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NAPOLITANO LI ASPETTA TUTTI A LAMPEDUSA A BRACCIA APERTE
Tredicesimo giorno di conflitto nella Striscia di Gaza, sale il numero delle vittime e quello degli sfollati mentre l’offensiva via terra dei militari israeliani si intensifica. Secondo l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, il numero degli sfollati a Gaza in queste ore è salito a oltre 62 mila. Gli sfollati, spiega l’agenzia, sono stati accolti in circa 50 scuole, ma servono cibo e beni di prima necessità. Cresce intanto il numero delle vittime che ad oggi supera quota 350, quasi tutti palestinesi e per l’80 per cento civili, mentre i feriti sono circa 2.400. Circa 1.600, invece, i razzi lanciati da Gaza su Israele dall’inizio delle ostilità, secondo quanto affermato da fonti israeliane. Oggi, intanto, il presidente palestinese, Abu Mazen sarà in Qatar, a Doha, per cercare di trovare i termini di una tregua con il capo di Hamas in esilio, Khaled Meshaal.
Rispettare l’obbligo legale e morale di proteggere i civili. Dopo l’appello di Amnesty International alla comunità internazionale affinché nella Striscia di Gaza si faccia di tutto per proteggere i civili, è l’Unicef a richiamare l’attenzione su un conflitto che ad oggi è costato la vita a 59 bambini, mentre altri 500 sono stati feriti a Gaza e 4 in Israele. Secondo l’Unicef, però, sono sotto attacco anche i servizi di base per i bambini. “Le fatiscenti infrastrutture idriche e igienico-sanitarie di Gaza hanno subito danni – spiega l’organizzazione in una nota -, aumentando il rischio di malattie di origine idrica. Circa la metà del pompaggio dei liquami e dei sistemi di trattamento delle acque di scarico non sono più funzionanti, e circa 900.000 persone sono senza acqua corrente”. Oltre 1.780 le famiglie che hanno visto le loro case distrutte o gravemente danneggiate a Gaza e decine di migliaia sono sfollate, molte delle quali si sono rifugiate nelle scuole. Oltre 80 scuole sono state danneggiate dai bombardamenti. “L’Unicef ed i suoi partner stanno procurando farmaci pediatrici essenziali per gli ospedali e le strutture sanitarie – spiega l’organizzazione -. Spot radiofonici avvertono i bambini e le loro famiglie dei pericoli degli ordigni inesplosi”.
Gaza è parte dello scatenamento del disordine mondiale. Aggiungiamo il 'Califfato' del Levante. Aggiungiamo la crisi ucraina. Vediamo l'insieme
L’altra sera ho assistito a ‘1984’ di George Orwell messo in scena sul palcoscenico di Londra. Pur reclamando a gran voce un’interpretazione contemporanea, l’avvertimento di Orwell circa il futuro è stato presentato come un’opera d’epoca: remota, non minacciosa, quasi rassicurante. E’ stato come se Edward Snowden non avesse rivelato nulla, il Grande Fratello non è oggi uno spione digitale e lo stesso Orwell non ha mai detto: “Per essere corrotti dal totalitarismo non occorre vivere in un paese totalitario”.
Acclamata dai critici, l’abile produzione è stata una misura del nostro tempo, culturale e politico. Quando si sono accese le luci, la gente stava già uscendo. Il pubblico sembrava indifferente, o forse altre distrazioni lo reclamavano. “Che incasinamento!” ha detto una giovane, accendendo il suo telefonino.
Con la depoliticizzazione delle società avanzate, i cambiamenti siano sia sottili sia spettacolari. Nei discorsi quotidiani, il linguaggio politico è capovolto, come profetizzava Orwell in ‘1984’. “Democrazia” è oggi un artificio retorico. Pace è “guerra perpetua”. “Globale” è imperiale. Il concetto un tempo positivo di “riforma” oggi significa regressione, persino distruzione. “Austerità” è l’imposizione di capitalismo estremo ai poveri e regalo del socialismo ai ricchi; un sistema creativo nell’ambito del quale la maggioranza rimborsa i debiti dei pochi.
Nelle arti l’ostilità alla sincerità politica è un articolo di fede borghese. “Il periodo rosso di Picasso”, dice un titolo dell’Observer, “ è perché la politica non produce buona arte.” Considerate questo in un giornale che ha promosso il bagno di sangue in Iraq come una crociata liberale. L’opposizione di Picasso al fascismo per tutta la vita è una nota in calce proprio come il radicalismo di Orwell è svanito dal premio che si è appropriato del suo nome.
Alcuni anni fa Terry Eagleton, allora professore di letteratura inglese alla Manchester University, ha reputato che “per la prima volta in due secoli non c’è alcun eminente poeta, commediografo o romanziere inglese pronto a mettere in discussione le fondamenta dello stile di vita occidentale”. Nessuno Shelley parla per i poveri, nessun Blake per i sogni utopistici, nessun Byron danna la corruzione della classe al potere, nessun Thomas Carlyle e John Ruskin rivela il disastro morale del capitalismo. William Morris, Oscar Wilde, HG Wells, George Bernard Shaw non hanno equivalenti oggi. Harold Pinter è stato l’ultimo a far sentire la propria voce. Tra le insistenti voci del femminismo consumistico nessuna echeggia Virginia Woolf che descrisse “le arti del dominare altre persone … del governare, dell’uccidere, dell’acquistare terra e capitale”.
Al National Theatre una nuova commedia, Gran Bretagna, mette alla berlina lo scandalo delle intercettazioni telefoniche che ha visto giornalisti processati e condannati, tra cui l’ex direttore di News of the World di Rupert Murdoch. Descritta come “una farsa con le zanne [che] mette sul banco degli imputati l’intera cultura incestuosa [dei media] e la sottopone a un impietoso ridicolo”, i bersagli della commedia sono i personaggi “beatamente buffi” della stampa scandalistica britannica. Va bene ed è giusto, e così familiare. Ma che dire dei media non scandalistici che si considerano rispettabili e credibili e tuttavia assolvono un ruolo parallelo come braccio del potere dello stato e dell’industria, come nel caso della promozione di una guerra illegale?
