Informazione


Di seguito il testo del documento sulla questione delle foibe e sull'intervento di Napolitano del 10 febbraio u.s. approvato all'unanimità (nessun contrario, un astenuto) dalla Conferenza d'Organizzazione della Federazione PRC di Parma svoltasi nei giorni 24 e 25 marzo 2007, e fattoci pervenire da G. Caggiati. Dalla stessa fonte riceviamo anche la inquietante testimonianza sull'atteggiamento revisionista dei vertici locali dell'ANPI, riportata più sotto. 


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O.D.G. SULLA “QUESTIONE FOIBE”  E IL DISCORSO DEL PRESIDENTE NAPOLITANO DEL 10 FEBBRAIO APPROVATO ALL’UNANIMITA’ DALLA CONFERENZA D’ORGANIZZAZIONE DELLA FEDERAZIONE DI PARMA DEL P.R.C. SVOLTASI A PARMA NEI GIORNI 24,25 MARZO 2007 


«Vi fu un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di Pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica».

La Conferenza d’Organizzazione della Federazione di Parma del PRC considera queste parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Napolitano il 10 febbraio in occasione della celebrazione della  «Giornata del ricordo» assolutamente gravi e del tutto inaccettabili.
Esse si inscrivono nel generale quadro di mistificazione  e revisione della storia del secolo scorso in atto da anni e intrapreso dalle destre; in particolare fascisti e postfascisti strumentalizzano da sempre il dramma delle foibe e dell’esodo per attaccare l’antifascismo e la Resistenza, il movimento di Liberazione e i partigiani, i comunisti.

Non vi fu disegno annessionistico slavo, semmai vi fu una Conferenza di Pace alla quale l’Italia prese parte, nella persona di De Gasperi, come Paese sconfitto alleato della Germania. Non vi fu pulizia etnica da parte jugoslava, come dimostra il fatto stesso che ben limitato è stato il numero dei riconoscimenti conferiti a parenti delle vittime delle foibe da parte dello stesso Napolitano nella commemorazione del 10 febbraio. Un tentativo organizzato e programmato di pulizia etnica vi fu piuttosto da parte dell’Italia fascista. A cominciare dal violento discorso razzista di Mussolini del 1920 a Pola e dalle azioni squadriste, poi con l’“italianizzazione” realizzata durante il ventennio nero, infine con i crimini commessi durante l’occupazione militare di Slovenia e Croazia in seguito all’immotivata aggressione italiana della Jugoslavia del 1941. 

I fatti tragici delle foibe del settembre-ottobre ’43 e del maggio ’45 sono storicamente inseriti in questo contesto, non sono assimilabili ai crimini del fascismo e non mettono in discussione il valore fondamentale della Resistenza italiana e della Resistenza jugoslava, con la quale ultima, dopo l’8 settembre ’43, si schierarono e combatterono ben 40.000 soldati italiani abbandonati dai loro comandanti e dallo stato maggiore italiano.

I fatti delle foibe, per quanto tragici, sono di dimensioni molto più contenute (circa cinquecento vittime, per lo più militari, forze dell’ordine, funzionari dell’Italia fascista occupante la Jugoslavia), sono stati una reazione ai crimini fascisti più di giustizia sommaria da parte di partigiani jugoslavi che non violenza programmata dall’alto del vertice di Tito.

La Conferenza d’Organizzazione della Federazione di Parma del Partito della Rifondazione Comunista chiede:
-ai dirigenti nazionali del P.R.C. di prendere le distanze dalle parole del Presidente    Napolitano;
-al quotidiano del partito, «Liberazione», di dare più spazio e risalto alle varie iniziative in corso in Italia dirette a contrastare il disegno revisionistico della storia e di pubblicare interventi critici in relazione alle manifestazioni ufficiali della «Giornata del ricordo», istituita nel 2004 col voto contrario del PRC in Parlamento;
-al compagno Sandro Curzi, membro del Consiglio d’Amministrazione della RAI TV, di adoperarsi affinché la tv di Stato trasmetta il filmato della BBC «Fascist Legacy» che documenta i crimini di guerra commessi dall’Italia fascista in Africa e in Jugoslavia.   


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L'11 febbraio scorso abbiamo fatto a Parma la contromanifestazione sulle foibe (2^edizione) che ha visto la partecipazione di duecentocinquanta persone: l'ANPI cittadina e provinciale non vi ha aderito nè partecipato, nonostante la nostra richiesta. Perchè? Perchè qui l'ANPI nemmeno partecipa mentre altrove partecipa, aderisce o addirittura promuove? Fra i relatori avevamo il Presidente di un Comitato Provinciale dell'ANPI!  Non dell'Emilia Romagna però. Appunto...  Chiudo inserendo sotto la lettera che abbiamo preparato per l'ANPI provinciale di Parma, per la quale stiamo raccogliendo le firme, di compagni e antifascisti, iscritti o meno all'ANPI stessa.
Giovanni Caggiati  -  Parma


COMITATO    ANTIFASCISTA    DI       PARMA      PER     LA     VERITA' SULLA     "VICENDA     FOIBE"

Al Presidente del Comitato Provinciale di Parma dell'ANPI

p.c.   
al  Presidente Nazionale dell'ANPI
ai  segretari delle sezioni comunali parmensi dell'ANPI


Sig. Presidente,

                       la legge 92 del 2004, che istituisce per il 10 febbraio la «Giornata del ricordo delle foibe e dell'esodo degli italiani dalla Venezia Giulia e dall'Istria»  approvata dal Parlamento su proposta del deputato Roberto Menia (AN) sta producendo i  suoi frutti avvelenati, piuttosto che portare a una memoria condivisa sta alimentando polemiche, contrapposizioni, contestazioni, mistificazione della storia, rispetto ai tragici fatti  accaduti nel settembre-ottobre '43 e nel maggio '45 a Trieste, in  Istria e in Dalmazia.

                        In realtà la legge è stata  voluta dai postfascisti non per ricordare delle vittime e fare opera di approfondimento storico e di verità quanto per oscurare  i terribili crimini di cui si sono macchiati i fascisti e i nazisti nei territori della ex Jugoslavia. In questo modo si tenta ancora una volta, sulla scia di un revisionismo becero e manipolatore, di infangare la Resistenza antifascista, di stabilire un osceno paragone fra Risiera di San Sabba e foibe, di confondere cause ed effetti, di equiparare casi di giustizia sommaria a regimi criminali. Tanto più grave è questa operazione se si pensa ai tanti militari italiani che proprio in quelle regioni dopo l'8 settembre '43 si schierarono con i partigiani jugoslavi versando il loro sangue per la liberazione di quelle terre e per la generale sconfitta del nazifascismo. Meglio avrebbe fatto il Presidente della Repubblica Napolitano nel suo discorso del 10 febbraio a rendere onore a questi italiani, anziché parlare di «disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» e distribuire onorificenze almeno alcune delle quali alla memoria di ex criminali fascisti.

                        Riteniamo pertanto grave la mancata adesione e partecipazione dell'ANPI provinciale di Parma all'iniziativa promossa e realizzata l'11 febbraio scorso dal Comitato antifascista di Parma per la verità sulla "vicenda foibe" al fine di contrastare e contestare civilmente, sulla base di una analisi storica ineccepibile, questa operazione revisionista che sta dietro la Giornata del Ricordo. A questa iniziativa contributi significativi hanno dato sia  storici sia una figura limpida dell'antifascismo quale il Presidente dell'ANPI di Treviso Umberto Lorenzoni.

                        La relazione di Lorenzoni alleghiamo alla presente in quanto merita di essere letta  e diffusa poiché ricostruisce compiutamente la verità dei fatti e il contesto storico in cui si collocano gli stessi tragici eventi occorsi alle popolazioni italiane di Istria e Venezia Giulia.



(français / deutsch / english)

A. Lacroix-Riz : À l'origine de l'intégration européenne

1) Sous l'égide de l'ancien Reich 

22/03/2007 - german-foreign-policy.com a parlé avec Prof. Annie Lacroix-Riz sur l'origine de l'intégration européenne...

2)  Success Story

2007/03/22 - A "Berlin Declaration" will give the EU summit on Sunday (March 25) the "initial spark" for the ratification of a slightly modified EU Constitution... "France's Germany policy died, when the German-American post-war alliance began" - in the summer of 1945, judges the French historian, Prof. Annie Lacroix-Riz in a discussion with german-foreign-policy.com. In the conflict around the EU constitution, France again relents...


LINKS:



Ce documentaire tente de répondre à cette question : sommes-nous entrés dans une période comparable à celle qui a précédé les deux guerres mondiales ? Pour l'historienne Annie Lacroix-Riz, à chaque fois qu'il y a remise en cause du statu quo issu de la précédente guerre, en particulier dans la zone très disputée d'Europe de l'Est, une autre déflagration mondiale est à nouveau possible. 




PROPAGANDE DE GUERRE, PROPAGANDE DE PAIX

documentaire avec Annie Lacroix Riz, en téléchargement libre sur internet

http://video.google.fr/videoplay?docid=1838258269958293517

http://www.dailymotion.com/worldhistoria/video/xztbh_collabo

www.historiographie.info



Unter der Führung des Reiches 

22.03.2007 PARIS - Über die Ursprünge der sogenannten europäischen Einigung sprach german-foreign-policy.com mit Prof. Annie Lacroix-Riz. Frau Lacroix-Riz ist Professorin für Zeitgeschichte an der Université Paris VII...



Erfolgsgeschichte 

22.03.2007 - BERLIN/PARIS (Eigener Bericht) - Mit einer "Berliner Erklärung" wird der EU-Gipfel am kommenden Sonntag die "Initialzündung" für die Ratifizierung einer leicht modifizierten EU-Verfassung geben... "In Wahrheit wussten sämtliche Führungszirkel Westeuropas vor dem Ende des Zweiten Weltkrieges", sagt Annie Lacroix-Riz, "was die nicht-deutschen Eliten ihren eigenen Bevölkerungen verschwiegen": Die sogenannte europäische Einigung "würde man unter der Führung des ehemaligen Reiches verwirklichen, das unter der Vorherrschaft und der Obhut der Vereinigten Staaten seine Grenzen von 1937 (oder sogar nach 1937) wiedererlangen würde."...



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Sous l'égide de l'ancien Reich 

22/03/2007

PARIS german-foreign-policy.com a parlé avec Prof. Annie Lacroix-Riz sur l'origine de l'intégration européenne. Mme Lacroix-Riz est professeur d'histoire contemporaine à l'université Paris VII.

german-foreign-policy.com: A l'occasion des festivités pour l'anniversaire de l'Union Européenne, le ministère des affaires étrangères de Berlin parle d'un "succès sans précédent" de la communauté. Sous la présidence de de Gaulle, la France voulait diriger cette "œuvre d'union européenne", peut-on lire ensuite, mais pour des raisons inconnues, cela semblerait avoir échoué...

