («Silvio è il leone della Penisola! Ha fatto tanto per l’Italia e per i suoi amici! Avremo relazioni strettissime! Lo inviterò al più presto! »), magari attraverso singolari affinità: rieletto per la terza volta capo del governo con la promessa di dimezzare le tasse, a 64 anni questo cardiologo che viene dall’Albania ghega ha in mente un Paese in offerta speciale e senza troppe preoccupazioni: «Questo Paese offre tutte le garanzie per produrre nucleare sicuro. Avremo i migliori sistemi di quarta generazione. Nessuno avrà da temere, nel Mediterraneo ».

Con l’Italia, in passato ci sono stati anche progetti comuni sui rifiuti. Potete fare qualcosa per Napoli?

«Questione delicatissima. Le cose sono cambiate. Oggi, importare rifiuti dall’estero è vietato dalla legge albanese. Io credo che questo veto sia imposto anche da interessi particolari, perché in questo modo il business dei rifiuti lo fanno altri Paesi. Ma l’ostacolo legale è insormontabile ».

Frattini, da commissario europeo, vi promise tempi brevi per la libera circolazione in Europa. Ora però sta al governo con la Lega. Crede che manterrà?

«Frattini, grande amico! Nell’atteggiamento verso gli albanesi non può cambiare. Una volta incontrai Silvio, disse a me e anche ai media: non abbiamo problemi con gli albanesi. Infatti, la situazione in Italia sta migliorando. Ci sono almeno 400mila regolari, migliaia d’imprenditori, più di 10mila studenti ».

Lei è ottimista: in Italia c’è molta insofferenza...

«La criminalità organizzata è un problema ovunque. Noi l’affrontiamo con tolleranza zero. Ma se si guardano i nostri indici di criminalità, sono fra i più bassi d’Europa, più che da voi. Se l’Italia usa la mano dura coi nostri criminali, anche l’Albania se ne avvantaggia. Ma l’unica soluzione al problema degli immigrati legali è dare loro uno status di minoranza ».

Albanesi da tutelare come i sudtirolesi?

«Dipende. Se la minoranza supera il 10 per cento della popolazione, perché non dare queste tutele? Ma l’Europa non è ancora preparata».

Intanto, puntate all’ingresso nella Ue entro il 2014...

«Non pongo date. Non sono un profeta. Però penso che sarà molto più veloce di quanto immaginassi ».

Siete appena entrati nella Nato: ospiterete anche nuove basi militari?

«Straordinario risultato! Tutto ciò che la Nato chiede, siamo pronti a farlo».

La sua immagine all’estero non è buona, però. Il New York Times l’accusa di traffici illeciti. E dopo la tragedia di Gerdec, l’arsenale segreto esploso vicino a Tirana, critiche anche sugli affari della sua famiglia...

«Non c’è coinvolgimento mio e della mia famiglia. E questo grande giornale che usa intercettazioni di mafiosi!... Il Times si riferisce a una fornitura di munizioni del Pentagono. Gli albanesi non c’entrano. Siamo stati i primi a bloccare quel contratto. Quando ho visto che qui si raddoppiava il prezzo di vendita delle armi agli afghani, ho chiamato il presidente Karzai e gli ho detto: potete avere tutto gratis. Tutte le munizioni che servono. L’ho fatto durante la guerra dei Balcani, con le nazioni amiche!...».

A chi le davate, scusi?

«È storia vecchia ormai, lasci stare. Ma l’ho fatto. Abbiamo montagne di munizioni».

E poi c’è Carla Del Ponte: accusa l’Albania d’avere ospitato un lager Uck, dove si faceva traffico d’organi per finanziare la guerriglia kosovara...

«Io so che ci sono 1.500 albanesi desaparecidos in Kosovo. Sono da tre anni premier, ho sempre sostenuto la Corte dell’Aja. Questa donna non fornisce prove. Probabilmente, è affascinata da Agatha Christie. Ma è una pessima imitazione. Una scelta terribile dell’Onu, nominare questa donna che ha avuto un posto di così alta responsabilità e s’è inventata tutto. Chiederemo d’agire contro di lei».

Berisha da diciotto anni sulla scena: si ricandiderà?

«Ci sono solo due cose che possono pensionare Berisha. Dio onnipotente e il popolo albanese. Mi piace guardare al futuro, non al passato».

Francesco Battistini



www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 27-05-08 - n. 229

I consoci di Tadic rapirono Milosevic e lo consegnarono ai carnefici dell’Aia
 
Intervista ad Uros Suvakovic, importante membro del Partito Socialista di Serbia - SPS

 

Glas Javnosti 

 

25/05/2008

 

"L’SPS è un partito patriottico, mentre per DS, G17 Plus e gli altri piccoli partiti raggruppati attorno a loro, vale il vecchio detto Latino, per cui la migliore terra natia è ovunque."

 

Non sarebbe un modo onorevole, salire sullo stesso carro di Tadic
 
Quale governo preferisce maggiormente, quello con i DS [coalizione riunita intorno a Tadic] o quello con il SRS [Partito Radicale Serbo] e DSS-NS [i Democratici di Kostunica e la coalizione Nuova Serbia di Ilic]? E perché?
 
Non è questione di “preferire”. Questo è un problema morale. Non c'è modo un modo onorevole per i Socialisti di formare un nuovo governo con la coalizione Canak-Dinkic-Tadic. Chiunque avesse osato indicare tale prospettiva ai nostri elettori, su 100 di loro almeno 80 non avrebbero votato per noi e, mi creda, neanche io, né chiunque altro che persegua la Libertà, accetterebbe di prenderne parte, o di sostenere tale lista [di candidati]..

 

Non è troppo duro, considerando che DS di Tadic è membro dell’Internazionale Socialista?

 

È una falsità affermare che il Partito Democratico [di Tadic] è un partito politico di sinistra. Il fatto che abbiano aggiunto al loro nuovo programma poche frasi che concordano con l'orientamento social-democratico, non è motivo sufficiente per ottenere lo status di partito di sinistra. Mentre nei fatti, questa partito sta perfezionando un modello di economia liberale, ideologicamente contraddistinto da caratteri completamente di destra. Il risultato di questa privatizzazione - infervorata ideologicamente e non fondata economicamente - è che l'economia della Serbia è stata depredata, che i magnati hanno comprato tutto quello che era possibile comprare, che non c'è una vera produzione nel nostro paese, che il sistema bancario nazionale è stato annichilito, mentre le banche straniere sono state autorizzate a derubare i nostri cittadini...

 

Apparentemente, lei esclude la possibilità per DS, anche in alleanza con SPS e PUPS [Partito dei Pensionati Serbi], di correggere tale andamento?
 
Le conseguenze di tutto quello che hanno fatto è anche un tasso di disoccupazione record in Serbia, che ci mette al primo posto in Europa, la completa spoliazione dei diritti dei lavoratori, quelli abbastanza fortunati da mantenere i loro posti, ed un livello senza precedenti di corruzione. Perciò, il DS non ha a che vedere con i lavoratori, i loro diritti ed il loro lavoro, quanto piuttosto con gli interessi del medio e grande capitale.

 

Presumibilmente "Partito di sinistra", il DS di Tadic lancia una persecuzione contro i Socialisti
 
Secondo lei, quale formula del rapporto fra Kosovo-Metohija e Unione Europea è più vicina alle posizioni di SPS – quella di Kostunica o di Tadic?
 
Insieme con i Radicali e il partito di Kostunica, i Socialisti difendevano il paese dall’aggressione della Nato nel 1999, mentre il presidente dei DS [Zoran Djindjic, a cui è subentrato Tadic] stava “viaggiando” per l'Europa occidentale, chiamando alla prosecuzione dei bombardamenti sulla Serbia. La nostra resistenza alla NATO deriva dall’adozione della Risoluzione 1244, che garantisce la sovranità della Serbia sul Kosovo-Metohija. Ed ora, i DS stanno siglando diversi accordi con gli stati che prima ci bombardarono, e poi, nove anni più tardi, riconoscono l'indipendenza del Kosovo.

 

Il Presidente Tadic afferma che il governo SPS-DS rappresenterebbe una forma per riconciliare gli anni novanta [governo del Partito Socialista] ed il 5 ottobre [colpo di stato a conduzione CIA che portò la DOS al potere]. Questo è accettabile per lei?
 
Come "partito di sinistra", il DS si distinse perseguitando i Socialisti dopo il 5 ottobre. Il suo primo presidente ed i membri dell’allora Governo serbo, giunsero alla decisione di rapire Slobodan Milosevic e consegnarlo all’Aia, dando l’autorizzazione ai suoi carnefici di assassinarlo, non fornendogli un supporto medico adeguato. L'ultimo Congresso del SPS ha adottato una risoluzione, vincolante per la sua dirigenza, che esige il riconoscimento della responsabilità criminale di tutti coloro che presero parte alla consegna di Slobodan Milosevic all’Aia. Al tempo, Djelic [vice premier uscente, membro di DS] e Dinkic [ministro dell’Economia uscente, leader di G17 Plus] erano anche fra i massimi leader di stato. Quindi, come potremmo lanciare accuse criminali contro nostri “partner di coalizione”?

 

Il terribile comportamento della DOS al tempo dell’imperdonabile morte di Milosevic
 
Tadic sta invitando la coalizione riunita attorno a SPS nel governo, in nome della "riconciliazione nazionale", lasciando il passato agli storici...
 
L’attuale leader dei DS, nel ruolo di Presidente della Serbia e come membro dell’allora Alto Consiglio di Difesa della SCG [SCG: Federazione di Serbia e Montenegro] pretese e riuscì ad ottenere che all’esercito della SCG fosse vietata qualsiasi forma di partecipazione al funerale dell’ultimo Presidente di questo stato e fondatore del SPS, Slobodan Milosevic. Questo suo ordine fu portato avanti con diligenza tale, che fu anche proibito che le spoglie di Milosevic fossero tumulate nella cappella del VMA [Accademia Medica Militare], e gli furono proibiti anche tutti i tributi militari di cui aveva diritto. Un deputato del partito di Tadic, Nenad Bogdanovic, bandì il funerale dal Viale dei Grandi nella Nuova Belgrado.

 

Quale è la sua posizione riguardo alla ratificazione dell’Accordo di Stabilizzazione ed Associazione con l'UE?
 
Io credo che l’accordo sia stato firmato a scopo pubblicitario per il DS durante la campagna elettorale e che sia stata una mossa di persone irresponsabili che hanno a cuore gli interessi dello stato tanto quanto la neve dell’ultimo anno. Ma ora che l'accordo è qui, un suo annullamento frettoloso non sarebbe buono. Quindi, io penso che la posizione corretta sarebbe di analizzare interamente il SAA, su un piano tecnico e politico, e solamente dopo inviarlo all'Assemblea Nazionale per arrivare alla decisione finale. E, mi permetta di sottolineare - il modo in cui questo patto si riferisce al Kosovo-Metohija, come una parte integrante di Serbia è la principale, ma non l’unica mancanza. Questo patto, per esempio, autorizza l'importazione in Serbia di cibo geneticamente modificato e la vendita della nostra terra agricola agli stranieri, cosa che è contraria alle nostre leggi e alla Costituzione. Io credo sia importante che i nostri coltivatori siano a conoscenza di questo, come i nostri cittadini devono anche sapere che molti più leader serbi dovranno essere consegnati all’Aia perché quest’accordo divenga operativo.

 

Quale è la via d’uscita?

 

Vedo una soluzione nell'adottare poche esplicite riserve riguardo al testo dell'accordo che tutelerebbero il nostro paese. Ma nulla dovrebbe essere fatto a caldo, bensì in modo ponderato e studiato. Perché, la Serbia dovrebbe unirsi all'Unione Europea. In definitiva, tutti sono d'accordo su questo. Il punto di disaccordo è la difesa del Kosovo e Metohija. SRS, DSS-NS e SPS hanno sempre considerato il Kosovo-Metohija come la priorità numero uno della nostra politica nazionale, e che lo stato deve proteggere con tutti i mezzi il suo territorio e il popolo che lì vive, mentre DS, G17 Plus e gli altri piccoli partiti raccolti intorno a loro seguono il vecchio adagio Latino, che "la migliore terra natia è ovunque".