L’inchiesta Leveson sulle intercettazioni telefoniche ha gettato uno sguardo su questo innominabile. Tony Blair stava testimoniando, lamentandosi con Sua Signoria per le molestie dei tabloid a sua moglie, quando è stato interrotto da una voce dalla galleria del pubblico. David Lawley-Wakelin, un regista, ha chiesto l’arresto e l’incriminazione di Blair per crimini di guerra. C’è stata una lunga pausa: il trauma della verità. Lord Leveson è balzato in piedi e ha ordinato l’allontanamento di chi diceva la verità, scusandosi con il criminale di guerra. Lawley-Wakelin è stato incriminato. Blair se n’è andato libero.
I persistenti complici di Blair sono più rispettabili dei pirati telefonici. Quando la conduttrice artistica della BBC Kirsty Wark lo ha intervistato nel decimo anniversario dell’invasione dell’Iraq, gli ha regalato un momento che avrebbe potuto solo sognare; gli ha permesso di angosciarsi per la sua “difficile” decisione sull’Iraq, anziché chiamarlo a rispondere del suo crimine epocale. Ciò ha rievocato la processione di giornalisti della BBC che nel 2003 hanno dichiarato che Blair poteva sentirsi “scagionato” e la successiva serie “di successo” della BBC, Gli anni di Blair, per la quale è stato scelto come sceneggiatore, conduttore e intervistatore David Aaronovitch. Da valletto di Murdoch che aveva fatto campagna per gli attacchi militari contro l’Iraq, la Libia e la Siria, Aaronovitch è stato abilmente servile.
Dopo l’invasione dell’Iraq – esemplare di un’azione di aggressione non provocata che il giudice di Norimberga Robert Jackson definì “il crimine internazionale supremo, diverso dagli altri crimini di guerra per il fatto in concentrare in sé il male totale di tutti” – Blair e il suo portavoce e principale complice, Alastair Campbell, hanno avuto generoso spazio sul Guardian per riabilitare le proprie reputazioni. Descritto come una “stella” del Partito Laburista, Campbell ha cercato la simpatia dei lettori per la sua depressione e ha messo in mostra i suoi interessi, anche se non l’attuale incarico di consigliere, con Blair, della tirannia militare egiziana.
Mentre l’Iraq è smembrato in conseguenza dell’invasione di Blair/Bush, un titolo del Guardian dichiara: “Rovesciare Saddam è stato giusto, ma ci siamo ritirati troppo presto”. L’affermazione ha trovato riscontro in un articolo di spicco del 13 giugno di un ex funzionario di Blair, John McTernan, che ha anche servito il dittatore installato dalla CIA in Iraq, Iyad Allawi. Nel sollecitare una nuova invasione di un paese che il suo ex padrone ha contribuito a distruggere, egli non ha fatto alcuna menzione degli almeno 700.000 morti, della fuga di quattro milioni di profughi e del caos settario in una nazione un tempo orgogliosa della sua tolleranza comunitaria.
“Blair incarna la corruzione e la guerra”, ha scritto l’opinionista radicale del Guardian Seumas Milne in un appassionato pezzo del 3 luglio. Nel mestiere questo è noto come “bilanciamento”. Il giorno dopo il giornale ha pubblicato un’inserzione pubblicitaria a piena pagina di un bombardiere invisibile statunitense. Su un’immagine minacciosa del bombardiere c’erano le parole: “F-35. GRANDIOSO per la Gran Bretagna”. Quest’altra incarnazione della “corruzione e guerra” costerà ai contribuenti britannici 1,3 miliardi di sterline, con i predecessori del modello F che hanno macellato gente in tutto il mondo sviluppato.
In un villaggio dell’Afghanistan, abitato dai più poveri dei poveri, ho filmato Orifa, inginocchiato presso le tombe di suo marito, Gul Ahmed, un tessitore di tappeti, di sette altri membri della sua famiglia, tra cui sei bambini, e di due bambini uccisi nella casa vicina. Una bomba “di precisione” da 500 libbre è caduta direttamente sulla sua casetta di fango, pietra e paglia, lasciando un cratere largo 15 metri. La Lockheed Martin, produttrice dell’aereo, è stata orgogliosa del proprio posto nella pubblicità del Guardian.
L’ex Segretario di Stato USA e aspirante alla presidenza Hillary Clinton ha recentemente partecipato all’”Ora delle donne” della BBC, la quintessenza della rispettabilità mediatica. La conduttrice, Jenni Murray, ha presentato la Clinton come un simbolo della realizzazione femminile. Non ha ricordato ai suoi ascoltatori l’oscenità della Clinton che l’Afghanistan è stato invaso per “liberare” donne come Orifa. Non ha chiesto nulla alla Clinton a proposito della campagna terroristica della sua amministrazione con l’uso di droni per uccidere donne, uomini e bambini. Non c’è stata alcuna menzione della minaccia sprecata della Clinton, durante la sua campagna per la prima presidenza femminile, di “eliminare” l’Iran e nulla a proposito del suo appoggio alla sorveglianza illegale di masse e al perseguimento dei denunciatori dall’interno.
La Murray ha effettivamente posto una domanda imbarazzante. La Clinton aveva perdonato Monica Lewinsky per aver avuto una storia con suo marito? “Il perdono è una scelta”, ha detto la Clinton, “per me è stata assolutamente la scelta giusta”. Ciò ha ricordato gli anni ’90 e gli anni dedicati allo “scandalo” Lewinsky. Il presidente Bill Clinton stava allora invadendo Haiti e bombardando i Balcani, l’Africa e l’Iraq. Stava anche distruggendo le vite di bambini iracheni; l’Unicef ha riferito la morte di mezzo milione di bambini iracheni sotto i cinque anni in conseguenza dell’embargo guidato dagli USA e dalla Gran Bretagna.
I bambini erano mediaticamente non-persone, proprio come le vittime di Hillary Clinton nelle invasioni da lei appoggiate e promosse – Afghanistan, Iraq, Yemen, Somali – sono mediaticamente non-persone. La Murray non ha fatto alcun accenno a loro. Una sua fotografia con la sua distinta ospite, raggianti, compare sul sito della BBC.