Prof. Annie Lacroix-Riz: "Succès sans précédent", assurément, puisque l'"union européenne" ouvertement revendiquée deux ou trois ans après la fin de la Deuxième Guerre mondiale (mais l'affaire remontait aux lendemains de la Première) visait à réaliser une complète liberté des capitaux et la déflation rigoureuse des salaires, et que ces deux objectifs fondamentaux - les seuls qui eussent vraiment intéressé les délégués du capital financier, français, allemands, etc., comme ils l'avouaient sans détour en privé dès 1948-1949 - ont été pleinement réalisés. Le verrouillage des revenus du travail (contrepartie de la liberté des profits) serait désormais d'autant plus rigoureux qu'il ne serait plus assuré seulement par les patronats et les États nationaux, forcément sensibles aux résistances de leurs peuples respectifs: la police des salaires unifiée serait conduite à plusieurs, chaque pays à bas salaires étant supposé exercer une pression déterminante sur le niveau des salaires des pays à salariés plus combatifs, mieux organisés, donc jusqu'alors mieux lotis. Voilà en quoi consista "l'Europe sociale", thème avec laquelle on allèche périodiquement les populations déjà incluses dans l'"union européenne": on leur expose que "le social" (les bons salaires) viendra plus tard, ou que c'est la seule chose qui manque à l'entreprise "européenne", mais qui reste à conquérir. Aux membres des nations orientales récemment incluses, on avait initialement pratiquement promis la Mercedes pour tous, après quoi, leur pays une fois "intégré", elles ont entendu l'argument présenté ci-dessus relatif à la future "Europe sociale".

"Succès sans précédent", surtout pour l'Allemagne, dont le ministre des Affaires étrangères se félicite en termes à peine polis du fiasco des prétentions françaises à "diriger cette 'œuvre d'union européenne'". De fait, tous les milieux dirigeants d'Europe occidentale surent avant la fin de la Deuxième Guerre mondiale ce que leurs fractions non-allemandes dissimulèrent soigneusement à leurs populations: c'est sous l'égide de l'ancien Reich appelé à retrouver, sous la tutelle et la protection des États-Unis, sa puissance et ses frontières de 1937 (voire d'après 1937) que cette entreprise serait menée à bien. Il est de bonne guerre pour un ministre allemand de se flatter auprès de sa population d'un succès récent, prétendument arraché de haute lutte. Tout comme il fut de bonne guerre, pour De Gaulle, démissionnaire du gouvernement en 1946, de faire croire au peuple français que "nous ten[i]ons le Rhin", alors qu'il fuyait précisément parce que la "politique allemande" de la France était vouée à la mort par l'alliance germano-américaine et parce qu'il s'estimait incapable de s'opposer à ce cours.

gfp.com: La présentation du ministère des affaires étrangères ne mentionne pas du tout le rôle qu'ont joué les Etats-Unis dans les luttes d'influence pour le pouvoir économique et politique en Europe. Quand et pourquoi les Etats-Unis ont-ils influencé le processus d'unification de l'Europe et quel était leur but?

Lacroix-Riz: Les États-Unis sont sortis de la Première Guerre mondiale avec des objectifs européens inclus dans les "14 points de Wilson": faire de l'Europe une zone ouverte à leurs capitaux et à leurs marchandises, métropoles et colonies: "l'exclusivité impériale" bénéficiait aux impérialismes européens rivaux et soustrayait aux capitaux américains les matières premières à bas prix dont ils avaient besoin. Ils ont œuvré à la réalisation de ces buts dans l'entre-deux-guerres, grâce à leur énorme poids financier, d'une part, de créanciers de l'Entente franco-anglaise depuis la guerre puis, à partir des années vingt, du Reich qui finança son réarmement à marches forcées par l'emprunt extérieur et, d'autre part, d'investisseurs de capitaux (particulièrement en Allemagne). Mais ils connurent des échecs sous l'effet de la crise, qui conduisit les concurrents européens à se protéger d'eux, tout comme ils l'avaient fait depuis eux-mêmes depuis la naissance de leur propre capitalisme: selon certains historiens, tel Gabriel Kolko, le plus sérieux revers subi par Washington dans l'entre-deux-guerres fut la décision de "préférence impériale" prise en 1932 par la Grande-Bretagne à la conférence d'Ottawa du Commonwealth.

La Deuxième Guerre mondiale remit aux États-Unis victorieux et considérablement enrichis des atouts décisifs dans la création d'un vaste bloc européen d'accès entièrement libre: gigantesque endettement britannique suivi de l'endettement de toute l'"Europe occidentale" (qui conduisit les intéressés à accepter toutes les conditions financières et commerciales américaines, abandon des empires coloniaux compris); équivalence or du dollar et multilatéralisme menant toujours à Washington décrétés à la conférence de Bretton-Woods de juillet 1944 (et perspective d'abandon des tarifs douaniers et contingentements); maîtrise directe dès le printemps 1945 et peu après pour les deux autres "zones occidentales" de la partie la plus riche de l'Allemagne, incluant la Ruhr, base de son économie de guerre; promesse de maîtrise à assez court terme, notamment via l'Église romaine toute puissante, des zones d'Europe orientale pour l'heure incluses dans la sphère d'influence soviétique; tutelle directe (AMGOT en Italie) ou indirecte d'une zone d'influence ouest-européenne dont les dirigeants économiques et politiques nationaux n'avaient pas grand chose à refuser aux États-Unis: sauveteurs des coffres-forts, ils assuraient la sécurité et l'avenir des élites compromises par leur comportement depuis les années trente et surtout l'Occupation.

L'URSS étant réduite à la paralysie sur les projets de "reconstitution prioritaire" du Reich, les États-Unis, après avoir vaincu les résistances des autres pays de leur sphère d'influence européenne à la "reconstruction prioritaire de l'Allemagne", purent faire de celle-ci le pivot de l'union européenne: après l'abdication définitive par la France en 1948 de ses objectifs officiels en Allemagne et l'agrégation de sa zone d'occupation à la Bizone anglo-américaine, la voie fut ouverte à "l'union douanière" préparée à Washington pendant la guerre, dont l'Allemagne occidentale prendrait la tête.

gfp.com: Quels intérêts économiques la France poursuivait-elle après la fin de la Seconde Guerre mondiale face à l'Allemagne de l'Ouest?

Lacroix-Riz: La France de 1918 était victorieuse et avait défini elle-même sa "politique allemande", celle du traité de Versailles, que d'ailleurs elle n'appliqua pas. La "politique allemande" de la France de 1945, qui avait connu l'ignominieuse défaite de juin 1940, se ressentit de cette accablante réalité: c'est Washington désormais qui en définit les bornes. Les dirigeants français affichèrent leur revendication de "réparations", mais cet objectif fièrement énoncé à leur population était incompatible avec la volonté des Anglais (maîtres provisoires de la Ruhr) et des Américains de ne pas faire revivre trop tôt les mines de la Ruhr (concurrentes des leurs), de vendre en dollars le peu de charbon qui sortait des mines et, du côté américain, d'éviter que les Ouest-Européens ne reçussent trop de charbon - excellent et deux fois moins cher que l'américain. Les États-Unis voulaient en effet placer sur le marché européen leur propre charbon, dont l'après-guerre rendit à nouveau la production excédentaire. Ils laissèrent un moment à la France, outre la petite zone d'occupation prélevée sur la leur et sur celle des Anglais, "l'os de la Sarre". Cette concession provisoire servit d'ailleurs de prétexte à la rupture de Bidault avec l'URSS à la conférence de Moscou d'avril-mai 1947: le ministre des Affaires étrangères français prétendit que Staline avait "refusé à la France le bénéfice de la Sarre", ce qui avait obligé Paris à choisir la voie "occidentale"; mais il cacha soigneusement aux Français que les Anglo-Américains lui refusaient l'envoi du charbon de la Ruhr, même payé en dollars. Le gros mensonge de la responsabilité de Staline dans la "rupture" fut avalisé par la grande presse, qui fut muette sur le second aspect des choses.

Pour le reste, la politique française consista à "gagner du temps" contre le retour du Reich à la Gleichberechtigung et à la puissance (dimension militaire incluse). Les étapes de ce retour se succédèrent inexorablement depuis l'annonce du Plan Marshall (juin 1947) et l'abandon officiel (en juillet) par les Anglais et les Américains des limitations de production industrielle fixées entre Yalta et Potsdam. En 1950, peu après le discours du 9 mai de Robert Schuman annonçant la création de la Communauté européenne du charbon et de l'acier, prétendue "œuvre de paix et de réconciliation" franco-allemande qui reconstituait le cartel de l'acier, Adenauer put se vanter auprès des Allemands d'avoir balayé tous les interdits et contrôles nés de la défaite.

gfp.com: La France avait-elle déjà perdu la lutte d'influence lorsque la CEE fut créée avec les Traités de Rome?

Lacroix-Riz: L'issue de la lutte d'influence était admise avec résignation par les dirigeants français dès l'été 1945 et c'est une des raisons, je l'ai dit plus haut, pour lesquelles de Gaulle, qui ne voulait pas assumer la réduction de la France à une impuissance totale en Allemagne, quitta le pouvoir. Les dirigeants français qui lui succédèrent se mirent en colère en privé, parfois même encore devant les Américains: Bidault tempêta contre eux à l'été 1947, mais il rendit vaines ses récriminations en réunissant sagement à Paris la conférence des Seize (fondatrice de l'Europe d'aujourd'hui), en promettant à sa population l'"Eldorado" du Plan Marshall et en accusant l'URSS de nourrir les pires intentions à l'égard de l'Europe occidentale et d'avoir empêché les malheureuses nations esclaves de l'Est (comme la Pologne et la Tchécoslovaquie) de recevoir le pactole américain.

Mais il ne voulut pas endosser les accords de Londres du printemps et de l'été 1948 qui liquidaient toute "politique allemande", et il céda la place au très docile Robert Schuman, homme du Comité des Forges et féal de la dynastie Wendel depuis l'avant-guerre. Du temps de ce "père de l'Europe" - ministre des Affaires étrangères favori de Washington et de Bonn -, les dirigeants français cessèrent de se mettre en colère: ils se rallièrent aux vues à la fois des États-Unis et des puissants intérêts français du cartel de l'acier, disposés au compromis avec l'Allemagne comme dans les années vingt et trente. Mais les responsables de l'appareil d'État avouaient sans détour que la France comptait pour rien depuis le début de 1947 et plus encore en 1948, année de l'adhésion française à la "Trizone", dans leur correspondance (mais pas à la population). Le Service de documentation extérieure et de contre-espionnage (SDECE) reconnut en janvier 1947 que le Département d'État "considér[ait] l'Allemagne et non la France, comme la clé de voûte du système européen". Le secrétaire général du Quai d'Orsay, Jean Chauvel, qui passait le plus clair de son activité publique à exalter le Plan Marshall et ses glorieuses perspectives si favorables à une France "leader" de la future Europe unifiée, constata tristement en janvier 1948, "devant l'ambassadeur américain à Paris Jefferson Caffery [, que] le Gouvernement français [était] traité [par Washington] exactement comme le Gouvernement soviétique", c'est à dire en quantité négligeable.

gfp.com: Comment qualifieriez-vous les conditions dans lesquelles a commencé la croissance politique de l'Allemagne de l'Ouest après 1957 ? Est-ce qu'en 1957 on a jeté les fondations pour le rôle hégémonique qu'exerce l'Allemagne en Europe actuellement?