 

Lei è noto come l'uomo di fiducia di Mirjana Markovic [vedova di Slobodan Milosevic]. È il suo collegamento al resto del SPS in questi giorni politicamente accesi?
 
Lei ha contatti diretti col la dirigenza del SPS, prima di tutto col segretario del Partito Dacic ed il suo deputato Milutin Mrkonjic, così non è necessario che io faccia da intermediario.

 

Cosa dice la Markovic alla leadership di SPS? Quale scelta preferisce? E c'è una richiesta di amnistia per Marko Milosevic [il figlio] e Mirjana Markovic?
 
Questo dovrà chiederlo alla direzione del SPS. Quello che io credo profondamente è che lei, insieme all’80 percento dei nostri elettori, concorda pienamente con le indicazioni politiche che ho espresso in questa intervista. Riguardo all'amnistia per Mira e Marko, ogni leadership statale che rispetta i principi delle norme di legge dovrebbe prima fare questo.

 

Traduzione a cura del Forum Belgrado Italia

 



LE SPESE INUTILI DEL PARLAMENTO EUROPEO


SPR:HRVATSKA-PREVOD-EP U Evropskom parlamentu prevođenje s hrvatskog na srpski 

ZAGREB, 28. maja (Tanjug) - Na inicijativu Doris Pak i Hansa Svobode, u Evropskom parlamentu je od juče uvedeno prevođenje s hrvatskog na srpski jezik, jer su hrvatski prevodioci izdvojeni u posebnu kabinu, odvojenu od zajednilke kabine za srpski, bosanski i crnogorski jezik, javljaju danas hrvatski mediji. Hrvatski predstavnici bili su protiv ideje Sekretarijata EP da, shodno praksi Haškog suda, obezbedi zajednički prevod na hrvatsko-srpsko-bosanskom jeziku. (Kraj)

http://www.tanjug.co.yu:86/RssSlika.aspx?14006

Agendo in base all'iniziativa di Doris Pak e Hans Svoboda, ieri, nel Parlamento UE, è stata introdotta la traduzione dal croato al serbo (SIC), cosicchè i traduttori croati sono stati collocati in una cabina a parte, separata dalla cabina congiunta per serbo, bosniaco e montenegrino (SIC SIC). L'informazione giunge dai media della Croazia. I rappresentanti della Croazia erano contrari all'idea del Parlamento UE che, sulla scia della prassi del Tribunale dell'Aja, fosse procurata una traduzione unica per la lingua croata-serba-bosniaca.

(a cura di DK)




Roma 11/6: contro Bush e la guerra permanente

1) Bush torna a Roma per coinvolgere ancora di più l'Italia nella guerra permanente
Mercoledi 11 giugno mobilitazione nazionale (Patto permanente contro la guerra)

2) Non sottovalutare il ruolo dell’Italia negli scenari della guerra globale
Relazione della Rete dei Comunisti al Forum del Patto contro la guerra su "Gli scenari della guerra globale e il ruolo dell'Italia" (Roma, 24 maggio 2008)


=== 1 ===

Bush torna a Roma per coinvolgere ancora di più l'Italia nella guerra permanente

 

Mercoledi 11 giugno mobilitazione nazionale.
Appuntamento a Roma alle ore 17.00 in piazza della Repubblica

 Il presidente degli Stati Uniti Bush l'11 giugno prossimo sarà di nuovo a Roma per discutere con il nuovo governo Berlusconi - uno dei suoi più fedeli alleati in Europa - un maggiore coinvolgimento dell'Italia nelle strategie di guerra degli USA nei vari scenari.

Bush è "un'anatra zoppa" ma prima di concludere il suo mandato vuole approfittare del favorevole clima politico bipartizan in Italia per aumentare gli impegni militari del nostro paese. In poche parole Bush vuole più truppe da combattimento in Afghanistan, nuove regole offensive per il contingente militare italiano in Libano da utilizzare contro l'opposizione libanese, il pieno utilizzo dei militari italiani nei Balcani a difesa della secessione del Kosovo, il via libera ai lavori alla base militare del Dal Molin a Vicenza e l'allargamento operativo delle altre basi USA sul nostro territorio, la partecipazione attiva allo Scudo missilistico che già  si sta realizzando con le prime installazioni nei paesi dell'Europa dell'Est, una maggiore collaborazione tecnologica e militare tra aziende italiane e statunitensi (vedi l'escalation della Finmeccanica), la subalternità alle scelte della NATO, la disponibilità dell'Italia ai preparativi di guerra contro l'Iran, il rafforzamento della complicità militare e diplomatica tra Italia e Israele.

 

Una accresciuta aggressività militare finalizzata alla riconquista o all'ampliamento della propria sfera d'influenza sul mercato mondiale - oggi in evidente declino - è la risposta con cui gli Stati Uniti intendono rispondere alla recessione economica abbattutasi sull'economia USA. Il tentativo dell'amministrazione Bush è quello di accollare i costi economici, sociali e militari di questa sua crisi anche sui paesi alleati.

 

Su questa inquietante agenda di guerra, Bush troverà piena collaborazione da parte del governo Berlusconi, il quale si sta affrettando a far suonare le fanfare della guerra e del razzismo ed a peggiorare, se possibile, in Libano, in Afghanistan e di nuovo in Iraq, il  ruolo di guerra dell'Italia, già delineato da D'Alema come quello la sesta potenza (coloniale) del mondo, in quanto a presenza di militari oltreconfine.

Questa agenda la vogliamo e la dobbiamo ribaltare con una mobilitazione contro la guerra che non ha fatto e non farà sconti a nessun governo e a nessun soggetto politico che si sia reso complice della guerra permanente, delle sue alleanze e dei suoi obiettivi.
Il Patto permanente contro la guerra lancia un appello alla mobilitazione a tutte le persone che vogliono un altro mondo possibile in cui la Pace sia la stella polare della politica estera ed economica e la sicurezza sia inscindibile dalla solidarietà e dalla cooperazione e giustizia sociale. Non vogliamo che il nostro paese sia ancora complice della escalation di guerra e non vogliamo che dia il benvenuto a colui che massimamente ha incarnato in questi anni la guerra globale, la tortura e la sospensione dei diritti umani in tutto il mondo.  Per dire No a Bush e No alla guerra, per dire fuori l'Italia dalla guerra, chiamiamo tutte e tutti in piazza a Roma mercoledì 11 giugno per protestare contro la visita di Bush, per lanciare il nostro grido di allarme contro l'escalation di guerra.

 


L'11 giugno saremo in piazza a Roma contro la visita di Bush e per riaffermare la nostra piattaforma:

 - il ritiro immediato delle truppe italiane dall'Afghanistan, dal Libano, dai Balcani

  - la revoca della decisione di costruire una nuova base militare USA a Vicenza e lo smantellamento delle basi militari USA/NATO nel nostro territorio per riconvertirle ad uso civile

  - la revoca dell'adesione dell'Italia allo Scudo missilistico USA

  - la revoca della partecipazione alla costruzione degli F35

  - la revoca dell'accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele

  - il taglio delle spese militari a favore di quelle sociali.

Il Patto permanente contro la guerra



=== 2 ===

Non sottovalutare il ruolo dell’Italia negli scenari della guerra globale

(la relazione della Rete dei Comunisti al Forum del Patto contro la guerra su
"Gli scenari della guerra globale e il ruolo dell'Italia", Roma, 24 maggio)*
 
Il primo problema con cui dobbiamo fare i conti è la “ragione sociale” che è alla base della nostra alleanza e della nostra azione politica – il Patto contro la guerra – e la percezione politica e pubblica della questione che solleviamo: la guerra.

 

Il depotenziamento della guerra come categoria politica e morale

Il tentativo di occultare la guerra non è solo una responsabilità del sistema dei mass media. I mezzi di informazione non sono autonomi ma rispondono agli input che gli giungono dalla politica e dai poteri forti che ne sono gli azionisti di maggioranza. Prendersela con i mass media è una forma di auto consolazione che non ci aiuta a collocare la nostra azione al livello possibile (e ancora meno al livello che sarebbe necessario).

 

L’occultamento della guerra avviene ai livelli più alti della politica e della egemonia culturale. Cito due esempi.
“Il termine guerra, sotto il profilo giuridico, è diventato desueto ed è sostituito da quello più flessibile di conflitto armato” (tesi del prof. Natalino Ronzitti, docente della Luiss)
“Serve una nuova legge che regoli la partecipazione delle Forze Armate a missioni estere che non rientrano nell’ormai desueta categoria di “guerra”. (tesi di Giovanni Gasparini, responsabile di ricerca dell’Istituto Affari Internazionali). (1)

 

Queste tesi, sostenute da due autorevoli membri di quei think thank italiani legati alla NATO, al Ministero della Difesa e al Ministero degli esteri, sono indicativi del progetto di depotenziare la categoria della “guerra” come fattore che da un lato inquieta – giustamente – l’opinione pubblica riducendo i consensi ai governi “di guerra”e dall’altro pone una serie di questioni giuridiche e morali (vedi l’art.11 della Costituzione e il senso comune che intorno è stato costruito) che oggi si vuole rimuovere per poter partecipare apertamente e senza ostacoli a tutta la geometria variabile di operazioni militari previste dalla guerra preventiva.

 

Su questo terreno, la complicità bipartizan della politica è crescente. Oggi c’è il governo Berlusconi ma ieri con il governo Prodi non era diverso.
Alla fine del 2007, l’allora ministro della Difesa Parisi partecipò ad un seminario del Centro Alti Studi per la lotta al terrorismo e alla violenza politica. In questo seminario si è discusso della tesi della “4GW” (Four Generation Warfare) avanzato dallo storico militare dell’università di Gerusalemme Martin Van Cleveld. (2)
Questa analisi delle “guerre di quarta generazione” arrivava ad un paio di conclusioni per noi molto significative:
1)      Se non si può più distinguere la pace dalla guerra che cosa esattamente si ripudia con l’art.11?
2)      Affrontare le nuove minacce richiederà una sempre maggiore integrazione tra mondo civile e mondo militare perché cresce l’importanza del livello “morale” dello scontro.

 

Parlare dunque di lotta contro la guerra in una fase in cui “non si può più distinguere la pace dalla guerra” ed in cui il coinvolgimento degli apparati civili (vedi le Ong) e il livello “morale” del conflitto crescono e diventano decisivi, ci pone seri problemi di analisi, informazione e chiarezza politica sulla funzione e gli obiettivi di una coalizione di movimento come il Patto contro la guerra, che nella sua ragione sociale ha ripreso, fatto proprio e dichiarato quel “No alla guerra senza se e senza ma” che è entrato in collisione con quei settori della sinistra e del movimento pacifista niente affatto insensibili ai ragionamenti e alle categorie denunciate poco prima.

 

Dalla concertazione alla competizione. Nascono qui i pericoli di guerra

 

Una seconda riflessione riguarda un’altra tentazione storica dei movimenti contro la guerra: quello che potremmo definire la “sindrome della fotografia”. Una fotografia fissa una immagine, una fase storica ma non ha la capacità di indicare le tendenze che si mettono in moto dopo che la fotografia è stata scattata.
In questo senso, l’analisi della realtà internazionale non solo molto spesso è ferma ma non riesce a cogliere i mutamenti del processo storico. Se vogliamo fare degli esempi, la storia ci aiuta.
-          Nel 1900, tutte le potenze imperialiste (esattamente le stesse che oggi fanno parte del G8) intervennero insieme e di comune accordo contro la Cina dove era scoppiata la rivolta dei boxer.
Italiani, giapponesi, statunitensi, russi, inglesi, tedeschi, francesi mandarono le loro truppe a reprimere la rivolta e a spartirsi le concessioni sul territorio della Cina( Porti, ferrovie, snodi commerciali etc.). Quattordici anni dopo, le stesse potenze si sono combattute mortalmente nelle trincee della Marna o della Marmolada e in tutta la rete coloniale in cui erano presenti (Africa., Asia etc.).La concertazione imperialista del 1900 era diventata guerra interimperialista solo quattordici anni dopo ponendo fine a quel processo di globalizzazione compiuto del pianeta iniziato nella seconda metà dell’Ottocento e che aveva raggiunto il suo apice proprio nella Belle Epoque del primo decennio del Novecento.
Nel 1940, mentre le truppe naziste sfondavano al nord la linea Maginot (la linea di difesa francese), tra le aziende elettriche francesi e tedesche si continuavano a scambiare elettricità e transazioni finanziarie. Non solo. Fino a tutto il 1941 le fabbriche della Ford e della General Motors in Germania hanno costruito camion e mezzi per la Wermacht tedesca. Solo dopo fortissime pressioni del governo USA chiusero – a malincuore perché i profitti erano elevatissimi – la produzione sul suolo tedesco. Dopo pochi mesi gli USA dichiaravano guerra alla Germania. Ciò conferma che è vero che il capitale non ha confini né nazionalità ma che gli Stati (e la politica) alla fine prevalgono anche sugli interessi dei singoli capitalisti.