In politica come nel giornalismo e nelle arti sembra che il dissenso un tempo tollerato nell’opinione corrente sia regredito a dissidenza: una metaforica clandestinità. Quando ho iniziato la mia carriera nella britannica Fleet Street negli anni ’60, era accettabile criticare la potenza occidentale come forza rapace. Leggete i celebrati articoli di James Cameron sull’esplosione della bomba all’idrogeno nell’atollo di Bikini, sulla barbara guerra di Corea e sui bombardamenti statunitensi del Vietnam del Nord. La grandiosa illusione odierna è di un’era dell’informazione quando, in realtà, viviamo in un’età mediatica in cui l’incessante propaganda dell’industria è insidiosa, contagiosa, efficace e liberale.
Nel suo saggio del 1859 ‘Sulla libertà’, al quale i liberali moderni rendono omaggio, John Stuart Mill scrisse: “Il dispotismo è una forma legittima di governo nel trattare con barbari, a condizione che il fine sia il loro miglioramento e i mezzi giustificati dall’effettivo conseguimento di tale fine”. I “barbari” I “barbari” erano vasti segmenti dell’umanità cui era prescritta l’”implicita obbedienza”. “E’ un mito bello e conveniente che i liberali siano pacificatori e i conservatori siano guerrafondai”, ha scritto nel 2001 lo storico Hywel Williams, “ma l’imperialismo della via liberale può essere più pericoloso a causa della sua natura illimitata, la sua convinzione di rappresentare una forma di vita superiore”. Egli aveva in mente un discorso di Blair in cui l’allora primo ministro prometteva di “riordinare il mondo attorno a noi” sulla base dei suoi “valori morali”.
Richard Falk, la rispettata autorità in tema di legge internazionale e Speciale Relatore dell’ONU sulla Palestina, ha descritto una volta “uno schermo farisaico morale-legale a senso unico [di] immagini positive di valori e innocenza occidentali presentato e minacciato a convalida di una campagna di smodata violenza politica”. E’ “accettato così diffusamente da essere virtualmente incontestabile”.
Carriera e appoggio ricompensano i guardiani. A Radio 4 della BBC Razia Iqbal ha intervistato Toni Morrison, la Premio Nobel afroamericana. La Morrisono si è chiesta perché la gente era “così arrabbiata” con Barack Obama che era “fantastico” e desiderava costruire un’ “economia e un’assistenza sanitaria forti”. La Morrison era orgogliosa di aver parlato al telefono con il suo eroe, che aveva letto uno dei suoi libri e l’aveva invitata al suo insediamento.
Né lei né la sua intervistatrice hanno citato le sette guerre di Obama, inclusa la sua campagna terroristica con i droni, in cui intere famiglie, i loro soccorritori e le loro persone in lutto sono state assassinate. Quello che è sembrato contare è stato che un uomo di colore “dal linguaggio elegante” è salito alle vette di comando del potere. In ‘Dannati della terra’ Frantz Fanon scrisse che la “missione storica” dei colonizzati consisteva nel fare da “linea di trasmissione” per quelli che dominavano e opprimevano. Nell’era moderna è visto oggi come essenziale l’impiego della differenza etnica nei sistemi di potere e propaganda occidentali. Obama incarna questo, anche se il gabinetto di George W. Bush – la sua cricca guerrafondaia – è stato il più multirazziale della storia presidenziale.
Mentre cadeva in mano agli jihadisti dell’ISIS la città irachena di Mosul, Obama diceva: “Il popolo statunitense ha fatto enormi investimenti e sacrifici al fine di dare agli iracheni l’occasione di disegnarsi un destino migliore”. Quando “fantastica” è tale bugia? Quanto “elegantemente formulato” è stato il discorso di Obama il 28 maggio all’accademia militare di West Point? Tenendo il suo discorso sullo “stato del mondo” alla cerimonia di laurea di quelli che “assumeranno la guida statunitense” in tutto il mondo, Obama ha affermato: “Gli Stati Uniti useranno la forza militare, unilateralmente se necessario, quando i nostri interessi centrali lo richiederanno. L’opinione internazionale conta, ma gli Stati Uniti non chiederanno mai il permesso …”
Nel ripudiare la legge internazionale e i diritti di nazioni indipendenti, il presidente statunitense pretende una divinità basata sulla potenza della sua “nazione indispensabile”. E’ un familiare messaggio di impunità imperiale, anche se sempre stimolante da ascoltare. Evocando l’ascesa del fascismo negli anni ’30 Obama ha detto: “Credo nell’eccezionalismo statunitense con ogni fibra del mio essere”. Lo storico Norman Pollack ha scritto: “Al posto del passo dell’oca mettere l’apparentemente più innocua militarizzazione della cultura totale. E al posto del leader ampolloso abbiamo il riformatore mancato, spensieratamente all’opera per pianificare ed eseguire assassinii, sorridendo tutto il tempo”.
In febbraio gli USA hanno montato uno dei loro colpi di stato “colorati” contro il governo eletto in Ucraina, sfruttando proteste genuine contro la corruzione di Kiev. Il Vicesegretario di Stato di Obama, Victoria Nuland, ha scelto personalmente il leader di un “governo provvisorio”. Gli ha attribuito il nomignolo di “Yats”. Il Vicepresidente Joe Biden si è recato a Kiev, così come il direttore della CIA John Brennan. Le truppe d’assalto del loro colpo di stato sono state fascisti ucraini.
Per la prima volta dal 1945 un partito neonazista, apertamente antisemita, controlla aree chiave del potere statale in una capitale europea. Nessun leader europeo occidentale ha condannato questa rinascita del fascismo nella zona di confine attraverso la quale i nazisti invasori di Hitler tolsero la vita a milioni di russi. Erano appoggiati dall’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), responsabile del massacro di ebrei e di russi che chiamavano “insetti parassiti”. L’UPA è l’ispiratore storico dell’odierno Partito Svoboda e del suo compagno di viaggio Settore Destro. Il leader di Svoboda, Oleh Tyahnybok ha sollecitato una pura della “mafia moscovito-ebraica” e di “altra feccia”, tra cui omosessuali, femministe e sinistra politica.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti hanno circondato la Russia di basi militari, aerei e missili nucleari come parte del Progetto di Allargamento della NATO. Rinnegando una promessa fatto al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov nel 1990 che la NATO non si sarebbe allargata di “un centimetro a est”, la NATO ha, in effetti, occupato l’Europa orientale. Nell’ex Caucaso sovietico l’espansione della NATO è il massimo crescendo militare dopo la seconda guerra mondiale.