Lacroix-Riz: Ce que je vous ai dit plus haut suggère que les choses étaient en 1957 jouées depuis plus d'une décennie. L'exigence américaine de la simultanéité du retour à la puissance industrielle de l'Allemagne et de la proclamation de son droit à réarmement au sein du Pacte atlantique (contre le "péril rouge" allégué) retarda quelque peu les choses: en lançant à l'automne 1950 la Communauté européenne de Défense, destinée à différer l'entrée officielle de la République fédérale d'Allemagne dans l'OTAN, la France pratiqua cette tactique de retardement qu'elle avait érigée en "politique allemande". André François-Poncet, l'homme du Comité des Forges d'avant, pendant et après-guerre, avait symbolisé l'adaptation française à la double tutelle des États-Unis et de l'Allemagne - après avoir consenti à la tutelle unique du Reich entre 1930 et la Deuxième Guerre mondiale. Il fit en 1953 mine de croire que l'hégémonie allemande sur le bloc européen ouvert aux États-Unis n'était qu'un risque futur: "Le jour où l'industrie française serait condamnée à la stagnation et ne pourrait plus faire contrepoids à la Ruhr, l'équilibre de forces sur quoi repose en définitive la Communauté se trouverait rompu. Luxembourg [siège de la CECA] cesserait, à plus ou moins lointaine échéance d'être la capitale européenne du charbon et de l'acier sous direction française. C'est à Düsseldorf que, de toute l'Europe occidentale, les dirigeants de l'industrie lourde se verraient contraints de venir se présenter aux ordres."

On avait alors résolument dépassé le stade du risque. L'éclatante victoire américaine de 1945 avait permis à l'Allemagne occidentale de gommer les conséquences de sa défaite.


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Success Story 

2007/03/22

BERLIN/PARIS (Own report) - A "Berlin Declaration" will give the EU summit on Sunday (March 25) the "initial spark" for the ratification of a slightly modified EU Constitution. As confirmed by the chairman of the relevant working group of the conservative CDU/CSU parliamentary (Bundestag) group, Michael Stuebgen, the declaration negotiated secretly, will, for tactical reasons, not mention the word "constitution," but will contain its "political substance." The German chancellor reserves for herself the final formulation of the document. The "Berlin Declaration" is supposed to be the crowning moment of the festivities on the weekend celebrating the 50th anniversary of the Treaties of Rome. The festive event is to celebrate the "unprecedented success story" (Foreign Ministry), in the course of which Germany, with the help of the Washington, successfully nullified conceptions of Europe held by the French resistance to the Nazis. "France's Germany policy died, when the German-American post-war alliance began" - in the summer of 1945, judges the French historian, Prof. Annie Lacroix-Riz in a discussion with german-foreign-policy.com. In the conflict around the EU constitution, France again relents. Both of the principal contenders in the French presidential race plan to have the draft treaty ratified, in spite of the May 2005 referendum defeat.

Final Touches

The German government made known already a week ago, that in spite of hefty objections on the part of several member states, the focus of the "Berlin Declaration" will be "future oriented." This refers to Berlin's insistence upon the ratification of the EU Draft Constitution. The CDU parliamentarian, Michael Stuebgen explained that , to avoid "unnecessary complications," the term "constitution" will not appear in the declaration.[1] To the populations of several EU nations, using the term "constitution," evoking the draft constitution that had been voted down in popular referendums or shown to be unpopular in opinion polls, would be a direct provocation. As far as Stuebgen is concerned, "essential" for the "Berlin Declaration" is not the term "constitution" but the "contents, the political substance, to which we adhere." The EU policy maker maintains that it was necessary to establish the document through secret negotiations and not permit a democratic debate. Otherwise the risk was of long-winded negotiations ("lasting months, at best") ending in a less than esthetic result ("an unreadable compendium"). The final formulations of the EU declaration are reserved for the German Chancellor, said Stuebgen. "Angela Merkel will apply the final touches."

Isolation

Stuebgen also confirmed that Berlin is setting the guidelines for the EU constitution. The wording, according to him, should be "very close to the current text."[2] At the beginning of the week, the President of the EU Commission, José Manuel Barroso, made known in the German press that he wants to allow "this or that correction" for the sake of "negotiation leeway."[3] But then all of the member states must "do everything within their power, to avoid another setback." Berlin refuses to make any serious concessions on content, particularly in regards to Poland, who is still resisting the planned strengthening of the German proportion of ballots within EU bodies.[4] Warsaw's objections have to be dealt with through "psychology," according to the CDU politician, Stuebgen.[5] Last weekend Chancellor Merkel succeeded in urging the Polish government to approve the "Berlin Declaration." In the German capital, one hears from reliable sources that Poland cannot afford to be isolated in the EU.

Investment Focus

The "Berlin Declaration," and with it, the "initial spark" for the final ratification of the slightly modified EU constitution, is a step further in the European unification process, that was - rightfully - apostrophized by the Foreign Ministry as an "unprecedented success story."[6] "The USA's commanding victory in 1945," explains the French historian, Annie Lacroix-Riz (professor at the Université Paris VII) in a discussion with german-foreign-policy.com, "made it possible for Germany to rid itself of the consequences of its defeat."[7] As Ms. Lacroix-Riz has proven in several publications, in the aftermath of the Second World War, the United States attributed a greater importance to "the economic resurrection of Germany than to that of France," because in Europe, it was the German Reich that, since the 1920s, had been "the most important recipient of US-American capital."[8] "In truth, before the end of the Second World War, the entire West European leadership knew" says Annie Lacroix-Riz, "what the non-German elites kept secret from their own populations:" The so-called European unification "would take place under the leadership of the former German Reich that, under the aegis of the United States, will have regained its 1937 (or even post 1937) borders."[9]

Fiasco

The German "success story" corresponds to the comprehensive fiasco for France's post-war Germany policy. Paris had already come to the conclusion, in the summer of 1945, that, in the struggle for influence in determining the restructuring of Western Europe, it was hopelessly outgunned by the United States (and indirectly also post-war Germany). In January 1946, Charles de Gaulle resigned as Prime Minister of France, because "he did not want to accept responsibility for France's depreciation into total impotence in occupied Germany," recalls Ms. Lacroix-Riz.[10] Paris was left solely with the option of resisting, as much as possible,"the Reich's achieving equal rights and power (including military)." The project of the so-called integration began, under pressure of the USA, which sought to create a unified European market for its expanding economy, with Germany as the economic nucleus and military frontline state against the Warsaw Treaty Organization.

Barter Currency

Paris sees itself induced, also in the current dissention concerning the EU constitution, to submit to the German plans. The two principal presidential candidates announced that they will ratify the treaty in a slightly modified form, despite the May 2005 referendum defeat. Nicolas Sarkozy alleges that in France "no one contested" the planned restructuring of EU institutions and therefore the treaty could be ratified by the parliament. Ségolène Royal says she is prepared for a new referendum. Her comrade in arms, the well-known former minister and former critic of German hegemonic efforts, Jean-Pierre Chevènement, declared that a few promises on the social level will be the necessary concessions. He also demands corrections in economic policy and in the statutes of the European Central Bank. For this, writes Chevènement, Paris' consent to the EU's restructuring, demanded by Berlin, would be the appropriate "barter currency."[11]


Please read our interview with Prof. Annie Lacroix-Riz in French or in German.

[1], [2] "Das macht Merkel selbst"; n-tv 20.03.2007
[3] So wenig Änderungen wie möglich". Kommissionspräsident Barroso drängt auf Ratifizierung der EU-Verfassung; Berliner Zeitung 19.03.2007
[5] "Das macht Merkel selbst"; n-tv 20.03.2007
[6] 50 Jahre Römische Verträge; www.eu2007.de
[8] Annie Lacroix-Riz: Frankreich und die europäische Integration. Das Gewicht der Beziehungen mit den Vereinigten Staaten und Deutschland 1920-1955, in: Thomas Sandkühler (Hg.): Europäische Integration. Deutsche Hegemonialpolitik gegenüber Westeuropa 1920-1960. Beiträge zur Geschichte des Nationalsozialismus Band 18, Göttingen 2002 (Wallstein Verlag)
[11] Sarkozy et l'Europe: une politique de Gribouille; www.chevenement.fr 19.03.2007







Propagande

Cuba, Internet et Reporters sans frontières

par Salim Lamrani*

Reporters sans frontières, une ONG française financée par les États-Unis, poursuit sa campagne de dénigrement de Cuba. Cette fois l’accusation porte sur une censure d’Internet qui serait la preuve du caractère dictatorial du régime castriste. Or, les faits allégués sont de la pure imagination. Et, relève Salim Lamrani, s’il y a un problème d’accès à l’Internet à Cuba, ce n’est pas pour des causes politiques internes, mais à cause des coûts élevés, conséquence du blocus économique imposé par… les États-Unis.



21 MARS 2007



Décidément, Reporters sans frontières (RSF) n’en finit plus d’être obsédée par Cuba. Depuis plusieurs années, cette organisation parisienne mène une campagne de désinformation acharnée contre l’île des Caraïbes et son gouvernement. Dernièrement, elle a délibérément manipulé les propos du ministre cubain de l’Informatique et de la communication, Ramiro Valdés, lors de son intervention – le 11 février 2007 – à la 12ème conférence internationale sur l’Informatique de La Havane, qui a réuni plus de 600 délégués en provenance de 58 pays [1].

Manipulation des propos de Ramiro Valdés

« Le ministre de la Communication, Ramiro Valdés, a déclaré, le 12 février 2007 [sic], qu’il considérait Internet comme un ‘outil d’extermination globale’ (Tool for global extermination) et qu’il fallait impérativement que cette ‘arme sauvage’ soit contrôlée », a déclaré RSF [2].

En réalité, le ministre cubain n’a jamais tenu de tels propos, comme cela est aisément vérifiable en consultant son discours. Il a dénoncé l’utilisation belliqueuse et répressive de la toile qu’en fait Washington pour y diffuser de la propagande en faveur des invasions de l’Afghanistan et de l’Irak et pour « augmenter le contrôle sur les gouvernements, les entreprises et les personnes, y compris le peuple nord-américain lui-même ». Valdés a souligné que « le Pentagone a fait part sans ménagement de sa décision d’incorporer un quatrième domaine d’opération aux corps spécialisés de la guerre conventionnelle. Aux classiques : Terre, Air, Mer, s’ajoute désormais le Cyberespace », conscient de l’importance grandissante de cet espace d’expression alternatif [3].