 

Questi esempi ci servono per capire che il movimento contro la guerra non può limitarsi a fotografare il passato e l’esistente ma deve cercare di individuare le tendenze per collocare dentro ed eventualmente contro di esse la propria azione politica.

 

Oggi le contraddizioni che portano alla guerra sono evidenti e agiscono concretamente. Non si tratta solo delle guerra asimmetriche a cui abbiamo assistito in questi anni (l’Afghanistan, l’Iraq, la Jusoglsvia somigliano molto alla spedizione contro i Boxer in Cina), ma di una escalation della competizione a tutti i livelli – incluso quello militare – tra le varie potenze.

 

Se cogliamo dunque la tendenza in corso, non possiamo che partire dal dato della perdita di egemonia degli USA nei rapporti di forza internazionali , un dato questo che aveva caratterizzato tutto il dopoguerra e il dopo guerra fredda. L’egemonia si fonda su tre fattori: economica, culturale, militare. Ormai gli USA possono contare solo sul fattore militare che però ne modifica lo status dalla potenza egemonica a quello della supremazia (militare appunto). Sul piano economico e culturale gli USA stanno perdendo quote crescenti di egemonia e stanno lottando con tutti i mezzi (anche e soprattutto quello della guerra e dell’economia di guerra) per cercare di mantenerla.

 

Se questa tendenza è vera, stiamo assistendo ad un cambiamento epocale: il passaggio dalla concertazione tra le grandi potenze (assicurato e dominato dagli USA come primus inter pares) alla competizione globale tra le grandi potenze.
Questa situazione è dimostrata dalla evidente crisi di tutte le istituzioni internazionali che hanno retto questo squilibrio/equilibrio tra le maggiori potenze e ne hanno assicurato la concertazione sia nella guerra fredda contro l’Urss sia nella gestione della globalizzazione dagli anni Ottanta fino ai primi anni del XXI° Secolo. Oggi queste istituzioni – niente affatto autonome dagli Stati – sono in crisi. E’ in crisi la WTO, il FMI, la Banca Mondiale, l’ONU, la Commissione Trilateral e persino la NATO. Sono dunque in crisi la maggioranza dei vecchi bersagli contro cui i movimenti altermondialisti si sono accaniti per anni ritenendole i “nemici principali”, espressione di un capitale collettivo senza volto e senza Stati. Oggi non è più così. Le vecchie camere di compensazione tra gli interessi delle varie potenze non funzionano più sia per le contraddizioni interne sia per l’affermarsi di nuove potenze (Cina, India, Brasile, Russia etc.). Questo nuovo scenario impone o una rinegoziazione generale – malvista dagli USA perché ne ratificherebbe il declino – o la paralisi delle istituzioni della concertazione multilaterale. (3)

 

Infine, ma non certo per importanza, oggi stiamo vivendo ben quattro crisi strutturali in una sola.
-         la crisi finanziaria dovuta ai buchi in bilancio delle banche
-         la crisi monetaria dovuta alla modifica del rapporto di cambio tra euro e dollaro (se la Finmeccanica avesse acquisito la statunitense DRS cinque anni fa avrebbe speso 5,2 miliardi di euro invece di 3,4 miliardi di euro)
-         la crisi energetica con il boom dei prezzi degli idrocarburi e la consapevolezza di aver raggiunto e superato il “picco” produttivo
-         la crisi alimentare scatenata dall’introduzione degli agrocombustibili che hanno fatto schizzare i prezzi delle materie prime agricole

 

Queste ovviamente sono tendenze e dinamiche di una realtà internazionale in movimento di cui non è facile prevedere gli sbocchi. Possiamo solo essere certi di due cose: che la fotografia delle relazioni internazionali valida fino al 2000 è sbiadita e che sulla base della storia, le contraddizioni che abbiamo preso in esame hanno sempre portato ad una guerra di carattere globale. E’ un quadro inquietante, ma un Patto contro la guerra non può assumersi la responsabilità di denunciare e agire per impedire che la realtà in cui opera precipiti lungo il piano inclinato della storia.

 

Esiste o no un “imperialismo italiano”?

Se è vero che la fase storica sta cambiando, non si capisce perché la fotografia sbiadita della realtà internazionale dovrebbe invece rimanere identica quando si passa ad analizzare il ruolo della “Azienda Italia” nei rapporti internazionali e negli scenari della guerra globale.
L’aumento delle spese militari, la crescita di un complesso militare-industriale intorno a Finmeccanica, l’invio di contingenti militari negli scenari di crisi, sono solo alcuni degli effetti di un mutamento del ruolo dell’Italia dagli anni Novanta a oggi.

 

Da un punto di vista delle categorie classiche, l’Italia è un paese compiutamente imperialista. Lo è dal punto di vista economico, finanziario e dell’integrazione nel cuore di uno dei poli imperialisti  come l’Europa. Il fatto che sia un sistema più debole rispetto a quelli più forti, non deve trarre in inganno né deve continuare ad alimentare il luogo comune degli “italiani brava gente”. L’Italia è stata una potenza coloniale come le altre e le atrocità e i saccheggi compiuti in Libia, in Africa orientale, nei Balcani non sono stati diversi da quelli compiuti da altre potenze.

 

Oggi, l’Italia oscilla tra la fedeltà/subalternità alle alleanze storiche come la NATO e l’Unione Europea (e che vede i governi che si succedono accentuare più o meno la fedeltà atlantica rispetto alle ambizioni autonome dell’Unione Europea) e la costruzione di una propria area di influenza e presenza economica e diplomatica.
Dalla metà degli anni Novanta, l’Italia ha partecipato ampiamente all’assalto verso l’Europa dell’Est con una gigantesca esportazione di capitali che ha superato ampiamente l’export di merci.
Con il primo Governo Prodi e Fassino sottosegretario agli Esteri, abbiamo visto definire nero su bianco l’ambizione dell’Italia a conquistarsi la sua fetta di bottino nei Balcani e nell’Europa dell’Est. (4)
Oggi in Romania ci sono 800.000 lavoratori rumeni alle dipendenze di 24.000 imprese italiane
La delocalizzazione produttiva è stata impetuosa anche in Albania dove l’Italia controlla anche la formazione delle forze di sicurezza e vorrebbe addirittura localizzare le centrali nucleari per la produzione di energia destinata all’Italia. Lo stesso meccanismo è avvenuto anche nel resto dei Balcani, mentre le grandi banche come Unicredit e Intesa-S.Paolo hanno fatto un notevolissimo shopping in tutta l’Europa l’Est. Lo stesso si può dire dell’Enel.
Due anni fa, a Forlì si tenne un convegno tra Confindustria e NATO organizzato dall’università, in cui i funzionari e i militari della NATO invitavano gli imprenditori a investire tranquillamente nei Balcani perché la presenza dei contingenti NATO assicurava il massimo di stabilità e garanzia per gli investimenti esteri.

 

Un discorso particolare merita poi il Maghreb dove l’Italia opera soprattutto nello spirito del neocolonialismo (conquista della forza lavoro più che delle risorse come avveniva per il colonialismo) e punta a conquistarsi un serbatoio di forza lavoro a buon mercato sia attraverso la delocalizzazione produttiva sia attraverso flussi migratori controllati. Su questo il ragionamento più organico è stato fatto proprio da Romano Prodi ed è alla base del grande interesse dell’Italia per il Mercato Unito Euro Mediterraneo del 2010 o – in subordine se questo processo fallisse – dell’Unione Mediterranea avanzata dalla Francia di Sarkozy per superare le recalcitranze degli altri paesi europei verso il Mediterraneo. (5)

 

Alla luce di questi dati – ampiamente documentati e documentabili ma completamente trascurati dall’analisi e dal dibattito – si capisce meglio perché l’Italia è il sesto paese per numero di soldati impegnati in missioni militari all’estero, perché mantiene contingenti militari in Libano e nei Balcani, perché vuole dotarsi di un complesso militare-industriale e di risorse economiche per la difesa adeguate alle proprie ambizioni. Uno studio recente fissa il minimo delle spese militari necessarie per essere adeguati a 20 miliardi di euro (circa 30 miliardi di dollari).
Secondo questo studio l’esercito deve essere completamente “expeditionary” (cioè proiettato e proiettabile al 100% all’estero entro i prossimi cinque anni), tagliando organici inutili (20.000 marescialli e 3.000 ufficiali) (6)
A questa dimensione offensiva della politica militare italiana dovremo abituarci, anzi, dovremo attrezzarci per ostacolarla in ogni modo nei prossimi anni. Non solo, l’Italia incrementerà in ogni scenario regole d’ingaggio più intrusive e aggressive. A fronte di questa realtà, i ragionamenti sulla “riduzione del danno” che abbiamo sentito dai gruppi parlamentari della sinistra nei due anni di governo Prodi, appaiono decisamente irritanti quanto miopi.

 

La percezione nella società degli scenari di guerra che coinvolgono l’Italia

A cavallo tra febbraio e marzo di quest’anno, il Laps (Laboratorio per l’Analisi Politica e Sociale) dell’università do Siena, ha realizzato un sondaggio commissionato dal Ministero degli Esteri (c’era ancora D’Alema) e allegato al rapporto redatto dal Gruppo di Riflessione Strategica sulla politica internazionale dell’Italia (7).
In questo sondaggio emergono alcuni dati interessanti sia per comprendere la percezione sociale degli scenari internazionali che coinvolgono l’Italia sia per avere un’idea dello spazio politico per l’iniziativa e i contenuti del movimento No War nel nostro paese.
Dai dati viene fuori ad esempio che la richiesta di fuoriuscita dalla NATO è ancora minoritaria e che lo sono anche le ambizioni ad autonomizzarsi dando vita all’esercito europeo. Gli USA perdono importanza ma anche un certo un certo “appeal” sociale.
Le missioni militari godono di consenso se non producono vittime tra i soldati italiani. Più perdite ci sono e meno ci sarebbero consensi. La missione meno popolare è quella in Afghanistan anche perché è percepita come quella più rischiosa.
Infine c’è una forte opposizione all’aumento delle spese militari e una congrua richiesta che vengano diminuite. In assenza di informazioni sulla quantità delle spese militari c’è uno zoccolo duro maggioritario che ritiene debbano rimanere invariate. Ma –e questo è interessante – se gli intervistati dispongono di informazioni cresce il numero di coloro che sono favorevoli alla riduzione e diminuisce il numero di coloro che ritengano debbano rimanere invariate.
Ciò significa che la missione militare in Afghanistan è il punto più  debole del sistema di consenso alla guerra e che le spese militari – in presenza di una iniziativa e di informazioni – possono essere un altro punto debole del consenso alla politica militare dei governi italiani.
Ad una domanda del sondaggio se gli USA rimangono il paese più importante per l’Italia, Nel 2002 la risposta affermativa veniva da parte del 15% degli intervistati, nel 2008 questa percentuale è scesa al 9%. Questa maggiore disaffezione degli italiani verso l’importanza degli USA viene però compensata da quello che viene definito il “sentiment” e che – in una scala da 0 a 10 – vede gli USA passare dal 6,38 del 2002 al 6,71 del 2008, superati però dalla Germania. Un discorso diverso riguarda invece la NATO.

