Informazione

Bobby Fischer Going Home To Iceland!

Bobby Fischer has won his unprecedented one-man battle against the sole
world superpower, the United States. After his unlawful jailing for over
eight months in Japan on U.S. orders, Bobby won his freedom by appealing to
the independent people of Iceland to remember and protect an old friend. The
Icelanders have responded in a manner that to them is merely normal, but
which to the rest of the world constitutes nothing less than outstanding
bravery.

Demonstrating its society's deep respect for every human being's right to
freedom of thought and expression, Iceland responded with action, not merely
empty words. Its grant of citizenship and a new passport has freed Bobby
Fischer from a trap set for him by the U.S. and Japanese governments.

On Thursday, March 24, 2005, Bobby Fischer will be released from the East
Japan Immigration Detention Center in Ushiku, north of Tokyo, and he will
drive to Narita Airport, to the east of Tokyo, for onward travel to his new
home in Iceland. He will be joined by his fiancée, the women's chess
champion of Japan, Ms. Miyoko Watai, who will fly to Iceland with him.

They should be leaving the detention center at 9:00 AM Japan time and arrive
at Narita Airport sometime after 10:00 AM. At the airport, we will be trying
to give Bobby Fischer a chance to speak to the media sometime between 10:00
AM and 12:00 noon. We hope he will be able to describe his Japanese ordeal
and the two decades of harassment by the U.S. government for holding
unapproved political views.

When he won the World Chess Championship in 1972 and took the title away
from the Soviet Union, this true U.S. national hero showed the world how one
freethinking man can defeat any system, no matter how powerful. By going
forward, despite U.S. sanctions, with his rematch chess championship against
Boris Spassky in Yugoslavia in 1992, he demonstrated that no government can
stop a man from freely practicing his art anywhere on this planet. And now,
over the past nine months, Bobby Fischer has proven that the individual can
withstand the combined forces of the world's mightiest governments, whenever
he has justice on his side.

We have witnessed a historic battle.

Bobby Fischer will be flying out of Tokyo's Narita Airport on the
Scandinavian Airways flight to Copenhagen that leaves at 12:40 PM on
Thursday. His many supporters here in Japan and around the world salute him.

Media Contact:
John Bosnitch
Chairman
The Committee to Free Bobby Fischer
http://www.freebobbyfischer.net
Mobile telephone: +81(90)8119-6679

Un commento a "Il mercato chiede foibe, Repubblica risponde"
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4335

Un Natale in Istria, Ricordando


Era la prima volta dal 1947 che passavo il Natale in Istria nelle due
vecchie case dei nonni nel mio paese vicino a Pisino.
A sessanta cinque anni, ero ritornata a casa. Cittadina americana, docente
universitario, vedova di marito americano, con una figlia a New York, qui
ero rimasta la figlia di Pepi. Mi conoscevano tutti. Dovetti fare molte
visite. La moglie di mio cugino--la chiamero' Loredana-- mi disse, "Mio
nonno fu ucciso dai tedeschi." In visita ai suoi genitori--gente della mia
eta'--chiesi a sua mamma: "Suo padre era partigiano?" "Si, e pure mio zio."
"Cosa successe?" "Qui a Galignana, arrivo' la notizia che mio padre era
stato ucciso e che dovevamo scappare. Andammo in bosco--mia madre, io, i
miei fratelli, i nonni, gli zii--tutta la famiglia. Bruciarono la casa. E
non solo la nostra. Molte qui in paese." "E come avete fatto senza casa?"
"Quando se ne andarono i tedeschi e quelli che ci avevano fatto la spia--i
collaboratori fascisti--mia mamma riusci' a salvare poche cose dall'incendio
ed andammo a vivere nel bosco."

Il giorno di Natale, passo a salutare un amico, lo chiamero' Ive.
Ha dieci anni piu' di me e ricorda il fascismo. Parla a mala pena l'italiano
e ricorda la snazionalizzazione sotto il regime di Mussolini. E' un uomo
buono Ive, come si dice da queste parti.
Non beve, coltiva i campi, cura le sue mucche, e' religioso.
Gli chiedo, "Impiccarono un tale alla stazione." Annui'. "Come accadde?"
"Era un giovane partigiano, non di queste parti, dicisettenne. I tedeschi lo
torturano nella casa di Paolo [lo stradino]. E poi fecero marciare il paese
nella stazione e ci fecero guardare mentre lo issarono sul palo della
rifornitura dell' acqua." "Allora e' vero il mio ricordo." "Si, c'eri pure
tu. C'eravamo tutti." "Era vivo?" "No. Poi lo lasciarono appeso per tre
giorni. Volevano che ne sentissimo la puzza."