Un Piano d’Azione d’Adesione alla NATO è il dono di Washington al regime golpista di Kiev. In agosto l’”Operazione Tridente Rapido” porterà truppe statunitense e britanniche sul confine russo dell’Ucraina e l’operazione “Brezza Marina” invierà navi da guerra statunitensi in vista dei porti russi. Si immagini la reazione se questi atti di provocazione, o intimidazione, fossero attuati ai confini degli Stati Uniti.
Nel reclamare la Crimea – che Nikita Krusciov distaccò illegalmente dalla Russia nel 1954 – i russi hanno difeso sé stessi, come hanno fatto per quasi un secolo. Più del 90 per cento della popolazione della Crimea ha votato per il ritorno del territorio alla Russia. La Crimea è sede della Flotta del Mar Nero e la sua perdita sarebbe una questione di vita o di morte per la marina russa e una vittoria per la NATO. Confondendo le parti in guerra a Washington e Kiev, Vladimir Putin ha ritirato le truppe dal confine ucraino e ha sollecitato i russi etnici dell’Ucraina orientale a rinunciare al separatismo.
In stile orwelliano ciò è stato ribaltato in occidente come una “minaccia russa”. Hillary Clinton ha paragonato Putin a Hitler. Senza ironia, commentatori tedeschi di destra hanno detto la stessa cosa. Nei media i neonazisti ucraini sono ridefiniti “nazionalisti” o “ultranazionalisti”. Ciò che temono è che Putin stia abilmente ricercando una soluzione diplomatica e possa riuscirci. Il 27 giugno, reagendo all’ultimo accomodamento di Putin – la sua richiesta al parlamento russo di revocare la legge che gli dava il potere di intervenire nell’interesse dei russi etnici dell’Ucraina – il Segretario di Stato John Kerry ha diffuso un altro dei suoi ultimatum. La Russia deve “agire nel giro delle prossime ore, letteralmente” per por fine alla rivolta nell’Ucraina orientale. Nonostante che Kerry sia diffusamente riconosciuto come un pagliaccio, lo scopo serio di questi “avvertimenti” sta nel conferire alla Russia uno status di paria e nel cancellare le notizie della guerra del regime di Kiev contro il suo stesso popolo.
Un terzo della popolazione dell’Ucraina è russofono e bilingue. Ha ricercato a lungo una federazione democratica che riflettesse la diversità etnica dell’Ucraina e fosse sia autonoma sia indipendente da Mosca. Per la maggior parte non si tratta di “separatisti” o “ribelli”, bensì di cittadini che vogliono vivere sicuri nel proprio paese. Il separatismo è una reazione agli attacchi della giunta di Kiev contro di loro, che ha forzato fino a 110.000 persone (stima dell’ONU) a fuggire in Russia attraversando il confine. Normalmente si tratta di donne e bambini traumatizzati.
Come i bambini dell’Iraq sottoposti a embargo e le donne e le ragazze dell’Afghanistan “liberate”, terrorizzate dai signori della guerra della CIA, questi cittadini etnici dell’Ucraina sono mediaticamente non-persone in occidente; le loro sofferenze e le atrocità commesse contro di loro sono minimizzate o cancellate. Nessuna sensazione della portata dell’assalto del regime è trasmessa di media occidentali convenzionali. Non è che manchino i precedenti. Leggendo nuovamente il magistrale ‘The First Casualty: the war correspondent as hero, propagandist and mythmaker’ [La prima vittima: il corrispondente di guerra come eroe, propagandista e costruttore di miti] di Phillip Knightley, ho rinnovato la mia ammirazione per Morgan Philips Price del Manchester Guardian, il solo giornalista occidentale rimasto in Russia durante la rivoluzione del 1917 a raccontare la verità sulla disastrosa invasione degli alleati occidentali. Imparziale e coraggioso, Philips Price turbò da solo quello che Knightley definisce un “oscuro silenzio” antirusso in occidente.
Il 2 maggio a Odessa 41 russi etnici sono stati bruciati vivi negli uffici della direzione del sindacato con la polizia che è rimasta a guardare. Esiste un’orrenda documentazione video. Il leader del Settore Destro, Dmytro Yarosh, ha salutato il massacro come “un altro giorno luminoso della nostra storia nazionale”. Dai media statunitensi e britannici è stato riferito come una “oscura tragedia”, conseguenza di “scontri” tra “nazionalisti” (neonazisti) e “separatisti” (persone che raccoglievano firme per un referendum su un’Ucraina federale). IlNew York Times ha insabbiato la cosa, avendo scartato come propaganda russa gli avvertimenti sulle politiche fasciste e antisemite dei nuovi vassalli di Washington. Il Wall Street Journal ha condannato le vittime: “Mortale incendio in Ucraina probabilmente innescato dai ribelli, dice il governo”. Obama si è congratulato con la giunta per la sua “moderazione”.
Il 28 giugno il Guardian ha dedicato la maggior parte di una pagina a dichiarazione del “presidente” del regime di Kiev, l’oligarca Petro Poroshenko. Di nuovo ha operato la regola di Orwell dell’inversione. Non c’è stato alcun colpo di stato; nessuna guerra contro la minoranza dell’Ucraina; i russi hanno avuto la colpa di tutto. “Vogliamo modernizzare il mio paese”, ha detto Poroshenko. “Vogliamo introdurre libertà, democrazia e valori europei. A qualcuno questo non piace. A qualcuno noi per questo non piacciamo.”