 

La fedeltà alla NATO

                                                                                                 2002                       2008
L’Italia deve rimanere nella NATO così com’è                        32                           35
Rimanere nella NATO ma con forza e comando europei         47                           32
Ritirarsi dalla NATO e istituire un esercito europeo                 5                            11
Scegliere la neutralità                                                                10                          14


Le missioni militari all’estero

                                                                                        Contrari                Favorevoli
Missione in Kosovo                                                        27                           68
Missione in Libano                                                          33                           60
Missione in Darfur                                                          14                           81
Afghanistan (nel quadro degli sforzi internazionali)        32                           62
Afghanistan (con la partecipazione a combattimenti)       57                           37

La specificità della missione militare in Afghanistan

Favorevoli (senza perdite di soldati italiani)      61
Contrari (senza perdite di soldati italiani)          33
Favorevoli (anche con altri 20 morti italiani)     40
Contrari (anche con altri 20 morti italiani)         52
Favorevoli (con altri 100 morti italiani)             27
Contrari (con altri 100 morti italiani)                 64

Le spese militari

Gli intervistati non dispongono di informazioni sulla quantità di spese militari dell’Italia
                                                                                  2002                 2008
Le spese militari dovrebbero aumentare                     21                     13
Le spese militari dovrebbero diminuire                      25                     38
Le spese militari dovrebbero rimanere uguali             42                     42

Se gli intervistati dispongono di informazioni sulla quantità delle spese militari dell’Italia
                                                                                     2002                2008
Le spese militari dovrebbero aumentare                        --                     12
Le spese militari dovrebbero diminuire                         --                     41
Le spese militari dovrebbero rimanere uguali                --                     34


* relazione di Sergio Cararo della Rete dei Comunisti  


Fonti e note:

 

(1)   Da Affari Internazionali, pagina web dell’Istituto Affari Internazionali
(2)   Vedi  Carlo Buzzi in Pagine di Difesa, 3 dicembre 2007
(3)   Vedi AAVV “Il piano inclinato del capitale”, Jaka Book
(4)   Vedi “L’Italia s’è desta” (AAVV, edizioni Laboratorio Politico, 1997) e No/made Italy (AAVV,edizioni Mediaprint, 1999)
(5)   Vedi Romano Prodi “Un’idea di Europa”, Il Mulino 1998
(6)   Vedi Giovanni Gasparini in “Affari Internazionali”, maggio 2008
(7)   Il sondaggio del Laps e il Rapporto curato dal Gruppo di Riflessione Strategica (di cui fanno parte diversi centri studi, Confindustria, Banca d’Italia, banche, giornalisti, docenti universitari, comandi militari e istituzioni ) sono del marzo 2008




Area - Fated on Exile
A Russian film on Kosovo

na srpskohrvatskom - with english subtitles

Russian film about Kosovo 1/7

 

Russian film about Kosovo 2/7

 

Russian film about Kosovo 3/7

 

Russian film about Kosovo 4/7

 

Russian film about Kosovo 5/7

 

Russian film about Kosovo 6/7

 

Russian film about Kosovo 7/7

The Russian documentary ``Area - Fated on Exile`` deals with the problem of Kosovo and Metohija. The film was shown two times in the beginning of December of 2007 on the First channel of Russian State television and provoked a huge interest by public.

The movie shows the destinies of people from Kosovo who for a number of years have lived in a state of permanent fear, despair and suffering. Within a historical retrospective the film analytically presents the causes and consequences of Kosovo and Metohija crisis. In the Russian documentary there are no politicians, its participants are historians, clergy, soldiers, publicists, journalists, pathologists, citizens...

The authors of the film, which is done in the production of First channel of Russian state television, are Yevgeny Baranov and Aleksandar Zamisov.

Hvala Bojanu Teodosijeviću, Jeleni Pašić i Maši Vujanović za prevod.

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From:   info @...
Subject: Contributo Rete nazionale Disarmiamoli! al convegno del Patto permanente contro la guerra - 24.5.08
Date: May 25, 2008 9:00:53 PM GMT+02:00

Contributo della Rete nazionale Disarmiamoli! al convegno del Patto permanente contro la guerra - 24 maggio 2008
 
La caduta del governo Prodi ed il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi è una nuova tappa del travagliato processo politico che vede la classe dominante del nostro paese impegnata nel disegnare un assetto istituzionale stabile, in grado cioè di governare la cosiddetta “azienda Italia” nella competizione mercantile internazionale.

 

Nonostante l’eclatante debolezza, in soli 20 mesi l’esecutivo di centro sinistra ha però imposto al paese scelte fondamentali in politica interna ed estera, attraverso la stabilizzazione dell’intero quadro politico nazionale all’interno delle logiche della cosiddetta “governabilità”, della cogestione, tra forze politiche apparentemente alternative.

 

Le conseguenze del conflitto economico e militare determinato ed imposto dalle regole della suddetta competizione in atto sotto gli occhi di tutti.
Esse determinano in ogni paese scelte legate sempre più strettamente al complesso militare – industriale ed alle “proiezioni belliche” oltre confine, alla conquista di risorse strategiche, mercati e commesse per un sistema economico “civile” in piena recessione.

 

Il governo Prodi si è distinto per il vertiginoso adeguamento del “sistema paese” agli imperativi imposti dalle nuove offensive neocoloniali in atto. L’aumento in due anni del 24% nelle spese militari, oltre ad essere l’investimento bellico più cospicuo nella storia repubblicana, sottende un riorientamento strategico dell’economia nazionale.

 

Sotto il segno dei governi dell’ultima decade, con una marcata accentuazione del ruolo del centro sinistra, si è progressivamente composto un mosaico di scelte ed orientamenti atti a adeguare l’“azienda Italia” alle trasformazioni geopolitiche che negli ultimi 20 anni hanno sconvolto gli scenari internazionali.

 

  • Il “Nuovo modello di difesa” italiano e la nascita dell’esercito professionale, figli della complessiva riorganizzazione in senso offensivo delle forze militari statunitensi e N.A.T.O.
  • Le partecipazioni belliche dirette e le operazioni di “Peacekeeping”, che a partire dalla prima guerra del golfo del 1991, passando per il massacro jugoslavo del 1999, l’occupazione dell’Afghanistan nel 2001 e dell’Iraq nel 2003 hanno permesso di rodare ed affinare costantemente il ruolo ed i compiti del complesso militare / civile / industriale italiano nei vari territori occupati.
  • La costruzione di una complessa macchina “civile” in grado di affiancare le truppe sui fronti di guerra, composta da O.N.G., associazionismo “embedded” e aziende “conctractor”.
  • La “messa a servizio” della ricerca pubblica e privata – Università, scuole di specializzazione, C.N.R., centri studi – in funzione delle esigenze di costante sviluppo tecnologico e di know how dell’esercito professionale e delle aziende di armi e tecnologia militare.
  • La parallela costituzione di una vera e propria holding delle aziende militari italiane sotto il comando di Finmeccanica, conglomerato a partecipazione e controllo pubblico (oltre il 37%).
  • Il rafforzamento della presenza militare diretta N.A.T.O., statunitense ed israeliana sui nostri territori, attraverso nuove basi ed accordi militari, collaborazioni scientifiche, esercitazioni congiunte.

 

L’insieme delle scelte schematicamente elencate si sono in questi anni ricomposte attraverso politiche concrete, in grado di dispiegarsi con maggior chiarezza sotto la guida del centro sinistra piuttosto che con gli esecutivi di centro destra, smaccatamente filo statunitensi ed incapaci sino ad ora, per la base sociale ed industriale che rappresentano, di far giocare alla “azienda Italia” un ruolo da protagonista nell’area eurasiatica e mediorientale.

 

Durante il precedente governo Berlusconi l’Italia (soprattutto nel settore militare e tecnologico) non andò oltre le commesse e i brevetti concessi dagli Stati Uniti.
Il centro sinistra ha tentato invece di dotare l’Italia di un complesso militare-industriale capace di integrarsi su scala europea e di competere nello scacchiere di riferimento (Balcani, Eurasia, Medio Oriente, Corno d’Africa), senza mai mettere in discussione le alleanze “strategiche” d’oltre Oceano.

 

D’Alema e il Leonte libanese

 

Il modello che meglio ha incarnato la filosofia politico/militare e diplomatica del centro sinistra nello scacchiere d’interesse dell’azienda Italia è rappresentato dell’operazione “Leonte”, attraverso la quale il Sud Libano è occupato da circa 15mila uomini, tra militari (quasi 10mila, di cui 2.500 italiani) e civili di venti Stati diversi.

 

Il ruolo da protagonista ritagliato dal Ministro degli Esteri D’Alema in quella particolare crisi internazionale ha permesso di creare uno spazio alla diplomazia italiana ed europea ( e quindi ai suoi eserciti ed industrie) precedentemente preclusi.
Una miscellanea di arte diplomatica, capacità colloquiale, uso del settore civile come cuscinetto nelle relazioni con le popolazioni. Gli strumenti concreti della dottrina militare del “portare la pace” piuttosto che “forzarla” ( peacekeeping versus peaceenforcing ).

 

Un guanto di velluto che nasconde il pugno d’acciaio sul territorio dell’occupato (Libano) piuttosto che quello dell’occupante (Israele), dell’appoggio incondizionato all’illegittimo governo Sinora contro lo schieramento di partiti e organizzazioni della Resistenza libanese, della protezione delle frontiere d’Israele e degli interessi delle aziende e ONG italiane, impegnate nella ricostruzione di un paese devastato dall’aviazione israeliana, armata con bombe provenienti direttamente dalle basi USA presenti in Italia, come quella di camp Darby, che in Israele ha due depositi classificati.

 

Una politica estera che convinse l’ex “sinistra radicale”, schierata (ancora oggi) al fianco dell’occupazione del Sud Libano. Lo schieramento di sinistra non fece, infatti, mancare il suo appoggio ad una scelta smaccatamente neo colonialista e filo israeliana, in Parlamento con il voto favorevole all’invio delle truppe, ad Assisi il 26 agosto 2006 con il vergognoso slogan “Forza ONU” portato alla marcia dalle associazioni della Tavola della Pace.

 

Il “Leonte” dalemiano dovrebbe essere ora sostituito dal “panzer” Frattini, ma come abbiamo potuto osservare “sul campo” i cambi di strategia nel paese dei cedri devono fare i conti con alcune variabili molto insidiose, prima fra tutte la forza della resistenza nazionale libanese.
Sulla situazione libanese torneremo avanti nel documento.

 

Un altro tassello della diplomazia di guerra italiana: Il Kosovo

 

L’attivismo dalemiano di febbraio 2008 sul Kosovo, allo scopo di velocizzare i tempi di una “secessione pilotata” dalle pericolosissime conseguenze politiche e militari, nasconde anche in questo caso un orientamento dettato dal ruolo che l’Italia si è ritagliata nell’area balcanica, soprattutto in Albania.

 

Nella spartizione di territori e mercati in quella che è stata l’Europa “oltrecortina”, l’Italia ha progressivamente trasformato il paese delle aquile in un protettorato de facto.
Dall’inizio degli anni ’90 sino ad oggi, il sistema istituzionale albanese, l’esercito, le polizie, la pubblica amministrazione è stata ricostruita grazie ad un’accorta regia italiana.
In un contesto di disgregazione istituzionale, sociale ed economica, la debolissima struttura produttiva e commerciale albanese sono state facili prede dell’imprenditoria e delle speculazioni finanziarie. Basti ricordare il famoso scandalo delle “piramidi”, che a cavallo tra il 1996 ed il 1997 ridusse sul lastrico il 50% dei risparmiatori albanesi.

 

Una manodopera a bassissimo costo, un sistema di potere corrotto e permissivo, fanno dei territori albanesi terra di conquista ed affari per le piccole e medie imprese italiane, le quali esternalizzano produzioni altrimenti poco remunerative nel nostro paese.
La “grande Albania” che s’intravede dietro l’attuale secessione kosovara è quindi una proiezione del controllo italiano di un territorio ancora più vasto.
Il fatto che ciò avvenga in dispregio del diritto internazionale, contro gli accordi che a Kumanovo sancirono la fine dei bombardamenti NATO del 1999 poco importa ad una diplomazia determinata a ritagliarsi nicchie di potere nei territori sconvolti da guerre e occupazioni.
In questa area d’interesse probabilmente pochi saranno i segni di discontinuità tra il vecchio ed il nuovo esecutivo. Le filiere produttive direttamente coinvolte nello sfruttamento in Albania, Romania e paesi limitrofi sono in buona parte espressione diretta della “base sociale” del nuovo esecutivo: la PMI del Nord Est, un cooperativismo che prospera con le commesse militari (vedi CMC e CCC nel caso della base al Dal Molin), speculatori finanziari onnipresenti…..
 
Gioco di squadra sotto comando U.S.A.