Au contraire, il a noté que « les technologies de l’Information et de la communication seront également au centre de cette volonté intégrationniste de la zone [Amérique] ». Valdés a stigmatisé l’utilisation malsaine d’Internet faite par les États-Unis et non pas l’outil d’information qu’est la toile. Il a insisté sur le fait qu’il était « indispensable de trouver des alliances stratégiques pour faire face aux tentatives hégémoniques dans ce nouveau champ de bataille » qui menacent « la souveraineté de nos peuples ». « Ces technologies se constituent en un des mécanismes d’extermination globale que [Washington] a inventé, mais malgré les risques connus qui en découlent, elles sont paradoxalement indispensables pour continuer d’avancer sur les voies du développement », a-t-il affirmé [4].

Valdés n’a pas jamais qualifié Internet d’« arme sauvage ». Il a argué de manière métaphorique que le « poulain sauvage des nouvelles technologies peut et doit être dominé » afin que les « communications informatiques soient mises au service de la paix et du développement » et non pas de la guerre, comme c’est le cas aux États-Unis [5]. En effet, le département de la Défense étasunien a annoncé le 2 novembre 2006 la création d’un Commando d’opérations des forces aériennes pour le Cyberespace pour renforcer la guerre électronique car, selon le lieutenant-général Robert Elder qui commande cette force, « il y a sans aucun doute beaucoup plus d’intérêt à utiliser le cyberespace comme un domaine de guerre [6] ».

Les véritables déclarations du ministre cubain

Ainsi, les manipulations de RSF sont nettement évidentes. L’organisation dirigée par Robert Ménard a attribué des propos à Valdés que ce dernier n’a jamais tenus. De plus, elle a soigneusement occulté les véritables déclarations, claires et sans ambiguïtés, du ministre cubain vis-à-vis d’Internet. En voici quelques-unes : « La Toile donne non seulement des possibilités d’expression aux secteurs ignorés par les grands médias, mais diffuse également des messages importants en faveur des aspects cruciaux pour l’humanité comme la paix, la protection de la planète et la justice, pour n’en citer que trois. De véritables communautés d’échange, de solidarité et de coopération se créent dans les champs de savoir humain les plus variés [7] ».

Valdés a relevé qu’ « Internet pourrait se transformer en un véhicule pour une révolution culturelle et éducative qui promouvrait le savoir, qui promulguerait l’éducation, la culture, la coopération, la solidarité, et des valeurs éthiques et morales dont a besoin ce nouveau siècle, défendant les sentiments humains les plus nobles et rejetant les conduites inhumaines, égoïstes et individualistes imposés par le système capitaliste, avec les Etats-Unis en tête [8] ».

Le « rapport » de RSF sur Internet à Cuba

Pour ce qui est d’Internet à Cuba, « Reporters sans frontières rappelle que le retard de Cuba en matière d’Internet résulte avant tout de la volonté du gouvernement de contrôler la circulation de l’information sur son territoire. Avec moins de deux internautes pour 100 habitants, Cuba figure parmi les pays les plus en retard en matière d’Internet. Il est de loin le plus mal loti d’Amérique latine – le Costa Rica fait 13 fois mieux – et se situe au niveau de l’Ouganda ou du Sri Lanka [9] ».

Ces affirmations de RSF ne découlent pas d’une étude minutieuse et comparative du développement d’Internet à travers le monde. Non, il s’agit simplement d’une allégation arbitraire qui ne se base sur aucune recherche et qui est complètement déconnectée de la réalité. Aucun organisme international n’a jamais avancé de tels chiffres. Encore une fois, RSF se contente de ressasser la propagande étasunienne à l’égard de l’Archipel des Caraïbes.

Une réalité différente

À Cuba, près de 2 millions d’enfants et d’adolescents ont accès chaque jour à Internet dans leurs établissements scolaires, tous équipés d’une salle informatique dotée de matériel de dernière génération. À Cuba, il existe 146 petites écoles dans les régions les plus reculées du pays qui sont fréquentées par un seul élève et toutes disposent d’un laboratoire informatique. À Cuba toujours, il existe plus de 600 clubs informatiques communautaires gratuits, fréquentés par plus d’un million de personnes, dans chacune des municipalités de la nation. Une question relevant du simple bon sens : si le gouvernement cubain souhaitait « contrôler la circulation de l’information sur son territoire », pourquoi dépenserait-il plusieurs millions de dollars pour universaliser l’accès à l’informatique et à Internet [10] ?

RSF minimise soigneusement le principal frein au développement d’Internet à Cuba qui sont les sanctions économiques impitoyables que les États-Unis imposent à la population du pays depuis 1960. Cuba n’a pu se connecter à Internet qu’en 1996 car auparavant une clause du blocus économique l’empêchait d’avoir accès au réseau international contrôlé par les États-Unis. Mais l’accès cubain est toujours conditionné par la loi Torricelli de 1992 qui stipule que chaque mégabit acheté à une entreprise étasunienne doit recevoir préalablement l’approbation du département du Trésor. Tout contrevenant est sujet à des sanctions extrêmement dissuasives. De plus, il faut rappeler que plus de 80 % du trafic Internet passe par des serveurs étasuniens [11].

En outre, les États-Unis refusent à Cuba l’utilisation de leur câble sous-marin à fibre optique qui longe l’archipel. Ainsi, l’île est obligée de se connecter via satellite, ce qui ralentit considérablement la communication et qui en multiplie le prix par quatre. Pour une petite nation du Tiers-monde assiégée depuis près d’un demi-siècle, les effets ne sont pas négligeables. De la même manière, Cuba est obligé de se procurer les nouvelles technologies via des pays tiers à cause des sanctions économiques, ce qui en augmente considérablement leur prix. Il ne faut pas oublier non plus que les États-Unis produisent près de 60 % des logiciels au niveau mondial et que Microsoft contrôle le système opérationnel de 90 % des ordinateurs de la planète [12].

Toute cette réalité est délibérément censurée par RSF. Comment peut-il en être autrement d’une organisation qui est financé par Washington via l’officine écran de la CIA qu’est la National Endowment for Democracy (NED) [13] ? Peut-on s’attendre à autre chose d’une entité qui reçoit plusieurs dizaines de milliers de dollars de la part de l’extrême droite cubaine comme par exemple le Center for a Free Cuba, dirigé par Franck Calzón, lui-même ancien directeur de la Fondation nationale cubano-américaine, une organisation terroriste responsable de nombreux attentats contre Cuba [14] ?

RSF n’a jamais dénoncé le fait que Washington utilise Internet pour infliger des sanctions pouvant aller jusqu’à 10 ans de prison à ses propres citoyens qui commettent l’impardonnable crime de voyager à Cuba et qui achètent leur billet via le Réseau. Plusieurs agences de voyages qui proposaient des paquets touristiques à Cuba ont vu leur site Internet bloqué aux États-Unis. RSF ne s’est jamais émue d’une telle atteinte à la liberté d’expression et n’a jamais condamné les sanctions économiques contre Cuba [15].

L’autre « rapport objectif » de RSF sur Internet

Le 19 octobre 2006, RSF a publié un « rapport » sur Internet à Cuba qui « démontre que les autorités brident délibérément l’accès à la Toile ». Là encore, l’organisation, qui prétend être objective et apolitique, n’explique pas pourquoi le seul pays sur lequel elle émet un « rapport » –qui brille par sa légèreté – est Cuba. Mais le plus intéressant est que ce rapport tendancieux, parsemé de contradictions et de contrevérités manifestes, reconnaît au final qu’il est possible à Cuba d’avoir « accès à pratiquement tous les sites d’informations, lemonde.fr, bbc.com, le Nuevo Herald (un quotidien de Miami [contrôlé par l’extrême droite cubaine]) et même les sites des dissidents du régime castriste [16] ».

Le rapport ajoute : « Des tests effectués par Reporters sans frontières ont montré que la plupart des sites de l’opposition cubaine, ainsi que ceux des organisations internationales des droits de l’homme sont accessibles par le biais du service ‘international’. En Chine, des filtres par mots-clés sont installés sur le Réseau, ce qui rend par exemple impossible le téléchargement de pages contenant des mots-clés ‘subversifs’. L’organisation a pu vérifier, en testant une série de termes interdits à partir de cybercafés, qu’aucun système de ce type n’est installé à Cuba ». Cependant, RSF n’explique pas pourquoi mène-t-elle alors une campagne aussi obsessionnelle sur la supposée censure d’Internet à Cuba [17].

Le rapport est également jonché d’accusations grossières : « À Cuba, on peut être condamné à vingt ans de prison pour quelques articles ‘contre-révolutionnaires’ publiés sur des sites étrangers et à cinq ans simplement pour s’être connecté au net de manière illégale ». RSF multiplie les mensonges : « Les dissidents politiques et les journalistes indépendants ne sont en général pas autorisés à se rendre dans les cybercafés ». Toute personne s’étant déjà rendu dans un cybercafé à Cuba sait pertinemment que cela est faux. On n’y demande ni nom ni adresse, seulement le paiement du temps passé sur Internet [18].

RSF continue sur le même ton et admet que la Section d’intérêts nord-américains (SINA) à La Havane fournit une aide précieuse aux célébrissimes dissidents : « Nombre d’entre eux utilisent par conséquent la vingtaine d’ordinateurs mis à leur disposition par la SINA […]. Mais un seul passage dans les locaux de la diplomatie américaine suffit pour être considéré comme un ‘ennemi de la révolution’ ». Pour RSF, la « diplomatie américaine » n’accueille pas les « dissidents » pour subvertir l’ordre établi et renverser le gouvernement. Elle leur tend simplement une main désintéressée et altruiste. Washington défend naturellement la démocratie. D’ailleurs, ses activités à travers le monde et l’engagement de Washington en Afghanistan et en Irak en sont des preuves irréfutables [19].

Dans n’importe quel pays du monde, le fait de fréquenter assidûment les diplomates d’une puissance étrangère — qui, dans ce cas précis, a publiquement déclaré le 10 juillet 2006 qu’elle se donnait 18 mois pour renverser le gouvernement en place — dans le but avoué de rompre l’ordre constitutionnel est synonyme de trahison et implique les sanctions les plus sévères qui soient. À Cuba, les légendaires « journalistes indépendants » se rendent chaque semaine aux bureaux de la SINA, mais ne rédigent pas d’articles sur les États-Unis. Les généreuses rétributions offertes par Washington sont leurs principales sources de motivation. Jusqu’à présent, les autorités cubaines se sont montrées plutôt indulgentes, hormis en mars 2003 [20].