In questo suo articolo il giornalista del Guardian, Luke Harding, non ha contestato queste affermazioni o citato l’atrocità di Odessa, gli attacchi aerei e di artiglieria del regime su aree residenziali, l’uccisione e il sequestro di giornalisti, le bombe incendiarie contro un giornale d’opposizione e la sua minaccia di “liberare l’Ucraina dalla sporcizia e dai parassiti”. I nemici sono “ribelli”, “militanti”, “insorti”, “terroristi” e fantocci del Cremlino. Sono evocati dalla storia i fantasmi di Vietnam, Cile, Timor Est, Africa meridionale, Iraq: si notino le stesse etichette. La Palestina è la calamita di tutto questo monotono inganno. L’11 luglio, dopo il più recente massacro israeliano a Gaza, con equipaggiamento statunitense – 80 morti tra cui sei bambini di una singola famiglia – un generale israeliano scrive sul Guardian sotto il titolo “Una necessaria dimostrazione di forza”.
Negli anni ’70 ho incontrato Leni Riefenstahl e le ho chiesto dei suoi film che glorificavano i nazisti. Utilizzando tecniche di ripresa e d’illuminazione rivoluzionarie ella produsse una forma documentaria che affascinò i tedeschi; fu il suo ‘Trionfo della volontà’ che si afferma abbia diffuso il maleficio di Hitler. Le chiesi della propaganda in società che si considerano superiori. Lei rispose che i “messaggi” nei suoi film dipendevano non da “ordini dall’alto” ma da un “vuoto condiscendente” nella popolazione tedesca. “Compresa la borghesia liberale istruita?” chiesi. “Tutti”, rispose. “E naturalmente l’intellighenzia”
Scritto per teleSUR English che partirà il 24 luglio
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
Tommaso Di Francesco su il manifesto del 19 Luglio 2014
Guerre umanitarie. La barbarie temuta è arrivata. Di fronte alla permanenza dei conflitti, di quale equidistanza si può parlare?
Alla fine, dodici anni dopo, ecco il risultato della sconfitta del più grande movimento contro la guerra, nella fattispecie in Iraq, che scese in piazza con cento milioni di persone e che venne definito «la nuova potenza mondiale». Hanno vinto i neocon della destra americana e quei governo di centrosinistra che in Occidente hanno sposato la causa del «militarismo umanitario» che ha profumato di buono le stragi della nostra epoca: la guerra è diventata permanente e dilaga.
E torna ovunque e all’improvviso. All’improvviso? La sua sanguinosa attualità è tragicamente presente ogni giorno nonostante il silenzio dei governi complici e spesso dei media, come Repubblica e Corriere della Sera, che sono arrivati a cancellare le stragi di Gaza dalla prima pagina. Spesso anche a sinistra la guerra è l’ultimo dei problemi, da aggiungere all’ultimo momento in un documento, o in una presa di posizione, nell’incapacità di interpretare le correlazioni che legano, in un filo d’orrore, i diversi conflitti della terra ai cambiamenti politici per cui si lotta. Ma il precipitare degli eventi rende evidente la generale miopia che attraversa la cultura occidentale. Che promette e annuncia crescita economica ma nasconde la violenza che altrove si esercita per ottenerla a qualsiasi costo, tacitando il pericolo e ottenendo consenso e potere. Così la permanenza della guerra resta e riemerge, riaprendo ferite malamente suturate e abilmente occultate.
Lo Stato d’Israele, che non conosce altro che la legge dei carri armati, muove i tank per rioccupare la Striscia di Gaza e lo fa perché ha «diritto a difendersi», fa sapere lo stesso Obama che nel discorso del Cairo del 2009 dichiarava di sentire «il dolore del popolo palestinese, senza terra e senza patria». Sono passati cinque anni dall’inizio della sua Amministrazione e la crisi mediorientale vede non solo sempre un popolo senza terra né patria, ma la crisi è peggiorata perché la colonizzazione è stata estesa, i Muri di divisione sono raddoppiati e, scrive l’editorialista di Haaretz Gideon Levy, «Israele non vuole la pace, chi estende le colonie rafforza l’occupazione e chi rafforza l’occupazione non vuole la pace». I razzi di Hamas sono il fumo, certo distruttivo e micidiale, che nasconde questa verità: lo Stato di Palestina, ridotto ad una alveare di insediamenti, non ha più alcuna continuità territoriale e non potrà esistere più.
Sono 270 le vittime dei bombardamenti aerei israeliani, in gran parte civili comprese decine di bambini. Pensate solo a quanto odio è stato seminato dai bombardieri in questi giorni. E di che equidistanza stiamo parlando? C’è uno Stato, quello d’Israele che occupa le terre di un altro popolo che, anche secondo la Carta dell’Onu ha il diritto a ribellarsi. Qualcuno dica a che cosa hanno portato finora i finti negoziati di pace, con un governo israeliano sordo ad ogni richiesta di ritiro secondo due storiche Risoluzioni dell’Onu o di blocco delle colonie e rabbioso — Netanyahu è letteralmente fuori di sé — per la nuova unità nazionale palestinese Fatah-Hamas. Ma, certo, Israele ha diritto alla sua sicurezza. E i palestinesi, che non si danno per vinti, a che cosa hanno diritto?
E proprio mentre dilaga la nuova guerra mediorientale, l’abbattimento criminale di un aereo di linea malese sui cieli tra Ucraina e Russia, con quasi 300 vittime – già con rimpallo di responsabilità — obbliga a volgere lo sguardo in Europa. Già nei giorni scorsi erano decine i morti nell’est dell’Ucraina, negli scontri tra milizie separatiste e nazionaliste filorusse nate nel Donbass in contrapposizione al nazionalismo ucraino antirusso del movimento di Majdan ormai al potere a Kiev, sostenuto dal’Ue e soprattutto dalla Nato che porta avanti l’indiscussa e indiscutibile strategia dell’allargamento della sua strategia militare a est, proprio alla frontiera russa. Una volontà che è all’origine, non a conclusione, delle tensioni e del conflitto in corso.