 

Ad oggi la tabella di marcia del conflitto continua ad essere implacabilmente imposta dall’Amministrazione Bush e dal suo esercito, sia nei territori dilaniati da feroci occupazioni, sia nelle scelte interne ai vari paesi satelliti - come nel caso dell’Italia - costringendo talvolta i vassalli a scelte diplomatiche umilianti e ad investimenti apparentemente schizofrenici.

 

Ecco allora il consenso all’installazione di una nuova base U.S.A. all’aeroporto “Dal Molin” di Vicenza, la firma dell’accordo per l’assemblaggio dei bombardieri nucleari F35 mentre si investono miliardi per il concorrente europeo Eurofighter, la sottoscrizione dell’accordo per l’inserimento dell’Italia nel progetto USA di “scudo antimissilistico”, il coinvolgimento di sempre più forte di  uomini e mezzi per l’occupazione dell’Afghanistan, l’alleanza politico/militare strategica con Israele, proiezione geografica degli U.S.A. sui territori della Palestina storica, l’umiliante epilogo delle inchieste sul rapimento di Abu Omar e sull’omicidio di Nicola Calidari.

 

Esempi che evidenziano il limitato spazio di manovra per un paese come l’Italia, alla mercè dell’occupazione militare statunitense, esemplificata dalla presenza di 104 basi USA sparse su tutto il territorio nazionale, di servitù militari  N.A.T.O. e del nuovo esercito professionale italiano, che caratterizzano la nostra penisola come grande portaerei nel cuore del Mediterraneo

 

L’esecutivo Prodi ha partecipato al gioco di squadra della nuova spartizione coloniale in un ruolo di “attivismo subalterno”, senza mai fare un passo falso che mettesse in discussione o in difficoltà gli alleati strategici.
Una realpolitik che ha reso molto in termini di ruolo militare ( in questo momento al comando delle missioni in Libano, Afghanistan e nei Balcani sono posizionati generali e ammiragli italiani), di commesse ( l’Italia è la settima esportatrice di armi nel mondo ) e di proiezione delle industrie tricolori nell’area (ENI, Finmeccanica, imprese di costruzione, O.N.G. filogovernative).

 

I popoli dei paesi occupati, i lavoratori italiani, le popolazioni che vivono vicine alle basi militari hanno pagato con la vita, il salario, la dignità e la libertà il costo delle politiche “multilateraliste” del centro sinistra.

 

La storica comunanza di vedute tra l’attuale amministrazione U.S.A. e gli esecutivi della destra berlusconiana potrebbe accentuare il ruolo interventista dell’esercito italiano nei vari fronti d’intervento. Ciò dipenderà più che dalla volontà soggettiva dei leader della destra dalle condizioni oggettive sul campo, come emerso con estrema chiarezza in Libano all’inizio del mese di maggio 2008
Forse l’esecutivo berlusconiano ci risparmierà solo la nauseabonda coltre di ipocrisie, doppiezze, trasformazioni semantiche ed ideologiche alle quali ci aveva abituato il centro sinistra.
Le parole potrebbero riavvicinarsi al loro senso reale e il termine “guerra” potrebbe tornare ad essere usato per descrivere gli avvenimenti in corso.
Conoscendo però il pragmatismo criminogeno di questa destra reazionaria e forcaiola, le certezze su queste ipotesi di modifica sostanziale e formale di approccio alla politica estera del paese andrà verificata passo passo.

 

Di certo c’è solo il contesto ed il ruolo nel quale l’Italia è inserita. Un ruolo di prima linea nei conflitti bellici, odierni e futuri.

 

Le politiche di guerra, corda al collo della sinistra di governo.

 

Eviteremo di elencare le scelte di guerra ed antipopolari sottoscritte e sostenute durante tutta la legislatura dai partiti della cosiddetta “sinistra radicale”. Durante i 20 mesi di governo Prodi ce ne siamo occupati concretamente giorno per giorno, attraverso denunce puntuali, mobilitazioni, campagne di massa e manifestazioni.

 

Ci risparmieremo anche giudizi di merito su una classe politica cresciuta all’interno dei movimenti altermondialisti, particolarmente forti nel nostro paese per la particolare congiuntura politica internazionale ed interna precedente all’avvento del primo  governo Prodi.

 

Il miglior giudizio su questo ceto politico lo hanno dato le urne il 13 e 14 aprile scorso, fotografando in maniera impietosa, come già Piazza del Popolo il 9 giugno 2007, il fallimento totale di un percorso attraverso il quale si sono aperte le porte ad una destra reazionaria, legittimata a procedere su una strada bellicista già tracciata, come detto, dai precedenti governi di centro sinistra.

 

Vorremmo invece focalizzare l’attenzione - per sommi capi -  sulle cause politiche che a nostro modo di vedere hanno spinto un intero ceto politico a adeguarsi così “radicalmente” ai dettami di un governo tra i più militaristi della storia repubblicana.
Ci cimentiamo in questa sintetica analisi non per puro esercizio speculativo, ma per quella che riteniamo un’impellente esigenza del movimento contro la guerra, imposta dal precipitare della crisi politica di questi giorni.

 

Nei venti mesi di governo Prodi i gruppi dirigenti dei partiti della cosiddetta “sinistra radicale” hanno messo in pratica, dall’interno delle famose “stanze dei bottoni”, una linea politica che viene da lontano, maturata in anni di rapporti ambigui con i movimenti, di pratiche eminentemente istituzionali, di profonde revisioni nei propri riferimenti storici, teorici ed ideali.

 

Il quadro di insieme che emerge dal concreto esercizio del potere è quello di un ceto politico che ha assunto strategicamente l’orizzonte della gestione dello “stato di cose presenti”, in una fase storica nella quale i margini per politiche di condizionamento esercitate “dall’alto” sono evidentemente esauriti.

 

Le guerre di aggressione, l’occupazione militare dei luoghi di produzione strategici, la fine sostanziale di ogni trattato internazionale che regola i rapporti tra Stati,  sono oggi prassi comune ed elemento centrale del confronto tra potenze economiche, imponendo per ricaduta particolari regole all’economia, al mercato, alle politiche estere ed interne di tutti gli Stati.
L’analisi di questa drammatica congiuntura storica che l’umanità è costretta a vivere - a causa di un sistema economico profondamente iniquo, irrazionale e fallimentare - è stata e continua ad essere argomento di confronto all’interno del movimento no global,  dibattito un tempo assiduamente frequentato da chi, divenuto poi deputato o senatore, ha contribuito attivamente alla realizzazione di queste politiche di guerra.
Non è l’analisi o la presa di coscienza della realtà che ha diviso i movimenti da questa rappresentanza politica, ma  precise scelte di campo ed una prassi politica conseguente.

 

La presenza di queste rappresentanze politiche - direttamente o attraverso le strutture socio/culturali di riferimento - nel sottobosco della gestione delle missioni militari all’estero e nella cogestione delle politiche territoriali di un paese sempre più militarizzato come l’Italia - sono gli esempi concreti di una compromissione che va ben oltre la compartecipazione ad un governo.
Indicativi di questa complicità “dal basso” sono i silenzi-assensi delle amministrazioni locali di centro sinistra verso le servitù militari, basi della morte, accordi tecnologici o commerciali con paesi come Israele (da Aviano a Camp Darby, da Ghedi alle regioni Lazio, Toscana, Emilia-Romagna, Puglia etc.)

 

La partecipazione della “sinistra” al governo Prodi non è stata il frutto di una sequela di errori ma, lo ripetiamo, l’assunzione di un orizzonte strategico di compatibilità con l’esistente, che rischia - nonostante l’impressionante debacle elettorale – di continuare ad interagire nelle dinamiche politiche nazionali.

 

Le “grandi manovre” in atto per tentare di riciclare pezzi del ceto politico espulso dal gioco politico parlano chiaro. Una considerevole parte della società italiana non è più rappresentata in Parlamento e il sistema tenta di compensare questo pericoloso vuoto riproponendo “leader affidabili”, utili per continuare l’opera di “normalizzazione” in un paese nel quale storicamente si sono espressi alti livelli di conflittualità sociale, culturale e politica.

 

La posta in gioco di questo passaggio è molto alta, non tanto per la poco interessante sorte di ex deputati e senatori, ma per la tenuta di un movimento che in questi anni è riuscito a scrollarsi di dosso il ricatto del “governo amico”.

 

Passaggio di testimone in una staffetta di guerra

 

I primi passi del governo Berlusconi, sfrondati dalla retorica tronfia e muscolare di un esecutivo di chiara marca reazionaria, evidenziano da una parte debolezza e cautela nelle prime mosse di politica estera, ma soprattutto rendono tangibile la logica bipartisan con la quale saranno trattate alcune partite fondamentali per l’economia di guerra imbastita dal precedente governo Prodi .
In quest’ambito il punto di incontro politico/economico tra il vecchio ed il nuovo esecutivo s’intravede nel ruolo giocato da Finmeccanica.
Oltre ad assumere la funzione di camera di compensazione clientelare, con la recente assunzione nell’azienda a partecipazione statale di decine di parenti ed amici dei trombati dalle urne elettorali - rigorosamente bipartisan -, il 12 maggio scorso la holding tricolore ha rafforzato in maniera formidabile la sua posizione nel mercato internazionale delle armi, acquisendo il 100% della statunitense Drs Technologies.
Con 3,4 miliardi di euro, Finmeccanica si è comprata il diritto di entrare nel mercato della “difesa” di Washington, equivalente a più del 50% del mercato di armi nel mondo.

 

L’operazione, come evidenzia Sergio Finardi in un articolo uscito su “Il Manifesto” lo scorso 16 maggio, ha ovviamente una diretta implicazione politica.
Scrive Finardi “…Con l'acquisizione di DRS (il cui direttivo rimarrà solidamente in mano all'attuale management statunitense), Finmeccanica e i suoi dirigenti entrano nel circolo dell'apparato «securitario» statunitense che - attraverso le limitazioni di legge all'influenza di gruppi stranieri sulla produzione bellica statunitense nonché attraverso i meccanismi con cui si regolano i vari gradi di accesso dei dirigenti dell'industria bellica a informazioni segrete o sensibili - producono una reale sudditanza alle scelte strategiche delle Amministrazioni Usa e al loro apparato di intelligence. Le politiche produttive, di esportazione, e di alleanze di Finmeccanica saranno costantemente vagliate alla luce dei loro possibili contrasti con quelle scelte strategiche (ed eventualmente influenzate), mentre nello stesso tempo sarà creato un oggettivo e forte interesse da parte di uno dei maggiori gruppi industriali bellici europei a sostenerle onde non compromettere la «magica» permanenza sul mercato statunitense.
 
Va da sè che pezzi della politica estera italiana (semmai ce ne fosse bisogno) diverranno più sensibili alle pressioni statunitensi, per dirla con un eufemismo, in particolare in relazione al Medio Oriente e all'Afghanistan e in relazione alla costruzione di un'autonoma macchina bellica europea centrata sull'asse franco-tedesco. In altre parole, l'Italia si avvicina maggiormente alla funzione di cavallo di troia statunitense svolta da sempre dalla Gran Bretagna in Europa e si allontana da Parigi e Bonn….. Sarebbe interessante sapere…. quanto ha pesato sulla fattibilità dell'accordo l'azione del precedente governo Berlusconi, del governo Prodi (durante il quale a Finmeccanica è stato concesso di fare dei passi sulla partecipazione al sistema di «difesa» anti-missilistica strategica statunitense, la cosiddetta Strategic Defense Initiative), e di membri del board dei direttori di Finmeccanica come l'ex consigliere di politica internazionale di Prodi, Filippo Andreatta (figlio del più famoso Beniamino), e Giovanni Castellaneta, attuale ambasciatore italiano a Washington”.

 

L’acquisto della statunitense Drs Technologies da parte di Finmeccanica è descritto dalla stampa specializzata (Il Sole 24 ore) come un atto di fiducia del colosso statunitense verso il fido Berlusconi, tornato alle redini di comando.
A differenza di questa lettura, noi vediamo in questa colossale operazione economica la risultante di un lungo processo di “fidelizzazione” di tutto il panorama politico italiano ai voleri dell’imperialismo statunitense.
Come dire, diamo a Prodi quel che è di Prodi.