À ce sujet, RSF continue de faire croire à l’opinion publique que les personnes détenues et condamnées à de lourdes peines en 2003, pour conspiration et pour avoir œuvré en tant qu’agents d’une puissance étrangère, sont des « journalistes indépendants ». Elle en dénombre 24 alors qu’en réalité un seul est réellement journaliste (Julio César Gálvez Rodríguez). De plus, ces personnes-là ont été condamnées uniquement pour avoir reçu un financement d’une nation ennemie, et en aucun cas pour avoir tenu des propos hétérodoxes au discours officiel. Pour s’en persuader, il suffit simplement de lire les virulentes déclarations contre le gouvernement révolutionnaire que les célèbres dissidents font chaque semaine à la presse internationale, sans qu’ils soient inquiétés par la justice [21].

« Les trous noirs du Web », selon RSF

Le 16 novembre 2005, RSF rendait publique « sa liste des 15 ennemis d’Internet » dans laquelle figuraient l’Arabie saoudite, le Belarus, la Birmanie, la Chine, la Corée du Nord, Cuba, l’Iran, la Libye, les Maldives, le Népal, l’Ouzbékistan, la Syrie, la Tunisie, le Turkménistan et le Vietnam. Bien évidemment, l’organisation de Robert Ménard n’indique aucunement les critères qu’elle a pris en compte pour sa sélection [22].

Un an plus tard, en 2006, une nouvelle liste de 13 pays était publiée dans laquelle ne faisait plus partie la Libye. Le rapport de 2005 était pourtant accablant : « Malheureusement, dans un pays qui ne tolère aucune presse indépendante, il eut été étonnant que le Web se développe sans entraves. Ainsi, les sites de dissidents libyens en exil sont systématiquement bloqués par les filtres mis en place par le pouvoir. Plus grave, les autorités s’attaquent désormais durement aux internautes dissidents [23] ».

Le rapport 2006 est aux antipodes de celui de 2005. « Suite à une mission dans le pays, Reporters sans frontières a pu constater que l’Internet libyen n’était plus censuré », affirme l’organisation, sans aucune autre explication et sans publier aucun rapport. Que s’est-il passé en un an pour RSF change radicalement d’avis à propos de la Libye ? Mouammar Kadhafi a-t-il changé de politique intérieure ? Ou bien a-t-il tout simplement normalisé ses relations avec Washington et fait désormais partie des alliés de l’administration Bush ? Serait-ce la raison pour laquelle il peut désormais recevoir des bonnes notes de la part de RSF [24] ?

Ainsi, le classement de RSF n’est rien d’autre qu’une farce. Le travail de l’organisation parisienne n’a rien à voir avec la liberté de la presse mais est avant tout une guerre idéologique au service de ses bailleurs que sont les États-Unis et ses satellites comme Taiwan.

Le rapport de OpenNet Iniciative

La fondation OpenNet Initiative, parrainée par les très conservatrices universités de Harvard, Cambridge, Oxford et Toronto, fonctionne comme un observatoire de la liberté d’expression sur Internet. Selon cette entité, 13 % des internautes du monde ne sont pas libres de naviguer sur le Web, soit 146 millions de personnes. OpenNet Initiative a établi une liste de 9 pays qui limitent l’accès à Internet et qui répriment les internautes. Il s’agit de la Chine, la Syrie, l’Arabie saoudite, la Birmanie, le Vietnam, l’Iran, l’Ouzbékistan, la Tunisie et le Yémen. Cuba ne figure pas sur cette liste [25].

Ensuite, la fondation établit une liste de 22 autres nations où les degrés de contrôle existent parmi lesquels se trouvent le Royaume-Uni à la 16ème position, la France à la 17ème, le Canada à la 18ème, les États-Unis à la 19ème et Cuba au 20ème rang seulement [26].

Plus intéressant encore, OpenNet Initiative détaille la nature des obstacles imposés à l’accès à Internet. Par exemple, le Royaume-Uni filtre certains contenus pour, selon le gouvernement britannique, éviter la diffusion de la pornographie infantile. En ce qui concerne la France, l’administration filtre « sans décision judiciaire » les contenus de sites d’extrême droite. Pour le Canada, le contrôle et les filtres existent dans les collèges et les bibliothèques publiques. Enfin, pour Cuba, c’est uniquement le coût de la connexion pour les particuliers qui est « prohibitif [27] ».

La fondation n’évoque en aucun cas un contrôle ou des filtres imposés par l’État cubain. Elle souligne que « les Cubains ont amplement accès à l’intranet national en échange. Des tests préliminaires indiquent que très peu de sites Web sont bloqués ». Le seul site Internet bloqué est, selon OpenNet Initiative, celui de l’organisation terroriste de Floride Brothers to the Rescue. Ainsi, le principal responsable de la restriction de l’accès à Internet à Cuba n’est rien d’autre que… le gouvernement des États-Unis qui impose des sanctions au pays et empêche le développement technologique de la nation. [28].

RSF continue sa guerre de propagande contre Cuba et tente de tromper l’opinion publique sur la réalité de cette île assiégée. Elle reste ainsi fidèle à l’agenda belliqueux de l’administration Bush.



Profesor de espanol y joven investigador en la Universidad Denis-Diderot de Paris






Sur le même sujet voir :

 « Reporters sans scrupules », par Michel Sitbon (20 septembre 1995)

 « Venezuela : médias au-dessus de tout soupçon », par Thierry Deronne et Benjamin Durand (18 juin 2004)

 « Quand Reporters Sans Frontières couvre la CIA », par Thierry Meyssan (25 avril 2005)

 « Les mensonges de Reporters sans frontières », par Salim Lamrani (2 septembre 2005)

 « Le silence de Reporters Sans Frontières sur le journaliste torturé à Guantanamo », par Salim Lamrani (30 janvier 2006)

 « Le financement de Reporters sans frontières par la NED/CIA », par Diana Barahona et Jeb Sprague (7 août 2006).

 « Droit de réponse de Reporters sans frontières » (12 septembre 2006).

 « Reporters sans frontières et ses contradictions », par Salim Lamrani (27 septembre 2006).

 « La guerre de désinformation de Reporters sans frontières contre le Venezuela », par Salim Lamrani (6 février 2007).

Dans la librairie du Réseau Voltaire 



Pour en savoir plus, lire Le Dossier Robert Ménard. Pourquoi Reporters sans frontières s’acharne sur Cuba par Jean-Guy Allard et Marie-Dominique Bertuccioli, Lanctôt éditeur (Québec), 12 euros.




[1] Reporters sans frontières, « Reporters sans frontières réagit aux déclarations du ministre de la Communication à propos d’Internet », 13 février 2007. http://www.rsf.org/article.php3 ?id_article=20998 (site consulté le 13 février 2007).

[2] Ibid

[3] Ramiro Valdés, « Discurso pronunciado por el Comandante de la Revolución, Ramiro Valdés Menéndez, Ministro de la Informática y las Comunicaciones en el Acto Inaugural de la XII Convención y Expo Internacional, Informática 2007 », Ministerio de Relaciones Exteriores de Cuba, 11 février 2007. http://www.cubaminrex.cu/Sociedad_Informacion/2007/DiscursoRamiro.htm (site consulté le 14 février 2007).

[4] Ibid

[5] Ibid

[6] Sara Wood, « New Air Force Command to Fight in Cyberspace », American Forces Press Service,U.S. Department of Defense, 3 novembre 2006. http://www.defenselink.mil/News/NewsArticle.aspx ?id=2014 (site consulté le 27 février 2007).

[7] Ramiro Valdés, op. cit

[8] </

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http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/6937/1/42


Il ritorno di Josip Broz

22.03.2007    Da Mostar, scrive Dario Terzić


La rivisitazione della storia del '900 nei manuali scolastici in Bosnia Erzegovina. Gli ex partigiani scrivono al ministero dell'Educazione per chiedere che Tito ritorni nei libri di storia, e si riaccende la polemica. Dal nostro corrispondente


Settembre è ancora lontano, ma in Bosnia si lavora duro per preparare i libri per il nuovo anno scolastico. Ogni anno c'è qualcosa di nuovo, è così da anni. Non che nel frattempo siano cambiate le leggi fisiche oppure sia stato scoperto un qualche nuovo elemento chimico. E' la storia quella che crea discussioni... 

Appena esce un nuovo libro di storia per le scuole elementari, cominciano le polemiche. Perché è stato scritto questo, perché il tal evento è stato descritto così e non in un altro modo... Gli argomenti problematici sono soprattutto quelli riguardanti la storia recente della Bosnia Erzegovina, tra il 1992 e il 1996. Come chiamare quella guerra, dov'è il limite tra difesa, aggressione, conflitto... Ma, a partire da quello che è successo negli ultimi anni del novecento, viene messo in discussione anche il periodo precedente. 

A volte cambia proprio il punto di vista, e quello che fino a ieri era bianco, in una notte diventa nero. I cari liberatori, i partigiani, adesso spesso vengono dichiarati criminali. Se all'epoca del comunismo in tutti i libri scolastici la foto dominante era quella di Tito, oggi quella foto non la troviamo più. 

Così, proprio in questo periodo di preparazione dei libri scolastici, arriva una lettera scritta dagli ex partigiani residenti in Bosnia Erzegovina. La lettera è diretta proprio al ministero dell'Educazione. 

Cosa chiedono i vecchi partigiani? Chiedono che Tito torni nei libri. Secondo loro Tito è stato cacciato via o, per meglio dire, è stato cancellato. E con lui è stata cancellata tutta quella storia, tutti gli eventi importanti per la storia del novecento ma pure per quella attuale della Bosnia ed Erzegovina. Perché, sostengono i partigiani, nei libri non c’è neppure una parola sulla seduta della Zavnobih [Consiglio regionale antifascista di liberazione della Bosnia-Erzegovina, ndc], grande assemblea costituzionale con la quale in realtà nasce il concetto della Bosnia ed Erzegovina. Perché, prima di quella, la Bosnia Erzegovina non era mai stata una repubblica. Veniva ricordata come parte del regno dei serbi, croati e sloveni, della monarchia austro-ungarica, dell'impero ottomano... Dopo il medioevo la Bosnia Erzegovina era sempre parte di qualcosa e di qualcuno. 

Con la Zavnobih essa diventa una delle sei repubbliche della nuova Jugoslavia. E, in questo modo, non meno importante della Croazia, della Serbia... Ma purtroppo c'è una tendenza da queste parti a dimenticare tutto quello che faceva parte della storia comunista, per paura di offendere qualcuno. Nella televisione croata molto spesso si parla di Bleiburg [il massacro avvenuto nel maggio del 1945 nel villaggio di Bleiburg tra Austria e Slovenia, ndc] come di una colpa di Tito e dei comunisti. Cosi, molto spesso, Tito è apertamente definito un criminale, un assassino. In Serbia già da anni i vecchi četnici di Draža Mihajlović sono stati equiparati ai partigiani. Quelli che per 50 anni erano considerati traditori locali non hanno più nessuna vergogna di dichiararsi come četnici. E adesso i partigiani, che per anni avevano una posizione privilegiata, si trovano ai margini. E sentono tanta mancanza per quei bei tempi dell'epoca di Tito. 