E appena si volge lo sguardo dall’est europeo all’altra sponda del Mediterraneo, l’instabilità della Libia – santuario militare di ogni sollevazione jihadista nell’area — diventa macroscopica. Siamo a soli tre anni dall’abbattimento del regime di Gheddafi grazie all’intervento degli aerei della Nato diventati l’aviazione degli insorti jihadisti in guerra contro il raìs. Guidava allora la nuova coalizione bellica occidental-umanitaria, con l’Italia protagonista, il «disinteressato» Sarkozy. Che riuscì a convincere un iniziale recalcitrante Obama che poi, con Hillary Clinton, ha pagato il prezzo di questa avventura con i fatti di Bengasi dell’11 settembre 2012.
Giovedì le milizie islamiste di Misurata, le più armate e radicali, hanno occupato Tripoli, dove un illegittimo e improbabile governo chiede l’intervento internazionale. Intanto si combatte in Siria e le milizie qaediste dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante avanzano in territorio iracheno, mentre in Afghanistan le ultime elezioni presidenziali sono accusate di brogli e le truppe Usa e Isaf/Nato resteranno ancora per altri due anni.
Non c’è pace. È un disastro. Permane solo la barbarie che temevamo sarebbe arrivata se non si fosse costruita una alternativa di valori e di sistema. In questi giorni noi ci rivoltiamo al dissennato tentativo del presidente Renzi di manipolare la nostra Costituzione con la cancellazione della eleggibilità diretta e democratica del Senato. Riflettiamo allora per un attimo sul fatto che per ognuna delle guerre che abbiamo elencato l’Italia è stata o è protagonista e ha un ruolo militare.
Non solo in Iraq ma anche in Medio oriente dove partecipa ad un Trattato militare con Israele, nonostante sia un paese in guerra permanente; in Libia ha bombardato dopo avere applaudito al regime dell’ex raìs, in Siria è ancora nella famigerata coalizione degli «Amici della Siria» che ha alimentato il conflitto; mentre in Ucraina l’Italia sostiene, senza che se ne discuta, l’Alleanza atlantica che pericolosamente allestisce da anni la sua nuova, provocatoria, cortina militare alla frontiera russa come se fosse la nuova Guerra fredda. Riflettiamo allora su quanto sia stato devastato l’articolo 11 della nostra Costituzione che bandisce la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. E ribelliamoci. Cancellano il Senato perché, dicono, «produce ceto politico». Mentre cresce solo la guerra, cancellano l’articolo 11 per produrre ceto militare e nuovi conflitti.
Commémorations de Srebrenica : Naser Orić, l’ancien chef militaire de l’enclave, marche « pour la paix »
L’ancien commandant des forces de l’Armée de la république de Bosnie-Herzegovine, accompagné par l’ambassadeur de Turquie et l’actuel maire de Srebrenica, Čamil Duraković, a exhorté les participants à respecter l’esprit de la marche et de la commémoration. « Chaque centimètre de cette route est couvert de sang », a-t-il souligné.
Dans une interview au portal Klix, Naser Orić a affirmé que la ville « devrait être enlevée à la République serbe de Bosnie-Herégovine Srpska et donnée à la Fédération ». Il a également exprimé son regret de n’avoir pas été en mesure de défendre la ville. « Tout aurait été différent si j’étais resté jusqu’à la fin », a-t-il déclaré, faisant allusion à son retrait en tant que commandant de l’enclave, le 28 mai 1995. « Srebrenica aurait pu être sauvée », a-t-il conclu.
22-esimo anniversario della strage dei serbi nel circondario di Srebrenica. Soltanto nella giornata ortodossa di S. Pietro, il 12 luglio 1992, l' armata della Bed E (di Izetbegović) con a capo Naser Orić ha ammazzato 69 civili, mentre a Bratunac, Srebrenica e dintorni fino al 1995, sono stati uccisi più di 3000 serbi.
Obeležena godišnjica stradanja Srba u Bratuncu
Prethodno su članovi porodica poginulih, saborci i boračka i opštinske delegacije Srebrenice i Bratunca položile cveće na Vojničkom groblju u Bratuncu, gđe je sahranjen najveći broj stradalih i na srpskim stratištima u Biljači i Sasama.
Osim 69 poginulih na Petrovdan 1992. godine, nestalo je i zarobljeno još 22 Srba, a veliki broj ih je ranjen.
Nakon mučenja i zlostavljanja u srebrenickim logorima svi su ubijeni, a posmrtne ostatke njih 10 slucajno je pronašao tim za traženje nestalih iz Tuzle 10. juna 2011. godine na Zalazju, prilikom traženja muslimanskih žrtava. Nakon više od godinu dana ovi posmrtni ostaci su identifikovani i sahranjeni lani na Petrovdan, a za još 12 Srba nestalih tog dana i dalje se traga, navodi RTRS.
Četković je zapitao kome su smetali mirni ljudi toliko da ih svirepo pobiju, koji su na veliki pravoslavni praznik Petrovdan bili u svom selu.
"Smetali su samo što su Srbi i nikada ih nećemo zaboraviti i odustati od traženja pravde i odgovornosti onih koji su počinili zločin nad ovim ljudima", rekao je Četkovic.
Članovi porodica i predstavnici boračkih organizacija i organizacija porodica zarobljenih i poginulih boraca i nestalih civila iz Srebrenice ponovo su danas izrazili nezadovoljstvo radom Haškog tribunala, te Tužilaštva i Suda BiH.
Oni su ukazali na to da još nije niko procesuiran za brojne masakre i zločine koje su muslimanske snage iz Srebrenice počinile nad Srbima u poslednjem ratu, ubivši oko 1.500 srpskih civila i vojnika, od kojih su više od polovine masakrirali.
Predsednik Opštinske organizacije porodica zarobljenih i poginulih boraca i nestalih civila iz Srebrenice Mladen Grujičić istakao je da niko za 22 godine nije odgovarao za ovaj, kao i ostale zločine počinjene nad Srbima u srednjem Podrinju.
"Deset zarobljenih još nije nađeno, a naše majke, braća i sestre još čekaju pravdu", rekao je Grujičić.
On je poručio međunarodnom pravosuđu da je u Srebrenici srpsko stanovništvo procentualno više stradalo od bošnjackog, a institucijama Republike Srpske da ne dozvole da ovaj zločin ostane bez kazne, te da učine sve da se pocinioci zlocina otkriju i procesuiraju ili da se ukinu Tužilaštvo i Sud BiH koji procesuiraju i osuđuju samo Srbe, a opstruišu procese protiv onih koji su počinili zločine nad srpskim stanovništvom.