 

La falsa partenza di Frattini in Libano

 

L’operazione Leonte in Libano rimane al momento legata alla strategia dalemiana.

 

Le esternazioni dell’attuale Ministro della Difesa Franco Frattini sulle regole d’ingaggio delle forze UNIFIL hanno contribuito a determinare le condizioni dell’ultima fiammata di guerra nel paese dei cedri.
I precari equilibri sui quali si regge la tregua d’armi in Libano hanno subito un forte scossa a causa delle dichiarazioni del nuovo governo italiano, attualmente al comando del dispositivo multinazionale di stanza in Sud Libano.
Il governo filo occidentale Sinora ha tentato immediatamente di formalizzare sul campo l’ipotetico mutamento di rapporti di forza, varando provvedimenti atti allo smantellamento dell’autonomo sistema di comunicazioni di Hezbollah.

 

Di fronte alla forza dell’offensiva della Resistenza il governo illegittimo di Fuad Sinora è tornato sui suoi passi, seguito in poche ore dai neo ministri della difesa e degli esteri italiani.

 

Il recente accordo di Doha per l’elezione del Presidente della Repubblica libanese è la risultante di una nuova vittoria sul campo della Resistenza libanese. I “signori della guerra” d’Occidente ed i loro alleati locali dovranno cercare altre vie per scardinare questo punto di tenuta contro il progetto del “Grande Medio Oriente”.

 

Gli eventi che si sono susseguiti a Beirut e in altre zone del Libano dimostrano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’importanza strategica della Resistenza popolare nella lotta contro la volontà di guerra dell’asse filo occidentale nell’area.

 

I mass media italiani, sempre servili e benevoli con chi governa, hanno messo in sordina lo smacco con il quale la politica estera del governo Berlusconi ha iniziato il suo cammino.

 

Frattini però non demorde, ed all’ultimo Consiglio dei Ministri di Napoli rilancia sulle regole d’ingaggio dei soldati italiani in Afghanistan, dando anche in questa zona di conflitto un chiaro segnale di disponibilità alle pressanti e reiterate richieste statunitensi per un maggiore impegno nei combattimenti.

 

In termini generali, la memoria delle operazioni belliche gestite dal precedente governo Berlusconi testimoniano come sul campo, al di là di dichiarazioni roboanti, i compiti assegnati alle forze armate italiane siano sempre stati di “basso profilo”, di affiancamento e copertura alle operazioni belliche principali, di stabilizzazione di aree geografiche preferibilmente dove, come nel caso di Nassirija, sono collocati industrie o giacimenti di interesse italiano (ENI).
Vedremo nelle prossime settimane e mesi quali saranno gli sviluppi e le reali dimensioni di questo riorientamento “offensivo” delle truppe tricolori.

 

La guerra interna

 

La devastante campagna sulla “sicurezza” con la quale il governo Berlusconi ha iniziato il suo mandato affonda le radici in una regressione societaria profonda ed inquietante, prodotto di una serie di fattori economici, sociali, politici e culturali molto complessi, trasformatisi in ottimale terreno di coltura di una destra reazionaria e razzista.
Gravissime, a nostro modo di vedere, le responsabilità del ceto politico erede della storia dell’ex sinistra istituzionale, che ha progressivamente coadiuvato, introiettato e poi gestito direttamente il paese e le città attraverso politiche razziste, discriminatorie e xenofobe.
Esempi non mancano, e nessuno dei partiti che componevano l’ex governo Prodi è rimasto immune da queste degenerazioni.
Non è compito di questo documento analizzare il contesto storico – politico e l’ambiente socio/culturale che ha reso possibile il ritorno al governo del paese di un esecutivo dai tratti marcatamente reazionari.

 

Vogliamo invece evidenziare come questa regressione societaria veicoli perfettamente la militarizzazione dei territori.
Non c’è bisogno di analisi erudite per dimostrarlo, basta osservare l’attuale drammatica concatenazione di avvenimenti, ricordando quali e quanti strumenti sono stati messi progressivamente a disposizione dei vari Ministri degli Interni e della Difesa.
Anche in questo caso la logica della “staffetta” ha funzionato perfettamente, consegnando senza soluzione di continuità sempre maggiori mezzi coercitivi e meccanismi di militarizzazione della società ai governi.
Un mix micidiale di strumenti repressivi, utili per prevenire ed affrontare potenziali insorgenze sociali, determinate da una crisi economica che si preannuncia lunga e devastante.

 

Come dimenticare la trasformazione dell’esercito di leva in professionale, con la possibilità per i nostrani “Rambo” di accedere per linee preferenziali ad attività civili nei ministeri, nelle forze di polizia e nella pubblica amministrazione?
Come dimenticare la trasformazione dell’Arma dei Carabinieri in quinta forza armata dell’esercito?
Migliaia di carabinieri e soldati  di ventura addestrati nell’arte della guerra in Somalia, nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, pronti ad intervenire oggi nelle strade delle nostre città, come già programmato nell’ultimo Consiglio dei Ministri per risolvere “manu militari” la vicenda dei rifiuti a Napoli ed in Campania.

 

Altro strumento concreto di militarizzazione dei territori è lo sviluppo dell’industria di guerra.
La proliferazione ed il finanziamento di aziende, centri studi universitari, sistemi di produzione avanzati legati alla filiera bellica aumenta il numero di lavoratori direttamente ed indirettamente legati a sistemi produttivi garantiti solo dal permanere di focolai di guerra.
Cosa significhi questo in termini concreti lo hanno sperimentato negli anni ’60 del secolo scorso i pacifisti statunitensi, perseguiti non solo dalle forze dell’ordine , ma anche da importanti settori di classe operaia dipendenti dal sistema militare – industriale.
In termini ridotti, anche nel nostro paese già facciamo i conti con questa contraddizione, sia nelle battaglie per la riconversione delle fabbriche di armi, sia quando chiediamo la chiusura delle basi militari straniere. Il ricatto del lavoro è un’arma formidabile con la quale dover fare i conti, innanzi tutto con le maestranze, ma anche con le popolazioni locali.

 

Dietro i freddi numeri delle ultime due Leggi Finanziarie si nascondevano queste “armi di militarizzazione di massa”, a disposizione oggi della destra berlusconiana.
 
Il Movimento contro la guerra nella nuova fase politica

 

Il movimento contro la guerra espressosi sino ad oggi è stato il prodotto di un lungo processo di chiarificazione. In questi anni una soggettività plurale, radicata sui territori, nelle lotte contro le basi militari e militarizzazione della vita sociale, nella resistenza contro politiche che hanno decurtato immense risorse dalle tasche dei lavoratori a favore delle imprese belliche, è riuscita ad esprimersi attraverso una pratica indipendente dalle compatibilità di sistema e dei governi, mettendo ripetutamente in crisi il precedente esecutivo di centro sinistra.

 

La forza di questo movimento ha agito direttamente nello scenario politico nazionale, determinando prima  la “crisi” di governo del febbraio 2007 in seguito alla grande manifestazione contro la base di Vicenza.
Successivamente, la manifestazione del 9 giugno 2007 contro Bush e le politiche militariste del governo Prodi.
Giornata storica per il movimento, nella quale 150.000 NoWar ridicolizzarono i  200 burocrati della  “sinistra radicale”, ritrovatisi in Piazza del Popolo con l’obiettivo, clamorosamente mancato, di  “coprire a sinistra” l’esecutivo Prodi. Un segnale arrogantemente ignorato da un ceto politico che solo 10 mesi dopo sarà spazzato via dal Parlamento.
Così scriveva la Rete nazionale Disarmiamoli! all’indomani del 9 giugno 2007
“…Dopo un anno di subalternità alle politiche del nucleo duro del governo, il tentativo di “copertura a sinistra” ha prodotto un disastro, misurabile con il vuoto di Piazza del Popolo, che se abbinato alla debacle elettorale alle ultime amministrative danno la dimensione di una vera catastrofe.

Un intero ceto politico si ritrova solo, abbarbicato alle proprie poltrone ed ai propri indecenti stipendi, ma completamente isolato dalle piazze, dalle aspettative tradite di milioni di ex “elettori”. Come abbiamo detto ripetutamente in questi mesi: il re è nudo, e tutti lo hanno potuto vedere nell’impietosa rappresentazione di quella piazza vuota.

I 150.000 scesi in piazza contro Bush e le politiche militariste del governo Prodi esprimono - questo è il dato di novità assoluta - una soggettività plurale indipendente da politiche estere con connotati chiaramente bipartisan....”

Oggi assistiamo, come abbiamo in parte descritto in queste note, alla raccolta dei “dividendi di guerra” da parte di uno tra i più reazionari governi nell’alveo dei cosiddetti paesi del “mondo libero”. Una responsabilità storica, che ricade direttamente sia su quel sia rimane del ceto politico coagulatosi all’interno del PD che sui “nuovi extraparlamentari”.

 

Le scosse di assestamento del dopo terremoto elettorale, a ben vedere, rischiano di essere ancora più devastanti dell’epifenomeno centrale. Sono sotto gli occhi di tutti piccole e grandi manovre, più o meno indecenti, finalizzate a far rientrare dalla finestra un ceto politico espulso dalla porta della storia politica di questo paese.
Coadiuvare in qualsiasi forma queste manovre significherebbe contribuire a mettere una zavorra mortale nelle ali dei movimenti.

 

Coloro i quali hanno lasciato completamente vuoto un potenziale spazio di rappresentanza istituzionale per i movimenti, le lotte e le aspirazioni di un mondo libero dal bellicismo e dall’aggressività militarista, si devono assumere in pieno la responsabilità di questa catastrofe, facendosi definitivamente da parte.
Niente di più e niente di meno. 

 

Il Movimento contro la guerra, così come altre istanze di movimento impegnate nei vari ambiti di lotta, devono oggi più di ieri ricomporre un quadro d’insieme delle grandi energie espressesi in questi anni, con l’obiettivo di proiettarle in avanti.

 

Abbiamo di fronte nuovi e gravosi compiti d’organizzazione della resistenza contro la prevedibile ondata di bellicismo interventista.
Con il nuovo esecutivo cambieranno le forme attraverso le quali la cosiddetta “proiezione di potenza” dell’azienda Italia si esprimerà nelle varie aree d’influenza, dai Balcani al Medio Oriente, dal corno d’Africa all’Afghanistan.
Venuto meno il progetto multipolare a baricentro europeo del centrosinistra, l’esecutivo Berlusconi volgerà di nuovo la barra della proiezione estera italiana verso politiche smaccatamente filo atlantiste.

 

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(italiano / english)


Pogroms in Italy 
Il caso Ponticelli è una montatura


1) Il caso di Angelica, ragazza Rom accusata del tentato rapimento di una bambina di sei mesi avvenuto a Napoli, nel quartiere Ponticelli, è una montatura

2) Stop to anti-Roma violence in Italy! (European Network Against Racism - ENAR)

3) ARCI - COMUNICATO STAMPA:
Il Governo ritiri il c.d. Pacchetto sicurezza e apra un confronto con le parti sociali

4) Il nazista Romagnoli: "creare uno Stato Rom in Europa Orientale"

5) Militarizzazione, demagogia e razzismo di Stato: il governo Berlusconi si è presentato al paese (Rete dei Comunisti)

6)  IBRA, “LO ZINGARO” / Razzismo Rom: tifosi minacciano Pirlo , Ibrahimovic e Mihajlovic

7) «Ladri di bambini». Lo stereotipo senza prove che perseguita i rom (Il Manifesto)

8) Bologna 16 maggio - 21 giugno: L’estraneo fra noi. La figura dello zingaro nell’immaginario italiano

9) I media stranieri: "Italia razzista"


On pogroms by italians against rroms, slavs and rumenians see also / vedi anche:

Allarme razzismo. Un altro rapimento-montatura
(sul caso di Catania - 20 maggio 2008)


Dossier di Contropiano: Migranti, dogma sicurezza, razzismo di stato.
Militarizzazione, demagogia e razzismo di Stato (Rete dei Comunisti)
Stranieri e illegalità nell’Italia criminogena (Vincenzo Ruggero)
Il Sud e la paranoia repressiva, ovvero la perpetua emergenza (Adalgiso Amandola)
La città, lo spazio pubblico e la paura dell’altro:tendenze anti-urbane fra Stati Uniti e Europa (Roberta Marzorati)
Napoli e le sue banlieues. Un esempio di semi-cittadinanza delle "popolazioni interne" (Antonello Petrillo)
L'ossessione della sicurezza partorisce mostri (Contropiano)
Il mito perverso della sicurezza e la nuova dimensione della politica nella metropoli imperialista (Michele Franco)
Un interessante iniziativa territoriale del CSA Vittoria a Milano contro la logica della "sicurezza"


Il quotidiano razzismo dei quotidiani italiani 


Italia, i media fomentano pogrom contro i rom

 

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http://www.everyonegroup.com/it/EveryOne/MainPage/Entries/2008/5/18_Follia_antizigana_in_Italia._EveryOne_sul_rapimento_di_Napoli.html


Sunday, May 18, 2008
Il caso di Angelica, ragazza Rom accusata del tentato rapimento di una bambina di sei mesi avvenuto a Napoli, nel quartiere Ponticelli, è una montatura.