E vero che l’amore per Tito nel periodo comunista era gonfiato, esagerato. Ma ci possiamo domandare oggi se veramente era tutto finto perché era imposto, venuto dall'alto come un comando. 

Si cominciava ad amare Tito da piccoli. Già nel primo libro di scuola, Bukvar, c'era la storia dei ragazzi in una classe che litigavano su a chi di loro fosse diretto lo sguardo di Tito che c'era sulla foto sul muro. I ragazzi litigavano e poi entrava la maestra dicendo: “Il compagno Tito guarda tutti noi”. 

E così, mentre nelle scuole italiane sul muro si vedeva una croce, in ex Jugoslavia c'era la foto di Tito. Poi, c’erano i giorni in cui l'amore per il “più caro compagno” arrivava al culmine: il 25 maggio, giornata della Gioventù e finto compleanno di Josip Broz. Era la giornata della grande festa Slet allo stadio di Belgrado, con una magnifica mostra della “forza e creatività della gioventù jugoslava”. E' lì che la staffetta portava a termine il lungo viaggio fatto attraverso la Jugoslavia da migliaia di ragazzi. Un pezzo di legno o di altro materiale doveva essere simbolo di amore, unità. E il viaggio finiva proprio per il “compleanno” di Tito. Nessuno poteva mancare a questa manifestazione. Era il nostro San Remo. E il vincitore si sapeva già in anticipo. 

Ma nel 1980 muore il Comandante. Poi, pian piano la Jugoslavia comincia a muoversi per finire in una (o più) guerre. Lì dove c'era l'amore, adesso regna l’odio. Nella maggior parte dell'ex paese Tito diventa odioso. Gli sputano, spaccano le foto, minano i monumenti. In ex Jugoslavia ogni repubblica (erano sei) aveva una città con il nome di Tito. Ormai queste città, cioè i loro nomi, non ci sono piu. Titograd (Podgorica), Titovo Užice, Titovo Velenje, Titovo Drvar, Titova Korenica sono ormai storia. Ogni città aveva una via dedicata a Tito. Ormai sono rarissime. E' rimasta quella di Sarajevo e quella di Mostar... 

Gli ultimi mohicani, comunque, ci sono. E soprattutto negli ultimi anni è tornato il titoismo. A Sarajevo c’è un bar tutto dedicato a lui. Dentro al bar ci sono tutte le foto di Broz, poi si possono comprare anche le t-shirt e altri souvenir. Per il 25 maggio a Kumrovec, villaggio nel Zagorje (non lontanissimo da Zagabria) dove Tito è nato, si raduna la gente per ricordarsi del “più grande figlio dei nostri popoli”. E ogni anno il numero dei pellegrini cresce. Ma tutto questo naturalmente è ancora ben lontano da quella popolarità che c’era nel periodo comunista. 

Sembra che in tutta la Jugoslavia la gente stia ancora cercando di capire chi era e cosa rappresentava Tito. Ci sono gli ‘jugonostalgici’, quelli che rimpiangono l’era di Tito, ma anche quelli che non perdono occasione per insultare tutto quello che lui aveva fatto. Sembra che qui le cose debbano sempre essere esagerate, gonfiate... Cosi era con quell'amore che - lo si vede adesso - era poco normale. E adesso c'è una situazione analoga rispetto all’odio verso di lui. Quella che prima era l'unica verità, ora è solo una bugia, un'illusione. La via di mezzo non si trova cosi facilmente. C'è chi vorrebbe cancellare quei cinquanta anni per poter creare una nuova storia. Ma ci sono, ad esempio, i vecchi partigiani che ancora non si arrendono. E per questo chiedono che Tito torni. Sanno anche loro che non sarà mai come prima, ma anche che le cose si possono fare almeno con un po' di rispetto verso la propria storia. Perché non è una bella cosa sputare su se stessi... 



From:   info  @...
Subject: ROMA, BOLOGNA, PISA: PER IL 27 MARZO SI ALLARGA LA MOBILITAZIONE CONTRO IL VOTO DI GUERRA IN SENATO
Date: March 23, 2007 6:13:22 PM GMT+01:00


A TUTTE LE REALTA' TERRITORIALI: INDICATECI EVENTUALI MOBILITAZIONI PER IL PROSSIMO 27 MARZO. PROVVEDEREMO A DIFFONDERLE E FARLE CONOSCERE ATTRAVERSO LA NOSTRA MAILING LIST ED IL NOSTRO SITO

la Rete nazionale Disarmiamoli

www.disarmiamoli.org


NON VOTATE LA GUERRA
VIA LE TRUPPE ORA
 
Per il ritiro immediato delle truppe dall'Afghanistan e dagli altri fronti di guerra
Libertà per il popolo afgano, libertà per Adjmal e Hanefi
Chiusura della basi Usa e Nato
No alle spese militari
 
I senatori/trici, eletti/e con i voti del popolo no-war, non si coprano di vergogna tradendo il mandato elettorale, e votino contro il decreto che finanzia le missioni di guerra

 

27 MARZO ore 16 A ROMA SIT-IN
DAVANTI AL SENATO (P.Navona)
 
Comitato 17 marzo

 


Bologna, 27 marzo

Presidio contro la guerra

DISARMIAMOLI! di Bologna, in concomitanza con il voto sulla missione di guerra in Afghanistan al senato della Repubblica, invita il movimento no-war a partecipare al presidio di martedi 27 alle ore 17 presso piazza Re Enzo a Bologna per dire NO ai crediti di guerra.

Dopo la manifestazione nazionale del 17 marzo, che ha dimostrato la capacità del movimento no-war di riaffermare il suo essere senza se e senza ma contro la guerra, in diverse città italiane si manifestara il 27 marzo per riaffermare la voglia di pace del popolo italiano e per chiedere ai senatori/trici, eletti/e con i voti del popolo no-war di votare contro il decreto che finanzia le missioni di guerra.


NON VOTATE LA GUERRA VIA LE TRUPPE ORA

Per il ritiro immediato delle truppe dall'Afghanistan e dagli altri fronti di guerra

Libertà per il popolo afgano, libertà per Adjmal e Hanefi

Chiusura della basi Usa e Nato
No alle spese militari

DISARMIAMOLI! Bologna

diasarmiamoli.bologna@...

www.disarmiamoli.org

 
PISA, 27 marzo

dalle ore 17, n concomitanza con il voto sulla missione di guerra in Afghanistan al Senato della Repubblica, il movimento no-war pisano promuoverà un
Presidio di fronte alla Prefettura di Pisa, Piazza Mazzini
per dire NO al voto sui nuovi crediti di guerra.
Dopo la manifestazione nazionale del 17 marzo a Roma, che ha dimostrato la capacità del movimento no-war di riaffermare il suo essere contro la guerra senza se e senza ma , in diverse città italiane il 27 marzo si manifestera' per riaffermare la voglia di pace del popolo italiano e per chiedere ai senatori/trici, eletti/e con i voti del popolo no-war di votare contro il decreto che finanzia le missioni di guerra.

NON VOTATE LA GUERRA! VIA LE TRUPPE ORA!
Per il ritiro immediato delle truppe dall'Afghanistan e dagli altri fronti di guerra
Libertà per il popolo afgano, libertà per Adjmal e Hanefi
Chiusura della basi Usa e Nato
No alle spese militari
 


(Un interessante articolo, di fonte francese gaullista, ricorda e stigmatizza il vergognoso rientro della Francia nella NATO alla fine del 1995...)




http://www.gaullisme.fr/breve_200307.htm

Objectif France Magazine, 20 mars 2007


Retour honteux de la France dans l’OTAN



Annoncée en pleine grève, le 5 décembre 1995, la réintégration de la France au sein du conseil des ministres et du comité militaire de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord est passée quasiment inaperçue. Or cette décision tourne la page ouverte en 1966 par le général de Gaulle avec le retrait de l’organisation militaire intégrée de l’Alliance. Aboutissement d’un rapprochement progressif engagé dès les années 70, cet acte politique majeur s’appuie sur des arguments fallacieux.

 

A peine commentée, pratiquement négligée par les milieux politiques, la décision du gouvernement français de se faire à nouveau représenter en permanence dans plusieurs des organismes militaires de l’Alliance atlantique n’est pas passée inaperçue dans les autres pays occidentaux. Elle y a été saluée comme un retournement majeur de la politique française. En annonçant cette réintégration au sein du conseil des ministres de la défense et du comité militaire de l’OTAN, Paris a précisé qu’il n’y aurait toujours aucune participation à des organismes « intégrés » et qu’en particulier aucune force ne ferait retour dans le système militaire « intégré » de l’Alliance. Cette distinction n’est pas sans importance. Quand, en 1966, le général de Gaulle ayant décidé que la France quittait l’organisation militaire de l’Alliance en raison même de l’intégration qui la caractérisait, il lui fut demandé quelle en était sa définition, il répondit, par écrit, que l’intégration se définissait par la subordination et l’automaticité.

C’est dire que le gouvernement actuel n’a pas voulu ou pas osé franchir un certain seuil : les forces françaises ne seront toujours pas « subordonnées » au commandement de l’OTAN, ni « automatiquement » engagées par les décisions qu’il prendrait et auxquelles la France ne souscrirait pas. Encore faut-il apporter une restriction : le corps européen dont font partie des unités françaises serait soumis au commandement atlantique en cas d’hostilités _ on peut néanmoins admettre qu’il s’agit là d’une hypothèse extrême et, dans l’état actuel des choses, sans grande vraisemblance. Le retour de représentants français dans les organismes militaires atlantiques du plus haut niveau constitue pourtant un tournant politique majeur dont il faut essayer de comprendre le sens, car plusieurs interprétations en ont été données officiellement ou officieusement. Tantôt, on a fait remarquer qu’il ne s’agissait que d’une étape supplémentaire, dans la suite de toutes celles qui ont progressivement comblé le fossé creusé nettement et clairement en 1966 par la décision de se retirer de toutes les instances militaires de l’OTAN. Tantôt, on l’a présentée comme résultant inévitablement de la participation d’un important contingent français aux forces internationales déployées en Bosnie, et qui dépendront du commandement atlantique : dès lors, la présence de la France à ses instances militaires les plus élevées s’imposerait. Et plus souvent, enfin, on a suggéré que l’objectif était, par des relations plus étroites et plus complètes avec tous les organismes de l’Alliance, de pouvoir contribuer à sa réforme et, en particulier, à celle de son système de défense et de ses structures militaires. Il faut faire la part de ces diverses motivations. Rattacher cette décision seulement à une série de rapprochements entre la France et l’organisation militaire atlantique serait la banaliser abusivement et en réduire la portée. L’accord Ailleret-Lemnitzer, conclu en 1967, et dont le texte est très succinct et de caractère très général, n’a prévu que des contacts d’état-major, évidemment indispensables au cas où l’Europe occidentale aurait été le théâtre d’un conflit dans lequel la France aurait choisi de s’impliquer (1).