Dico a Ive, "Mia mamma ricordava un giorno di Pasqua del '44 o '45. Andava
gli otto chilometri a piedi al castello di Pisino con una signora del paese.
Non ricordo il nome. Andavano tutte e due a vedere se i loro uomini, presi
in una rappresaglia tedesca a retata giorni prima, erano ancora vivi. Quando
girarono la curva, sotto la stazione, videro il primo impiccato. L'amica di
mia mamma grido' il nome del marito e abbraccio' l'albero dal quale lui
pendeva."
"Si, era uno del paese. Ne impiccarono diciasette. Lungo il viale di Pisino.
Uno, quello che tua mamma ricordava, era del nostro paese. Portava viveri in
montagna. Ai partigiani."

Mia zia ha ottanta tre anni. A capodanno, le chiedo, "Una volta, dovemmo
scappare a Pagobize. Ricordo che mettemmo materassi, viveri, e coperte su
dei carri trainati dai buoi. Andammo di notte." "Si, era l'otto ottobre del
1943. Erano arrivati i tedeschi. Fummo avvertiti che avrebbero bruciato il
paese. Pensavamo che rifugiandoci per i paesi delle colline avremmo potuto
salvarci.
La gente ci dette rifugio. Pero' quella stessa notte ci fu una grande luce.
Ci cercavano con dei grandi riflettori. Vennero a perquisire casa per casa.
Noi della nostra famiglia eravamo tutti ammucchiati in una stanza." "Pure i
nostri padri?" "Si, pure i padri. Apri' la porta un ufficiale tedesco. Fece
cenno di starcene zitti. Ci rassicuro'. Poi se ne ando'." Pure questo era
stato veramente vissuto, mi dico--questo incubo che mi perseguito' per
decenni.
Nel sogno, mi trovavo in una specie di paese fortificato. Poi cadevano le
mura, e mi trovavo i tedeschi di fronte.

Vengo alla questione delle foibe. Dico a mia zia, "Il nonno, il padre di mia
mamma, era fascista?" Ebbe un fuggevole sorriso, come di scusa. Non voleva
ferirmi. Dissi, "Dimmi la verita'. Cosa dicono in paese?" "Dicono che era
forte fascista. Lo presero l'otto settembre. Non si seppe mai nulla di
preciso, pero' senza dubbio fu infoibato." "Tu, cosa ne pensi?" "Furono
tempi terribili. La gente si vendico'." "I partigiani, tu li temevi?"
"No. Avevamo solo paura dei tedeschi." Questo coincide con il mio ricordo.

A mia cugina Beatrice, ricordo, "Ci avevamo mandate a portare la colazione
alla gente che lavorava nei campi. Al ritorno, sulla strada ci si
avvento'adosso, a picchio un aereo tedesco che si mise a mitragliarci. Tu
eri piu' piccola di me. Ricordi? Qualcuno corse dai campi, ci trascino' nel
tombino sotto la strada. E quella notte bombardarono Pisino. Noi passammo la
notte in cantina. In silenzio eccetto per il gocciolio dell'acqua da un
rubinetto che nessuno badava a tappare. C'era pure la bisnonna e il prozio
Martino."
Disse lei, "Si, bombardarono Pisino perche' i partigiani avevano dato
l'assalto ad un treno che portava soldati italiani arrestati a Pola in
prigionia in Germania e li avevano liberati."

Sento il bisogno di ricordare perche' leggo che La Repubblica sta
caratterizzando i partigiani del "confine slavo" come dei consapevoli
terroristi. Oh, non usano questo termine, pero' lo intendono. Io voglio dire
che se una donna di sessanta cinque anni, allora bambina, ha questi ricordi
e li conferma nel suo paese, chi era il fautore del terrore? Mi sembra che
si stia rovesciando la realta', dicendo che i partigiani fossero gli agenti
del terrore. E non e' vero. Chiunque si prenda il disturbo di andare in
Istria ad intervistare i superstiti, trovera' che il bilancio del terrore si
verte di una maniera strarompente da una sola parte: la parte nazifascista.
Ho voluto testimoniare a questo favore. Solamente questo. Mi si permetta.