Jake muslimanske snage iz Srebrenice pod komandom Nasera Orića 12. jula 1992. godine upale su u više srpskih sela u srebreničkoj i bratunačkoj opštini ubijajući, pljačkajući i paleći sve pred sobom, navodi RTRS.
http://voiceofrussia.com/2014_07_11/Srebrenica-19-year-blueprint-for-US-intervention-Stefan-Karganovic-9752/
Srebrenica: 19-year-blueprint for US intervention - president of Srebrenica Historical Project
Read more: http://voiceofrussia.com/2014_07_11/Srebrenica-19-year-blueprint-for-US-intervention-Stefan-Karganovic-9752/
Un aereo è precipitato «per missili nemici» nella zona di confine con la Russia. L’autoproclamata repubblica di Lugansk: «Catturati 4 membri dell’equipaggio»
http://italian.ruvr.ru/news/2014_07_13/Ucraina-morto-sotto-tortura-giornalista-rapito-dai-paramilitari-di-Kiev-9775/
http://rt.com/news/172404-russian-donetsk-shelled-victims/
VIDEO 1: http://rt.com/news/172404-russian-donetsk-shelled-victims/
VIDEO 2: http://www.youtube.com/watch?v=aLTlbmGD_8E
L'esercito ucraino ha lanciato razzi per tutta la notte contro una zona della città ucraina controllata dai ribelli: secondo i filo-russi ci sono almeno 30 morti
http://www.ilpost.it/2014/07/12/bombardamento-donetsk/
By Christoph Dreier - 12 July 2014
Man killed, two injured, by Ukrainian shelling on Russian territory
An artillery shell from Ukraine has hit a private house in the Rostov region of Russia, killing a citizen, leaving two more injured in the small Russian town of Donetsk, which has the same name as the Ukrainian city.
The town is situated right on the Ukrainian border.
Several high-explosive shells exploded there on Sunday. Reportedly, the shells were fired from a mortar.
Deputy Foreign Minister Grigory Karasin promised a “rigorous and concrete answer” to the shelling of Russian territory that resulted in the senseless loss of life.
“We’re currently evaluating the situation, and the facts we’ve learnt risk a dangerous escalation of the tensions on the [Russian-Ukrainian] border, which puts our citizens in high danger,” Karasin said, stressing that harsh reaction would follow only after detailed analysis of the situation.
The National Security Council of Ukraine has already declared that Kiev’s troops involved in the operation in the east of the country have nothing to do with the shelling incident.
“Ukrainian troops are definitely not shelling the territory of the Russian Federation. We did not shoot,”said Andrey Lysenko, official representative of the information center of the NSCU.
Authorities in the Rostov region have confirmed the death of a 46-year-old man and injuries to two women. The man died in a shell explosion, while one of the women suffered a shell fragment wound in the leg; another woman, reportedly 80-years-old, was shell-shocked in her house across the street from the explosion site.
Russia’s Donetsk has a population of approximately 49,000 citizens and has the Donetsk-Izvarino border entry point in the city on the Russian-Ukrainian border.
There have been a number of incidents lately involving Ukrainian troops deliberately shelling Russian border posts.
On Saturday a vehicle, carrying a squad of Russian border guards, came under fire from the Ukrainian side at the frontier between Russia and Ukraine.
On June 28, mortar shells from Ukraine hit Russian territory, damaging a building at the Gukovo border checkpoint and creating potholes in the ground in two villages.
The week before, on June 20, the Russian Novoshakhtinsk checkpoint in the Rostov region was shelled by mortars, Russia’s Border Service said.
Until today’s fatality, there had been no casualties, except for one Russian border guard suffering a head wound from a shell fragment.
The Ukrainian army has sometimes shelled border checkpoints, while refugees from Ukraine were trying to get through passport control to find shelter on Russian territory.
The number of incidents involving Ukrainian artillery shelling on Russian territory has increased of late. On July 3, the Novoshakhtinsk border checkpoint was shelled again. The next day, engineers and investigators, who came to disarm unexploded ordnances on the Russian side, came under mortar fire from Ukraine at the Donetsk border checkpoint. On July 5, about ten mortar shells exploded near the same border checkpoint.
http://italian.ruvr.ru/news/2014_07_17/Clamorosa-indiscrezione-al-posto-del-Boeing-malese-doveva-essere-abbattuto-laereo-di-Putin-5043/
Publicado: 17 jul 2014 | 18:11 GMT Última actualización: 17 jul 2014 | 21:06 GMT
http://actualidad.rt.com/actualidad/view/134289-objetivo-misil-ucrania-avion-presidente-rusia-putin
L'aereo presidenziale russo avrebbe incrociato la rotta del volo MH17: "Stessi colori e stessa dimensione, facile confonderli a quella distanza", racconta una fonte anonima all'agenzia
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Tragedia-Boeing-Interfax-aereo-malaysia-simile-a-quello-di-Putin-bdfbca44-ef75-4a31-939b-dc146a72c9e7.html
http://rt.com/news/173976-mh17-crash-questions-ukraine/
Donetsk People’s Republic leaders reinforce defenses
On the night of July 4-5, the militia of the Donetsk People’s Republic (DNR) withdrew from the embattled cities of Slavyansk and Kramatorsk. The volunteer self-defense forces made an orderly retreat to the south, where they took up positions in and around the regional capital city of Donetsk.
The decision to withdraw came after weeks of unrelenting military assault by forces loyal to the regime of neoliberal politicians, oligarchs and fascists, based in the Ukrainian capital of Kiev and backed by the United States,
“To put it bluntly, we are dealing here with unconcealed genocide,” said DNR Defense Minister Igor Strelkov, during a videotaped statement from Slavyansk on July 4. “To break the resistance of the militia, the enemy is using all available types of weaponry against the civilian population.”