L’accord Valentin-Ferber, du 3 juillet 1974, complétait le précédent : le corps d’armée français en Allemagne étant très étroitement rattaché à l’ensemble de la première armée dont le commandement était en territoire français, c’est bien celle-ci - dont le général Valentin était le chef - qui serait impliquée par l’éventuelle coordination entre états-majors français et atlantique (2). Conclu quatre ans plus tard, l’accord Biard-Schulze porta sur les procédures nécessaires à cet égard, bien qu’il fût précisé qu’il n’avait qu’une « portée générale » (3). Un rapprochement progressif QUANT aux rapports entre forces aériennes et défenses antiaériennes françaises et alliées, les arrangements conclus, depuis l’accord Fourquet-Goodpaster de 1970 jusqu’aux accords Fatac-Aafce (Force aérienne tactique française et forces aériennes alliées du centre-Europe), ils avaient un caractère technique et pratique imposé par la nature même de l’action aérienne, mais ne comportaient évidemment aucun degré d’intégration. Il en allait de même du système de détection Nadge, dont le général de Gaulle avait décidé que la France continuerait de faire partie et qui, contrairement à ce qui est parfois écrit, est une organisation commune et non pas intégrée (4). A partir du début des années 80, des gestes nouveaux sont venus préciser les hypothèses d’actions conjointes entre forces françaises et atlantiques, au point qu’on fit étalage de l’amélioration substantielle et systématique des rapports entre la France et l’OTAN. Ainsi de la décision d’envisager l’engagement du nouveau troisième corps d’armée, créé à Lille, au-delà de la ligne Rotterdam-Dortmund-Munich, admise auparavant comme limite extrême d’éventuels mouvements français (5). Ainsi des hypothèses d’emploi imaginées pour la Force d’action rapide (FAR), encore que son engagement sur les zones avancées du théâtre européen eût été plus démonstrative que stratégique _ chacun savait qu’elle était par-dessus tout destinée à renforcer les moyens d’action extérieure de la France. Tout fut fait, cependant, pour mettre en valeur le rapprochement progressif entre le système français de défense et l’organisation militaire atlantique, comme en 1986 avec la participation d’une division entière à l’exercice « Frankischer Schild » (depuis 1966, jamais plus d’un régiment n’avait pris part à de telles manœuvres) et celle, plus ample encore, de 20 000 hommes à l’exercice « Moineau hardi » de 1987.

Le gouvernement est allé jusqu’à annoncer publiquement que la France n’emploierait pas ses armes nucléaires préstratégiques sans en informer auparavant le gouvernement allemand _ nul n’ignorait qu’il en irait ainsi puisque, même conçues comme « ultime avertissement » à l’adversaire et comme prélude à l’emploi de l’armement stratégique, ces engins auraient un certain effet sur le terrain. Donnée à la suite d’entretiens entre MM. François Mitterrand et Helmut Kohl, cette précision pouvait, du reste, paraître paradoxale : la portée conférée finalement aux missiles préstratégiques Hadès et surtout l’emploi éventuel de la composante aérienne préstratégique laissaient en effet supposer que le territoire allemand ne serait pas forcément le théâtre des frappes françaises. A l’arrière-plan des discours officiels et des commentaires officieux sur les liens progressivement rétablis entre la France et le système militaire de l’OTAN, et des démonstrations plus ou moins tapageuses destinées à les faire valoir, les réalités stratégiques demeuraient. M. Mitterrand lui-même insistait sur son refus d’adhérer à toute forme de « riposte graduée », c’est-à-dire à la stratégie de l’OTAN, et, à l’inverse, sur le maintien de la stratégie française de dissuasion nucléaire et sur ses principes essentiels. En baptisant « préstratégiques » les armes nucléaires tactiques françaises, dès le début de son premier septennat, il marquait son refus de glisser sur une pente qui aurait pu conduire au rapprochement avec les concepts d’emploi des armes nucléaires tactiques américaines en Europe. Et, au début du second septennat, la réorganisation des armées françaises, baptisée « Armées 2000 », allait dans le même sens : elle les répartissait entre les trois façades méditerranéenne, atlantique et continentale, en réduisait les effectifs tout en supprimant le troisième corps d’armée (6). En définitive, malgré l’ostensible adhésion de la France au bloc occidental et l’inflexion majeure de sa politique étrangère en faveur de relations très étroites avec les Etats-Unis, rien n’empêchait que la stratégie de Paris et celle de l’OTAN demeurent non seulement différentes, mais en réalité incompatibles. Avec le rappel des principes de la dissuasion française, alors même que l’organisation militaire atlantique adoptait en 1988 la doctrine Rogers de « Follow-on Forces Attack », inspirée par le concept d’« Airland Battle » (7), on doit même constater qu’elles se tournaient le dos. La décision de retour dans les organismes du plus haut niveau du système militaire atlantique n’était donc en aucune manière une conséquence de gestes précédents. A strictement parler, elle n’était pas non plus le résultat de la participation d’unités aux forces destinées à l’application du traité de paix sur la Bosnie, signé à Paris le 14 décembre 1995. La présence militaire française dans l’ex-Yougoslavie procédait à l’origine de la part prise aux missions que les Nations unies s’étaient données ; le commandement français sur place s’insérait, de ce fait, dans celui de la Forpronu. Un changement capital est survenu quand il a été décidé que l’OTAN se chargerait de quelques-unes de ces missions, en particulier pour l’application de l’embargo sur les ventes d’armes aux belligérants et, de façon plus significative encore, pour les raids aériens. En décidant que l’OTAN serait désormais leur « bras armé », les Nations unies donnaient à cette organisation un rôle nouveau et se dessaisissaient d’une partie de leurs prérogatives et de leurs pouvoirs au profit d’un organisme placé sous l’égide des Etats-Unis. Elles renonçaient à mettre en vigueur les articles de la Charte qui prévoient que, pour ses actions militaires, elle se doterait de son propre état-major et de ses propres commandements. A cet égard, l’affaire yougoslave aura conféré à l’OTAN un rôle sans précédent, bien au-delà de l’aire géographique couverte par le traité qui l’a fondée. La France n’a pas pour autant décidé de réintégrer ses organismes militaires dirigeants, et rien ne l’obligeait à le faire. Tout au plus peut-on estimer que l’affaire yougoslave a fonctionné ici comme un engrenage. Cette participation aux instances dirigeantes de l’organisation militaire atlantique a-t-elle, cependant, pour but et aura-t-elle pour effet de la réformer ? On le suggère officieusement : il serait plus facile de s’y faire entendre et la réflexion sur l’avenir de l’alliance dans l’après-guerre froide pourrait ainsi progresser. L’expérience, toutefois, ne justifie pas cet optimisme. Et l’argument avait d’ailleurs été mis au service du maintien de la France dans l’OTAN au début des années 60, lorsque le général de Gaulle en contestait ouvertement les principes. Mais aucune réforme ne fut entreprise, les Etats-Unis y veillaient, avec l’approbation de leurs alliés. En irait-il autrement désormais, la guerre froide ne pouvant plus être invoquée pour justifier les rigidités anciennes ? N’était-il pas temps, notamment, de restituer aux Etats européens plus de responsabilités, donc de réduire le degré d’intégration des forces de l’OTAN grâce auquel le commandement américain y exerce une prépondérance absolue ? C’est, au contraire, un surcroît d’intégration que manifeste la création d’une Force de réaction rapide de l’OTAN, où le niveau d’intégration descend plus bas que dans n’importe quel autre système de forces _ au niveau du régiment _ et dont le commandement, confié à un Britannique, est entièrement dépendant du commandement suprême américain en Europe (Saceur). Autre évolution significative : celle de la zone de compétence de l’Alliance atlantique et, par conséquent, de son organisation militaire. Plusieurs pays européens, et en premier lieu la France, ont toujours été hostiles à son extension. Ils ne souhaitaient pas que, dans d’autres régions du monde et donc d’autres zones de conflits, fonctionne un système à l’expérience contrôlé et dirigé en permanence par Washington. L’inverse se produisit. Lors de la crise du Golfe, quand la Turquie, membre de l’OTAN, invoqua un danger _ imaginaire _ d’agression irakienne pour réclamer une présence alliée sur son territoire, sous le couvert de l’organisation atlantique, avec en prime une participation allemande, l’Alliance se trouvait, en tant que telle, impliquée dans les marges du conflit. Puis on vit, par le biais des accords conclus entre Etats membres de l’Alliance et de l’ex-pacte de Varsovie, les problèmes de l’Europe centrale et orientale entrer dans le champ des compétences de l’OTAN, y compris en matière de sécurité. L’étape décisive intervint quand, comme on l’a vu, les Nations unies firent de l’OTAN leur « bras armé » dans l’affaire yougoslave : l’organisation atlantique prit en main d’abord la gestion militaire de la crise, puis le contrôle de la mise en application des accords de paix. C’était la reconnaissance officielle et générale du rôle de l’OTAN au-delà de l’aire géographique couverte par le traité qui l’a fondée _ exactement ce que la politique française avait toujours voulu empêcher ! Il faut donc le reconnaître, la décision de rétablir une participation française permanente aux organismes dirigeants du système militaire atlantique a été prise pour d’autres raisons. Les tentatives de ces dernières années en vue de faire progresser l’idée d’un système européen de défense ont échoué. Conformément à la tradition de sa diplomatie depuis sa naissance, la République fédérale allemande a naturellement montré envers les propositions françaises une amabilité calculée, dont on a vu à la fois l’effet et les limites avec son adhésion au corps européen. Les contributions d’autres pays avaient le même caractère symbolique. Depuis la conférence atlantique réunie en décembre 1991, on sait que les partenaires européens de la France ne veulent absolument pas d’un système de défense indépendant de l’OTAN qui, par conséquent, risquerait d’éloigner, si peu que ce soit, les Etats-Unis du théâtre européen. Au contraire, leur conviction est qu’ils ont intérêt _ sur les plans politique, stratégique et financier _ à les y maintenir en permanence, quitte à satisfaire à leurs conditions. Leur état d’esprit n’ayant apparemment pas changé, la diplomatie française se heurterait aux mêmes obstacles et aux mêmes réticences si elle songeait faire prévaloir ses conceptions dans les organismes dirigeants de l’organisation militaire atlantique qu’elle réintègre. Du reste, le veut-elle ? Quand la fin de la guerre froide a fait disparaître la justification historique donnée au système atlantique, très peu de voix se sont élevées en France pour le mettre en cause _ celles de l’ancien premier ministre, M. Pierre Messmer (8), de l’ancien secrétaire général du ministère des affaires étrangères, M. Gilbert Pérol (9), de très rares hommes politiques ou observateurs. Et le moins qu’on puisse dire est qu’elles n’ont pas été entendues.