Luciana Opassi Bohne
Edinboro University
Edinboro, Pennsylvania

 
----- Original Message -----
From: Alessandro Di Meo
Sent: Wednesday, March 23, 2005 5:05 PM
Subject: 25 Marzo 2005

24 marzo 1999 - 24 marzo 2005, sei anni dalla guerra alla Jugoslavia: neppure un dubbio!
E' davvero inquietante il fatto che proprio in questi giorni, in cui cade il sesto anniversario della guerra "umanitaria", la prima nel suo genere, della Nato alla Jugoslavia, molti di quei politici che hanno sulla coscienza il dramma che decine e decine di migliaia di rifugiati serbi (ma anche di altre etnie) vivono ininterrottamente da quei giorni, abbiano ripreso voce per riaffermare la giustezza, bontà loro non sempre, degli interventi armati.
E' inquietante che questi politici, alla vigilia di elezioni importanti, quasi a farne campagna elettorale contro il governo guerrafondaio della destra, riprovino a mostrare all'eterno alleato statunitense, nel 1999 sotto l’ombrello Nato, il loro volto più affidabile. Peccato che sia macchiato di sangue.
Per noi che, in questi anni, abbiamo conosciuto la tragedia degli sfollati dal Kosovo e ci siamo battuti per portare loro solidarietà concreta attraverso numerose iniziative realizzate, quelle parole pesano come macigni. Non un dubbio è affiorato nelle coscienze di costoro, non una parola è mai uscita dalle loro bocche per tutte quelle famiglie e per tutti quei ragazzini, vittime innocenti di scelte infami. Gente che ha perduto tutto e che, dopo sei anni, non sa neppure cosa l'aspetta nel futuro perché pure questo diritto gli è negato. Come è negato, per i famigliari degli oltre mille scomparsi nel dopo guerra, il diritto di sapere che fine hanno fatto i loro cari, vittime, a "processo democratico" già avvenuto, della violenza di una banda armata, l'UCK, che in tempo di "guerra al terrorismo", è stata fatta passare per "esercito di liberazione" e riciclata nella forza di polizia del “Kosovo liberato”. Un Kosovo, oggi, base Nato più grande d’Europa e, soprattutto, crocevia di traffici illeciti dei quali, però, non si parla.
Dire che con questi politici dovremo stare attenti, è davvero poco.
Il nostro impegno, a sei anni da quelle bombe “umanitarie”, è ancora quello di testimoniare una situazione drammatica, per nulla risolta. Migliaia di famiglie vivono in condizioni precarie in centri di accoglienza che da temporanei sono divenuti definitivi. Il diritto al rientro in Kosovo è una chimera, sbandierata da politiche opportunistiche una volta del governo, una volta dell’opposizione, una volta della comunità europea. Non ci credono più neppure loro. Gente che ha perduto tutto e che avrebbe diritto almeno al risarcimento di ciò che gli è stato confiscato, distrutto, bruciato.
Porteremmo volentieri questi politici “privi di dubbi” nelle nostre missioni.
Per farli incontrare con le decine di famiglie di sfollati sostenute a distanza e che sono costrette a fare conto su di noi e sulla nostra capacità di sensibilizzare e testimoniare la loro situazione;
per farli partecipare alle iniziative con bambini, sfollati e non, che vivono le difficoltà di un dopo guerra che ha solo creato tanti nuovi poveri, come se al mondo non ce ne fossero già abbastanza;
oppure, per portarli a visitare le donne sfollate che, fra mille difficoltà e fatiche, ancora sanno ricamare a mano e cercano, col nostro aiuto, di vendere qualcuno di quei lavori, straordinari, per farne salario;
oppure, potremmo fargli vedere come operano i medici negli ospedali, ancora costretti ad “arrangiarsi” con mezzi che, alla sola vista, ci farebbero allontanare disgustati.
Ma, più semplicemente, potremmo far loro conoscere un ragazzino che da due anni e mezzo è qui da noi, in Italia, a Roma, per curare l’Anemia Aplastica, terribile malattia del midollo. Magari, incontrandolo, potrebbero essere assaliti dal dubbio che le migliaia di tonnellate di uranio impoverito distribuito generosamente su quella che ora si chiama “ex Jugoslavia”, non fanno male solo a qualche nostro soldato ma pure a tanti bambini, colpiti da leucemie varie, che non potranno mai curare.
E’ per tutti loro che non riusciamo a dimenticare.
E’ per tutti loro che continuiamo a testimoniare e a denunciare.
E’ per tutti loro, che abbiamo il dovere di farlo.
Ed è per loro, che restiamo in attesa che almeno un dubbio possa fiorire nelle certezze dei colpevoli di allora.

Un Ponte per... (campagna per Belgrado)


           ...............ooooooooOOOOOOOOOOOooooooooo...............