The nearby city of Nikolayevka has been completely surrounded and bombarded with heavy weaponry. On June 3 the Nikolayevka Thermal Power Plant was destroyed. Banned weapons, including poison gas and white phosphorus, were reported used in the village of Semyonovka.
Brutal airstrikes, mortar fire and chemical attacks targeting homes, schools and hospitals continued even during a “ceasefire” declared by Ukraine’s pro-West President Peter Poroshenko in late June, which coincided with the signing of an economic agreement with the European Union. The “ceasefire” ended July 4.
The Kiev regime’s military attacks have also continued in the capital of the neighboring Lugansk People’s Republic (LC). The regional cancer treatment center was bombed on July 4. Airstrikes and shelling of residential areas of the capital were reported July 6.
Last May 11, people in the DNR and LC voted overwhelmingly for independence from Kiev in a democratic referendum.
“Over the course of the ‘ceasefire,’ the Ukrainian army performed full mobilization and concentration of forces,” said Strelkov, explaining that the continued defense of Slavyansk was unsustainable.
Officially, more than 250 people have been killed in Kiev’s so-called “Anti-Terrorist Operation” — mostly civilians, including many children. No one knows the real number of casualties since many areas are completely inaccessible.
Nearly 19,000 people — mostly parents with young children — have fled toward neighboring Russia from the Donbass region, which encompasses Donetsk and Lugansk. The International Committee of the Red Cross reported July 3 that the actual number of refugees in Russia is probably much higher.
Some 112 Donbass cities, towns and villages, with a total population of over 3.8 million, have come under attack, according to analysis published by the website Voices of Sevastopol.
Only 30,000 of Slavyansk’s population of 130,000 people remained when the people’s militia withdrew, Strelkov reported. Water, electricity and food supplies have been cut off for weeks.
Liberation or ‘filtration’?
While the people’s government in Donetsk termed the withdrawal from Slavyansk a strategic retreat, Ukraine’s billionaire president claimed it was a “symbolic victory in the fight with terrorists for the territorial integrity of Ukraine.”
Similarly, Interim Prime Minister Arseny Yatsenyuk — a U.S. favorite who recently termed Donbass residents “subhuman” — crowed about the “liberation of Slavyansk and Kramatorsk from terrorists.” Pro-junta media showed photos of Ukrainian soldiers hugging children and giving flowers to grandmothers.
On the ground, the “victory” was less impressive.
According to independent U.S. journalist Patrick Lancaster, Ukrainian forces entered Kramatorsk’s main square with “two tanks, two APCs [armoured personnel carriers] and 15-20 foot soldiers, some of them snipers and some carrying rocket-propelled grenades.” After raising the Ukrainian flag on the roof of the former resistance headquarters, “they jumped back on their tanks and left.” (RT.com, July 5)
Within a few hours of Kramatorsk’s “liberation,” heavy shelling of the city by Ukrainian forces resumed.
Ukraine’s Ministry of Internal Affairs, headed by the ultra-rightist Arseny Avakov, meanwhile announced that “an internal investigation of each member of the local police force will be launched” in Slavyansk on suspicion that they cooperated with DNR authorities.
Local police were detained while cops loyal to Kiev were brought in from western Ukraine.
Oleg Tsarev, speaker of parliament for the Union of Lugansk and Donetsk People’s Republic, told Russia’s Channel 24, “Overnight, they arrested all policemen and took them out of the city.” He added, “They are arresting all young men from 25 to 35, not even trying to find out whether these men took up arms or not. Searches are underway. They are trying to find those who helped take care of the wounded.”
Kiev’s Ministry of Internal Affairs echoed former acting Minister of Defense Michael Koval’s plan for “filtration camps” for southeastern Ukraine, announcing it would “filter” refugees seeking to leave the region. (Glagol.in.ua, July 4)
Donetsk’s answer: ‘To Kiev’
On July 6, Koval — now appointed deputy secretary of the National Security Council — told Inter TV that “the main strategic plan of the Ukrainian army” was that “In the two regional centers of Lugansk and Donetsk a total block will be applied and appropriate measures carried out that will force the separatists to lay down their arms.”
More than 4,000 Donetsk residents took to the streets the same day to deliver their answer to Koval, the junta and their U.S.-EU backers. They demanded an end to Ukraine’s war crimes and declared their determination to defend the DNR.
At a mass protest in Lenin Square, People’s Governor Pavel Gubarev announced, “We will begin a real partisan war” around Donetsk.
The demonstrators were accompanied by members of the self-defense militias. Some rode in captured tanks and APCs emblazoned with the slogan “To Kiev” — meaning they do not intend to leave other Ukrainians at the mercy of the junta.
Meanwhile, in the heavily bombarded capital of Lugansk, protesters held up home-made target signs — similar to those that became the symbol of people protesting the 1999 NATO bombing of Yugoslavia.
In an interview with LifeNews on July 7, Denis Pushilin, chair of the DNR Supreme Soviet, called the redeployment of the militia “a turning point in the confrontation with Kiev.” He continued, “If the militia had remained in Slavyansk and Kramatorsk, the cities would have been completely destroyed. Now there is more wiggle room.”
In an interview with LifeNews after his arrival in Donetsk, militia commander Strelkov said: “I plan to create, by my order as the minister of defense, a Central Military Council, which will include all the key field commanders, and where we will coordinate all questions related to the defense of the Donetsk People’s Republic. … In other words, we will be preparing Donetsk for active defense, to ensure that it is not taken over by the enemy.”
EU-ultimatum against Russia – another Rambouillet?
Current Concerns, No. 14&15
by Willy Wimmer, former Parliamentary Secretary at the German Federal Ministry of Defence and Vice President of the OSCE Parliamentary Assembly
The EU leaders have learned nothing from their visit to Ypreson the occasion of the outbreak of the First World War in 1914. The Russian ultimatum means Rambouillet II, and when do you think the attack will take place?
Russia, the European Union claims, would have to engage in substantive negotiations on the “peace plan” of the Ukrainian President within 72 hours. And if not, we will fire back from 5:45 a.m. on? It seems as if the European Commission and the European Council in Brussels, represented by the aforementioned gentlemen, has gone completely crazy and want to plunge the continent into absolute misery. You do not have to visit Ypres