La testimonianza di Flora Martinelli, la madre della bambina, del padre di lei Ciro e dei loro vicini di casa è falsa. Il Gruppo EveryOne ha indagato accuratamente sull'evento che ha scatenato una vera e propria caccia al Rom, che da Napoli si è diffusa a macchia d'olio in tutta Italia. Fin dall'inizio le dinamiche del rapimento non ci hanno convinto, perché chi conosce la palazzina in cui sarebbe avvenuto il reato sa che è praticamente inaccessibile, sia per il cancello che per l'attenta sorveglianza degli inquilini, affermano i leader del Gruppo EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau. Vi sono poi discordanze fra le testimonianze della Martinelli, di suo padre e dei vicini. La donna in un primo momento ha dichiarato che la porta del suo appartamento sarebbe stata forzata, poi ha ricordato di averla lasciata aperta. Dopo aver notato la porta aperta, la madre sarebbe andata a controllare la culla, quindi sarebbe tornata verso il pianerottolo dove avrebbe sorpreso - passati almeno venti secondi -  la ragazzina Rom con la sua piccola in braccio. Non solo: avrebbe avuto ancora il tempo di raggiungerla e strapparle la bambina. Quindi la Rom si sarebbe mossa al rallentatore, consentendo a nonno Ciro di raggiungerla, afferrarla e schiaffeggiarla al piano di sotto. Alcuni dei vicini hanno riferito alle autorità che Angelica aveva ancora la bambina in braccio, quando l'hanno fermata. Ma non basta, perché nei giorni precedenti al fatto, gli inquilini della palazzina si erano riuniti più volte, con un solo ordine del giorno: come ottenere lo sgombero delle famiglie Rom accampate a Ponticelli. Dopo queste analisi di massima, il Gruppo EveryOne - che può contare su attivisti e organizzazioni locali - ha effettuato ulteriori accertamenti, sia presso il carcere, dove un funzionario, dopo aver ascoltato le ipotesi che scagionavano la presunta rapitrice, ammetteva: 

Avete ragione, anche noi siamo in difficoltà, perché questo non è un evento diverso da tanti altri, ma qualcuno ha voluto trasformarlo in un caso nazionale. Gli inquilini di Ponticelli fanno blocco: i Rom non li vogliono più. Qualcuno però, mostra qualche scrupolo di coscienza, ma ha paura, perché le pressioni sono forti e mettersi contro il comitato di Ponticelli è pericoloso. Angelica, in realtà, conosceva una delle famiglie che abitano in via Principe di Napoli, dove è avvenuto l'episodio, continuano gli attivisti del Gruppo EveryOne, ha suonato al citofono ed è stata notata da alcune inquiline. Pochi istanti dopo è scattata la trappola e la furia dei condomini si è scatenata contro di lei, che è stata raggiunta in strada, afferrata, schiaffeggiata e consegnata alla polizia. Vi sono testimoni che conoscono la verità e due di loro sono disposte a parlare al giudice. E' importante che l'avvocato Rosa Mazzei, che difende la ragazza Rom, non si faccia intimidire e sostenga la verità in tribunale. Un attivista di Napoli suppone che la linea di difesa potrebbe essere, invece, quella di ammettere il furto, ma non il tentato rapimento. Le conseguenze del caso di Ponticelli, con l'eco mediatica promossa da quotidiani e network, sono state gravissime e sono un indice evidente di come sia necessario abbandonare razzismo e xenofobia per riscoprire la strada dei diritti umani. 

Adesso è importante che le organizzazioni locali per i diritti dell'uomo vigilino sulla serenità di Angelica, che subisce pressioni gravi e intollerabili. Salvaguardare la tranquillità della ragazza significa salvaguardare la verità sul caso di Ponticelli, che è la tragica verità di un'altra ingiustizia, di un'altra calunnia, di altre disumane violenze subite dal popolo Rom in Italia, già colpito da emarginazione e segregazione, vessato da provvedimenti iniqui. Gli attivisti del Gruppo EveryOne concludono con alcune considerazioni che dovrebbero far riflettere: Da anni lanciamo l'allarme riguardo alla campagna razziale in corso in Italia. Grazie all'appoggio di forze politiche transnazionali attive nel campo dei diritti umani e civili, abbiamo ottenuto Risoluzioni europee e documenti-guida da parte delle Nazioni Unite, che ammoniscono l'Italia contro le sue politiche razziali. I Rom in Italia non sono criminali, ma famiglie in difficoltà. Su 150 mila 'zingari' presenti nel nostro Paese, 90 mila sono bambini. La speranza di vita media dei Rom, qui da noi, è di soli 35 anni, contro gli 80 degli altri cittadini. La mortalità dei bimbi Rom è 15 volte superiore a quella degli altri bambini. Sono numeri che esprimono una persecuzione. Riguardo alla criminalità Rom, essa non ha un'incidenza rilevante, come dimostrano i dati del Ministero degli Interni e le aggressioni nei confronti di italiani sono praticamente inesistenti. Il caso di Giovanna Reggiani fu un'altro grande inganno, perché il presunto omicida, Romulus Mailat, non è Rom, ma un romeno di etnia Bunjas, che non ha nulla a che vedere con i popoli 'zingari'. L'abbiamo documentato, a suo tempo, agli inquirenti e alla stampa, ma il nostro dossier scientifico non fu preso in considerazione. Il razzismo fa comodo a uno stuolo di persone, a partiti politici e media, alla criminalità organizzata, che muove miliardi di euro ogni anno. A questo proposito, ricordiamo che i Rom coinvolti in delitti agiscono quasi sempre per ordine di criminali mafiosi italiani, i quali - a causa dell'emarginazione e della segregazione in cui versano i 'nomadi' - li hanno ridotti in schiavitù. Lo sanno le autorità, lo sanno i politici e sarebbe ora che lo sapessero tutti i cittadini italiani.


Roberto Malini - Gruppo EveryOne - info@...

fonti: http://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o11920http://www.everyonegroup.com/it



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http://www.enar-eu.org/Page_Generale.asp?DocID=15296&langue=EN



PRESS RELEASE
Brussels, 19 May 2008

Stop to anti-Roma violence in Italy!

The European Network Against Racism (ENAR) strongly condemns the violent attacks on Roma settlements in Italy last week and urges all relevant EU institutions to take action to denounce these events.
Last week, a number of Roma settlements around Naples and Milan were set on fire by inhabitants following reports of a Roma girl allegedly having attempted to steal a baby.
ENAR is seriously concerned by the political and media discourse used in Italy to build a “Roma emergency”. The Italian authorities are conducting arbitrary detentions and expulsions, making provisions for discriminatory anti-Romani and anti-Romanian laws and measures and openly inciting its population to racially motivated violence. The Italian Interior Minister Mr. Roberto Maroni on 11 May stated that “all Roma camps will have to be dismantled, and the inhabitants will be either expelled or incarcerated”. It seems also that the Italian government is about to adopt a new security decree to control or expel immigrants, especially the Roma.
These measures and the current xenophobic discourse are propagating prejudice and encouraging the double identification Roma/criminals. A recent opinion poll showed that 70% of Italians would like to “expel” the Roma from Italy, regardless of the fact that a little more than 50% of them are Italian nationals and 20% are EU citizens.
Presenting the Roma as a threat to public security stigmatises an entire ethnic minority and goes against the very principles and values upon which the European Union is founded. ENAR therefore urgently calls on the Italian authorities to stop making anti-Roma discourses and to take all the necessary measures to ensure the protection of the Roma community. ENAR also urges all EU institutions to condemn and take action against the anti-Roma hate speech and discriminatory actions taken by Italian authorities.
ENAR President Mohammed Aziz said: “We are extremely worried by the anti-Roma and anti-immigrant rhetoric currently being used in Italy, resulting in the introduction of discriminatory measures and in fuelling racist sentiment. Italian and EU politicians must stand up to the EU commitment to fundamental rights and focus on promoting the social inclusion of Roma and implementing anti-discrimination policies.”


The European Network Against Racism (ENAR) is a network of European NGOs working to combat racism in all EU
member states and represents more than 600 NGOs spread around the European Union. Its establishment was a
major outcome of the 1997 European Year Against Racism. ENAR aims to fight racism, xenophobia, anti-Semitism
and Islamophobia, to promote equality of treatment between EU citizens and third country nationals, and to link
local/regional/national initiatives with European initiatives.

For further information, contact:
Georgina Siklossy, Communication and Press Officer
Phone: 32-2-229.35.70 - Fax: 32-2-229.35.75
E-mail: georgina@... - Website: www.enar-eu.org


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ARCI
UFFICIO STAMPA
Via dei Monti di Pietralata, 16
Andreina Albano
Tel. 06 41609267 – 348 3419402 albano@...

COMUNICATO STAMPA

 

Il Governo ritiri il c.d. Pacchetto sicurezza e apra un confronto con le parti sociali
 
Dichiarazione di Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci

 

 

Il c.d. Pacchetto sicurezza, varato ieri dal Consiglio dei ministri, contiene una serie di disposizioni che, se applicate, avranno delle conseguenze gravissime sul piano culturale e giuridico.
Vengono  di fatto  criminalizzati comportamenti riconducibili a fenomeni di disagio sociale, a cui si attribuisce un rilievo di carattere penale, anziché predisporre servizi e misure atte ad alleviarlo.
Viene introdotto il reato di immigrazione clandestina, un vero obbrobrio giuridico, su cui già sono stati espressi dubbi di costituzionalità e che otterrebbe l’effetto di paralizzare un sistema giudiziario già intasato.
Già abbiamo avuto modo di spiegare come sia responsabilità dell’attuale normativa l’ingresso irregolare nel nostro paese, data l’inapplicabilità del sistema della chiamata diretta da paese a paese.
L’aumento delle pene, a parità di reato, per i cittadini stranieri e la procedura di espulsione per una condanna superiore a due anni rappresentano un doppio livello giuridico, incompatibile con il principio universale della responsabilità penale che non può essere manipolato a seconda della nazionalità.
Il divieto di affitto agli immigrati irregolari è in aperta violazione della nostra Costituzione che riconosce il diritto di tutti i cittadini ad un’esistenza dignitosa, così come prevede anche la Carta dei diritti dell’Unione europea che parla di “diritto all’assistenza abitativa”.
Si trasformano i Centri di detenzione in vere e proprie galere, dove, senza assistenza legale, si può restare rinchiusi fino a 18 mesi.
Si rischia, con questi provvedimenti, di distruggere i principi cardine del nostro stato di diritto, disattendendo a gran parte delle norme europee che tutelano i diritti universali e vietano interventi discriminatori.
Siamo convinti che per rassicurare i cittadini servano ben altri interventi, favorendo la coesione sociale e la civile convivenza, adottando misure che servano a far uscire dal disagio e dal degrado i cittadini italiani quanto quelli stranieri.
Chiediamo al Governo di ritirare questi provvedimenti, di aprire un confronto con le organizzazioni dei migranti, dei rom, e con quelle associazioni che da anni si occupano della loro accoglienza.
Chiediamo un intervento urgente della Commissione europea che costringa l’Italia ad adeguarsi alle norme previste dai Trattati e dalle direttive europee.

 

Roma, 22 maggio 2008

 

 

Filippo Miraglia
Responsabile Immigrazione ARCI
Via dei monti di pietralata 16
00151 Roma+
tel. +39.3484410860
e mail miraglia@...