               "Deve esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
                      dove non soffriremo e tutto sarà giusto..."
                             (francesco guccini - cyrano)

                                  Un ponte per...
Associazione Non Governativa di Volontariato per la Solidarietà Internazionale
                     Piazza Vittorio Emanuele II 132 - 00185 - ROMA
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In una remota repubblica dell'Asia Centrale ai confini con la Cina si sta
ripetendo il golpe del 5 ottobre 2000 ai danni del Presidente Slobodan Milosevic.
Allora il giornale "Liberazione" titolò "Belgrado ride", chissà se domani
leggeremo "Bishkek ride".
Da Repubblica.it

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L'opposizione accusa di brogli elettorali il capo dello Stato Akayev
Liberato dal carcere il leader dell'opposizione: parlerà al popolo in televisione
Guerra civile in Kirghizistan
Il presidente fugge dal paese
Assaltato il palazzo del governo; occupata la tv nazionale
Due ministri nelle mani dei dimostranti firmano le dimissioni


Uno dei rivoltosi ferito negli scontri con la polizia
BISHKEK - Guerra civile a Bishkek, capitale del Kirghizistan, repubblica
ex sovietica dell'Asia centrale.
Quindicimila manifestanti sono scesi in piazza per protestare contro il presidente
Akayev accusato di brogli elettorali nelle elezioni del 13 marzo scorso.
Respinta in un primo momento da soldati e agenti in assetto anti-sommossa,
che avevano fatto ricorso persino alla cavalleria, l'opposizione kirghiza
ha ripreso il sopravvento ed è riuscita a impadronirsi della cosiddetta Casa
Bianca, il palazzo sede del governo e della Presidenza della Repubblica,
da cui si innalzano denso colonne di fumo. Poco dopo è finita nella mani
dei manifestanti anche la sede della televisione.

Il presidente della repubblica è fuggito verso la Russia mettendo in salvo
la famiglia nella più vicina repubblica ex sovietica del Kazakhstan. Il ministro
della difesa Esen Topoiev, e il ministro dell sicurezza nazionale (e capo
dei servizi segreti), Kalyky Imankulov, bloccati dalla folla, sono stati
costretti dai dimostranti a firmare le lettere di dimissioni. Feroci scontri
tra i manifestanti e la polizia che ha usato i manganelli. Sono stati sparati
colpi di pistola in aria: la gente ha reagito con bastoni e lanciando pietre.
Ci sono almeno trenta feriti.

L'aeroporto della capitale è stato chiuso mentre gli scali di Osh e Jalalabad
sono occupati dai manifestanti. Uno dei principali leader dell'opposizione,
Kurmanbek Bakiyev, insieme a Rosa Otunbaeva, altra principale figura della
rivolta, hanno fatto ingresso trionfale nel palazzo del governo. I dimostranti
sono riusciti a far liberare dal carcere un altro leader dell'opposizione
Felix Kulov chiamato "il generale del popolo": "Parlerà presto alla televisione",
hanno detto i dimostranti. La situiazione nel paese è sempre più drammatica
e l'esito della guerra civile quanto mai incerto.

Centinaia di agenti hanno disertato passando nelle file dei rivoltosi. "
Se i generali e la polizia verranno dalla nostra parte - ha urlato alla folla
l'ex primo ministro Bakiuyev durante un comizio improvvisato sui gradini
del palazzo della Presidenza - risolveremo la crisi pacificamente". I dimostranti
promettono nuove elezioni. Dal canto suo, la Russia ha espresso allarme per
la piega presa dalla crisi in Kirghizistan e ha rivolto un appello perché
nella repubblica ex sovietica "lo sviluppo degli eventi avvenga nell'alveo
della legge".

La situazione politica. Contro i risultati delle elezioni, la variegata opposizione
al presidente (che arruola, tra gli altri, anche vetero-comunisti, notabili
islamici, capi tribù della minoranza uzbeka, bande giovanili), anima da qualche
giorno una rivolta, in particolare in due città del profondo sud del Paese,
Osh e Jalalabad, oltre che nella capitale.

La crisi del paese - che ha qualche punto di contatto e molte differenze
con le recenti "rivoluzioni" pacifiche avvenute in altri Stati ex sovietici
come le lontane Ucraina e Georgia - si trascina dall'inizio della settimana.
E fa da sfondo in queste ore anche a una polemica diplomatica tra l'Ue e
la Russia, che sente odore di accerchiamento geopolitico dopo le svolte verso
Occidente di Tiblisi e Kiev. Secondo il capo della diplomazia europea, Javier
Solana, i disordini kirghizi sarebbero la conseguenza delle irregolarità
elettorali compiute per garantire una larga vittoria dell'establishment e
un parlamento decisamente docile nei confronti del neo presidente.

L'ipotesi di un ribaltone al vertice istituzionale del Kirghizistan, territorio
povero e montagnoso, ma strategicamente cruciale nella regione dell'Asia
centrale, non appare del tutto impossibile. E' concreto il rischio di un
caos crescente e di una spaccatura tra l'estremo Sud (arretrato e popolato
dalla scontenta minoranza etnica uzbeka) e il resto del paese.

(24 marzo 2005)

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