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Il nazista Romagnoli: "creare uno Stato Rom in Europa Orientale"

Notizia pubblicata il 22.05.08 da Reuters Italia:

Il leader della Fiamma Tricolore Luca Romagnoli, che alle ultime elezioni politiche italiane era candidato nella lista de “La Destra”, ha anche proposto “la creazione di uno Stato rom magari in un’area dell’Europa orientale” perché, ha detto Romagnoli, da quella zona proviene la maggior parte della popolazione di origine rom.

 

Ogni riferimento a “Der Führer baut den Juden eine Stadt...” è del tutto casuale?

Claudia Cernigoi


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Militarizzazione, demagogia e razzismo di stato.

Il governo Berlusconi si è presentato al paese

 

Il nuovo governo Berlusconi ha già calato le sue carte principali. Con un abile miscela di provvedimenti popolari (eliminazione dell’ICI), demagogici (la cacciata dei rom e l’arresto degli immigrati clandestini) e repressivi (la militarizzazione della gestione dei rifiuti in Campania e l’arresto per chi si oppone alle discariche), il nuovo esecutivo sta passando ad incassare la cambiale che aveva firmato con i poteri forti e con il senso comune più reazionario e razzista radicato nel proprio elettorato.
Dalla Campania i comitati popolari a Chiaiano, Taverna del Re e in altri territori hanno già detto che non si lasceranno intimidire, mentre l’Unione Europea ha condannato il carattere razzista dei provvedimenti contro rom ed immigrati.
Ma le misure adottate dal governo Berlusconi godono e godranno ancora del consenso di vasti strati della popolazione e potranno contare sulla complicità bipartizan del Partito Democratico.
Le campagne d’ordine e la militarizzazione della vita sociale, indicano la cifra del nuovo esecutivo e della fase politica con cui dovremo fare i conti nei prossimi mesi.
La sinistra anticapitalista e i movimenti sociali devono essere consapevoli di rappresentare oggi una minoranza politica e sociale decisamente controcorrente rispetto al senso comune e alle coordinate di una politica ormai caratterizzata dal dogma della governabilità. Esserne consapevoli significa capire il ruolo da giocare dentro questa fase e questo non potrà che essere un ruolo di opposizione e resistenza politica e sociale.
Il 43% degli intervistati in un recentissimo sondaggio, non condivide la decisione del governo Berlusconi di militarizzare la soluzione del problema rifiuti a Napoli. Il dato in sé dice poco e dice molto. Dice molto perché è un risultato decisamente in controtendenza rispetto a tutte le altre risposte del sondaggio che sono invece assai positive sui provvedimenti adottati dal primo Consiglio dei Ministri tenutosi a Napoli mercoledì 21 maggio.
E’ dunque un risultato importante che dimostra come la “furbizia” con cui il nuovo esecutivo intende gestire il mix di provvedimenti popolari, demagogici, reazionari e repressivi, possa incontrare sulla strada la dovuta resistenza anche all’interno di segmenti importanti della società.
Se oggi la prima linea contro la militarizzazione della società è Napoli e la Campania, è evidente come ogni area metropolitana diventi una trincea politica, morale e sociale contro il razzismo e la repressione incombenti sul paese.

 

Non dobbiamo assolutamente lasciare soli gli attivisti e i comitati popolari di Napoli e Campania
Non dobbiamo assolutamente lasciare soli i lavoratori immigrati e le loro famiglie
Non dobbiamo consentire di frantumare nuovamente il fronte della resistenza sociale

 

La Rete dei Comunisti

 

 

Mail: cpiano@... 


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DI SEGUITO UN ARTICOLO CHE SARA' PUBBLICATO SU SENZA SOSTE, SETTIMANALE DI CONTROINFORMAZIONE LIVORNESE.


-       IBRA, “LO ZINGARO” -

 

In una sua bellissima canzone, intitolata “Sally”, Fabrizio De Andrè cantava: “Mia madre mi disse/non devi giocare/con gli zingari nel bosco...”. Questo a testimoniare che il pregiudizio, l’ostilità, la diffidenza verso le comunità gitane è ancestrale e la storia ha dimostrato che sovente questa intolleranza si è trasformata in vera e propria persecuzione razziale.

Cinquecentomila sono, infatti, gli zingari uccisi nei campi di Auschwitz, Dachau, Birkenau, Treblinka in quella “soluzione finale” che determinò l’eccidio di massa degli “asociali”: ebrei, comunisti, omosessuali, slavi, handicappati. Tutti coloro che erano, giustappunto, considerati incompatibili con l’ordine costituito.

Negli ultimi tempi, esattamente da un anno a questa parte, i mass media nostrani hanno dato il là ad una scientifica campagna di (dis)informazione tendente a dimostrare, sulla mera e approssimativa base di fatti di cronaca nera, che i rom sarebbero una “razza delinquenziale”, predisposta geneticamente al crimine e alla destabilizzazione sociale. Gli zingari come razza non solo inferiore, ”subumana”, ma dannosa, e come tale da cancellare. Attraverso sgomberi, punizioni “esemplari”, e, magari, veri e propri pogrom imperniati sulla voluttà della cancellazione dell’altro, del diverso, dell’asociale.

Tutto ciò, com’è pacifico, in barba ai principi più elementari del diritto tra cui per l'appunto l’obbligo , culturale e giuridico, di distinguere, sempre, tra persone e gruppi, tra singoli colpevoli e intere comunità, tra individui su cui eventualmente grava il peso della responsabilità penale personale ed etnie e nazionalità discriminate in blocco.

Se si offusca, come sta accadendo, questa basilare distinzione i gruppi umani colpiti in quanto tali diventano colpevoli per il semplice fatto di esistere, la loro stessa presenza appare come un ingombro da rimuovere e da estirpare, un virus da sconfiggere anche con la mobilitazione “purificatrice” di chi si sente minacciato e circondato da una forza oscura e inquietante.

Molte volte, però, il caso gioca brutti scherzi ai professionisti della (dis)informazione.

Accade, infatti, che il campionato di calcio venga deciso dalle prodezze di un campione, figlio di profughi bosniaco-croati, di etnia rom (rom Korakhanè, per la precisione)trasferitesi in Svezia negli anni ’70: Zlatan Ibrahimovic.

Ma cosa volete che importi ai mestieranti giornalai di Repubblica e del Corsera, della Rai e di Mediaset, che a decidere le sorti del campionato più bello del mondo (che fu)sia stato uno “zingaro”(così come viene affettuosamente soprannominato dai suoi compagni di squadra)?

Per la nomenclatura mediatica nostrana i rom sono soltanto “ospiti”indesiderati, uomini e donne il cui valore monetario si avvicina allo zero assoluto e per i quali non si paga l’acquisto, ma l’espulsione.

E cosa volete che importi agli interisti di governo come Ignazio La Russa (Ministro della Difesa che per la cronaca ha seguito la partita in un salotto ”bipartisan” insieme a Sabrina Ferilli e Flavio Cattaneo...), a Franco Servello (storico camerata di “moschetto” di Almirante e da 30 anni onnipresente ai vertici dirigenziali dell’Inter...), ai giornalisti-interisti che soffiano sul fuoco della persecuzione razziale, come Enrico Mentana che le loro gioie sportive sono dovute in buona parte ad un figlio di padre bosniaco e di madre croata che, come i tanti rom che vediamo scappare dalla giungla italica, negli anni’70 fuggirono dalla lontana Tucla, Bosnia-Herzegovina?

La famiglia rom Korakahne (bosniaca) di Zlatan Ibrahimovic, è utile ribadirlo, è riuscita ad arrivare agevolmente in Svezia, democrazia molto più solida della nostra, e grazie alla diversa situazione politico-sociale-culturale è diventato uno dei più celebri calciatori del mondo.

In Italia i rom devono, sono costretti a chiedere la carità per sopravvivere, a stento,  e anche se ci fossero talenti, in qualsiasi campo, questi sarebbero sotterrati dai comportamenti razzisti dei vari nazisindaci “bipartisan” come Alemanno, Domenici, De Luca, Moratti (Letizia...).

Ad onor di cronaca altri celebri calciatori sono di etnia rom e sinti tra i quali spicca senz’altro Andrea Pirlo (sinto italiano), capitano della nazionale campione del Mondo (!!!). Semmai bisognerebbe chiedersi perché essi non si espongano. La risposta è tautologica: hanno paura di essere discriminati.

Questo è dunque, il pericolo reale e concretissimo, che oggi incombe sull’Italia declinante: lo sdoganamento del razzismo, il processo culturale per cui oggi in Italia è possibile essere e dirsi razzisti senza che nessuno si indigni, è possibile, senza contraddittorio, dire che gli immigrati ci procurano un senso di fastidio e, dunque, non li vogliamo. E poi magari votare indifferentemente per il PDL o per il PD...

Che ognuno di noi si faccia moltiplicatore di questa indignazione in modo da rompere quel silenzio sulle discriminazioni anti-rom che offusca le coscienze. Per fare come Fabrizio De Andrè che nella citata canzone cantava: ”E dite a mia madre/che dal bosco non tornerò”.

Silvio Messinetti


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Razzismo Rom: tifosi minacciano Pirlo , Ibrahimovic e Mihajlovic

"La campagna razziale contro i Rom mette a rischio la loro incolumita'". Lo dichiara il gruppo Everyone sottolineando che il pregiudizio che colpisce il popolo Rom in Italia rischia di degenerare in un'indiscriminata caccia all'uomo.
A Napoli si verificano continue aggressioni nei confronti di Rom. Una baracca di via Malibran è stata data alle fiamme da una banda di razzisti e i 13 occupanti, sei adulti e sette bambini, fra cui due neonati, hanno riportato ustioni e rischiato di morire bruciati. A Ponticelli giovani armati di spranghe hanno aggredito alcuni Rom romeni. In via Argine, inseguimento di bambini Rom da parte di razzisti che nascondevano il volto dietro sciarpe. L'ultimo episodio - sottolinea l'associazione per i diritti umani - ha visto un bambino Rom di circa sei anni aggredito da una ronda in piazzetta San Domenico, schiaffeggiato, insultato e messo a forza sotto il getto di una fontana pubblica.

Ma in tutta Italia, da nord a sud, gli episodi di antiziganismo e violenza si susseguono, quasi sempre ignorati dai media. "La Commissione europea deve intervenire con urgenza," affermano preoccupati i leader del Gruppo EveryOne Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau "perché l'incitazione all'odio razziale a mezzo stampa e le politiche razziali sono proibite espressamente da Direttive, Risoluzioni europee e Carte dei Diritti degli individui e dei popoli. Abbiamo elementi sufficienti per affermare che il caso della ragazzina Rom che avrebbe tentato di rapire un bambino a Napoli è una messinscena, ma prima ancora del verdetto della magistratura, politici e media hanno espresso un giudizio di condanna non solo nei suoi confronti, ma in quelli di tutto il popolo zingaro".
Da tempo il Gruppo EveryOne mette in guardia l'opinione pubblica, la stampa e i politici onesti "contro il rischio di casi montati ad arte per seminare odio contro gli zingari e aprire la strada a leggi razziali come il prossimo decreto sicurezza e le famigerate 'commissioni Rom' che ricordano analoghe istituzioni naziste. Sono provvedimenti illegittimi" continuano i tre referenti "che in sede Ue saranno stracciati in mille pezzi".
Ma gli attivisti del Gruppo EveryOne lanciano l'allarme anche riguardo ai rischi che in questo clima potrebbero riguardare anche i Rom

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http://www.tanjug.co.yu:86/RssSlika.aspx?13875

BEOGRAD, 25. maja (Tanjug) - Bulevar Zorana Đinđića u Beogradu
osvanuo je danas oblepljen plakatima sa natpisom Ulica Slobodana
Miloševića. "Omladinska inicijativa Rakovice" predstavila se kao
organizator akcije lepljenja plakata na Novom Beogradu i Rakovici pod
nazivom "Rehabilitacija Slobodana Miloševića".

Il Viale Zoran Djindjic a Belgrado, nella giornata odierna, è stato
tappezzato lungo tutto il percorso con locandine con la dicitura:
"Via Slobodan Milosevic". L'associazione "Iniziativa giovanile del
Comune di Rakovica (Belgrado)" ha rivendicato l'azione svolta a Nuova
Belgrado e Rakovica nell'ambito della campagna "Riabilitazione di
Slobodan Milosevic".