 


 

(1) Michael M. Harrison, The Reluctant Ally : France and Atl antic Security, John Hopkins University Press Baltimore, 1988. Général Valentin, « La dissuasion et les armements classiques », dans L’Aventure de la Bombe, de Gaulle et la dissuasion nucléaire, Plon, Paris, 1985.

(2) Général Valentin, « La mission des forces françaises en centre-Europe et la coopération franco-britannique », dans Pour une nouvelle entente cordiale, Masson, 1988. Lothar Rüehl, « La coopération franco-allemande à l’appui de l’Alliance et de l’Europe », Revue de l’OTAN (Bruxelles), décembre 1987.

(3) Frédéric Bozo, La France et l’OTAN, Masson, Paris, 1991.

(4) Général François Maurin, « L’originalité française et le Commandement », Défense nationale, Paris, juillet 1989.

(5) David S. Yost : « Franco-German Defense Corporation », dans The Bundeswehr and Western Security. McMillan Londres, 1990. Diego A. Ruiz Palmer, dans Nato-Warsaw Pact Force Mobilization, National Defense University Press, Washington, 1988.

(6) Diego A. Ruiz Palmer dans European Security Policy after the Revolutions of 1989, National Defense University Press, Washington, 1991. Général Henri Paris, Défense nationale, novembre 1989.

(7) Lire Paul-Marie de La Gorce, « Une remise en cause de la « riposte graduée », Le Monde diplomatique, octobre 1988.

(8) Défense nationale, novembre 1990.

(9) Gilbert Pérol, La Grandeur de la France, Albin Michel, Paris, 1992. * Auteur, notamment, de 39-45, Une guerre inconnue, Flammarion, Paris, 1995.




(francais / italiano)


=== in italiano ===


il manifesto
15 Marzo 2007

Kosovo-intervista «Non è più un contenzioso Pristina- Belgrado, decideranno Usa, Russia e Ue»

«Indipendenza? Qui regnano i clan»

Parla padre Sava: «Il piano di Ahtisaari ha molti elementi importanti, ma nel contesto di un Kosovo indipendente che non avrà più legami istituzionali con la Serbia. Così non sarà più possibile garantire la presenza a lungo termine del popolo serbo». Ci vuole una soluzione provvisoria: niente seggio all'Onu, autonomia quasi statuale e per i serbi legame istituzionale con Belgrado

Tommaso Di Francesco
Decani (Kosovo)

È il monumento medioevale più importante della Serbia, per i suoi affreschi e la sua storia, tomba di re e luogo d'incoronazione. Chiesa, monastero, un grande complesso monastico, ora con le officina del legno e della pittura delle icone, più a sud una vigna antica. Per l'Unesco è patrimonio dell'umanità, per la storia dell'arte «l'anello mancante per capire il nostro medioevo». Fuori il contingente militare italiano che lo protegge - nel 2004 sono stati sparati contro il monastero anche colpi di mortaio. Dentro una comunità di rifugiati dalle distruzioni che vanno dal 1999 a oggi, con un picco nel 2004, comprese le quattro donne riparate nel convento dopo la distruzione della Santa Trinità di Djakovica. Un litania di profughi che ha visto fuggire nel terrore 200mila serbi e altrettanti rom. E siccome non è possibile immaginare un luogo di culto in assoluto, tantomeno ortodosso, senza un comunità - tantopiù che queste province si sono semprte chiamate Kosmet (Kosovo e Metohja, Terra della chiesa) - i monasteri ormai sono un presidio, un simbolo della residua presenza dei serbi in quel Kosovo che buona parte della comunità internazionale vuole consegnato ad una nuova indipendenza statuale etnica, quella albanese.
A padre Sava, responsabile del monastero e spesso portavoce dei serbi rimasti - che il giorno prima abbiamo incontrato a Villaggio Italia, base dei contingenti Kfor, dove era venuto per un incontro interconfessionale con esponenti musulmani e cattolici promosso dal generale Attilio Claudio Borreca che comanda i contigenti Kfor della zona ovest -, abbiamo rivolto alcune domande nella straordinaria biblioteca del convento, con l'aiuto di padre Andrej.

Che fareste se venisse concessa l'indipendenza secondo il piano del mediatore dell'Onu, Martthi Ahtisaari respinto nelle trattative ufficiali di Vienna? Il Patriarca Pavle ha invitato i serbi a rimanere in Kosovo.

I serbi vivono in queste terre da secoli, ci hanno vissuto sotto diversi stati e sotto diverse autorità, così la chiesa ortodossa ci ha vissuto, anche sotto diversi sistemi politici, a testimoniare la verità di Cristo. Il patriarca Pavle ha invitato il nostro popolo a rimanere fedele alla sua fede e alla sua tradizione. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu deve ancora decidere come si svilupperà la crisi del Kosovo. Non si tratta più di una questione «locale» tra Belgrado e Pristina, ma del nuovo ordine geostrategico mondiale. Il piano di Ahtisaari presenta molti elementi significativi per una permanenza dei serbi, ma nel contesto di un Kosovo indipendente che non avrà più legami istituzionali con la Serbia. E questo crea una grande preoccupazione da parte serba, perché c'è la fondata paura che senza legami con la Serbia non sarà possibile garantire la presenza a lungo termine in Kosovo del popolo serbo. Il piano ha molti elementi positivi, ma il contesto politico istituzionale negativo che propone scoraggia i serbi dall'accettare anche gli elementi positivi. Ora si discute molto a Belgrado sull'ultima versione del piano Ahtisaari. Che da una parte rifiuta il disegno di Pristina di indebolire i contenuti di protezione della minoranza serba, ma dall'altra dice no anche alla richiesta delle autorità di Belgrado di una connessione tra le proposte del piano e la risoluzione dell'Onu 1244. Quella che assumeva gli accordi di pace di Kumanovo che ponevano fine alla guerra della Nato e che prevedeva il ritorno del Kosovo all'autorità statuale della Serbia.

In questi giorni, dopo le aggressioni subite da molti monasteri, le autorità di Belgrado hanno chiesto che a protezione delle chiese ortodosse oltre ai militari della Kfor ci sia la polizia serba...

I media l'hanno presentata come il tema dominante delle trattative alle quali ha partecipato il nostro vescovo Teodosio. E' stato solo uno degli argomentiin discussione, subito abbandonato. La proposta è stata fatta però perché a Belgrado c'è il timore che la Kfor, di fronte all'avvio della cosiddetta indipendenza, prepari il ritiro della protezione dei monasteri ortodossi per consegnarla al Corpo di polizia kosovaro-albanese (in maggioranza composto dalle ex milizie dell'Uck, ndr). Perché nel piano Ahtisaari si dice che «bisogna liberare la Kfor appena possibile della sua attività militare». La posizione della Chiesa è che la Kfor-Nato continui a proteggere il più a lungo possibile gli otto luoghi sacri ortodossi che la Kfor-Nato sta già proteggendo - il numero più grande è in questa zona e vede coinvolto il contingente italiano. La polizia kosovaro-albanese, specialmente in questa zona, non è né capace né motivata a proteggere monumenti cristiani. Nella sommossa del marzo 2004 il loro ruolo è stato deludente. Per questo la proposta della compresenza della polizia di Belgrado a supporto dei militari Nato era abbastanza legittima, ma improponibile perché poi ci vorrebbero più militari Kfor per proteggere i poliziotti serbi. Ma parlare di polizia serba non è una provocazione, il pericolo c'è ancora tutto. E riguarda anche le chiese che stiamo ricostruendo di Pristina, di Podujevo e in particolare di Pec che è stata nuovamente violata nei giorni scorsi. Sono chiese che hanno subito distruzioni e incendi nel marzo 2004, sono state ricostruite grazie al Consiglio europeo con dentro rappresentanti albanesi e serbi e i soldi del governo kosovaro, ma voglio denunciare che sono state di nuovo violate e derubate. La polizia kosovara non ha fatto nulla.

Ma esistono per voi gli standard democratici - rispetto delle minoranze, metodi non violenti, garanzie dei diritti umani - per concedere l'indipendenza al Kosovo?

Noi poniamo sempre una domanda ai rappresentanti della comunità internazionale: come si fa a parlare di indipendenza per una società che praticamente è al livello dei clan che governano il Kosovo? E dove le istituzioni sono una facciata dietro alla quale comandano potenti personaggi dell'ex Uck? Quando noi continuiamo ad avere gravi problemi con i municipi che ci rispondono che sono impotenti a risolvere i problemi che poniamo come comunità religiosa e serba e dove tutti i problemi sono demandati all'influenza di personaggi come Ramush Haradinaj e Hasim Thaqi internazionalmente squalificati. Mentre per attivare un piano d'indipendenza assai complesso ci vuole almeno il coinvolgimento di autorità, non solo locali, reali e politicamente credibili ed efficienti. Forse nel Kosovo centrale, dov'è maggiore la presenza internazionale, c'è una maggiore credibilità. Ma il nodo, dappertutto, restano i municipi. Prima che una decisione raggiunga Decani, Djakovica o Pec si perderà per strada. Perciò temiamo che molti provvedimenti del piano siano impossibili da mantenere; i poteri esecutivi devono restare nelle mani della comunità internazionale, sperando che si sviluppi prima o poi una élite politica democratica che non avrà più bisogno di protettorati. Per la protezione del patrimonio culturale ortodosso noi chiediamo concretamente una tutela dell'Unione europea. Vogliamo che la Nato rimanga il più a lungo possibile. Questi luoghi sacri potrebbero essere distrutti in una notte e tutto lo sforzo finora dimostrato dai vostri contingenti potrebbe essere vanificato con la poco prudente concessione dell'indipendenza.

Come finirà allora?

Siamo ottimisti. Naturalmente per esserlo ci basiamo su valutazioni non solo politiche, altrimenti dovremmo essere più che pessimisti. Abbiamo una visione dei problemi escatologica. Come gli affreschi della nostra chiesa, non ci raffiguriamo la realtà così com'è ma come crediamo sarà nel regno dei cieli. Ma torniamo alla realtà. Noi speriamo che la presenza internazionale rimanga, sia quella militare che quella civile, almeno finché tutti i Balcani occidentali siano integrati nell'Unione europea. E' molto importante mantenere la stabilità politica in Serbia, facendo la concessione di non dare al Kosovo un posto alle Nazioni unite come fosse uno stato internazionalmente riconosciuto, fino al momento della piena integrazione dei Balcani occidentali in Europa quando questa questione sarà risolta. La Serbia è pronta adesso a concedere al Kosovo molti elementi di uno status di autonomia, quasi statale, ma all'interno della Serbia: avrebbe tutte le prerogative di uno stato senza il posto all'Onu e certamente con il mantenimento di legami istituzionali con i serbi del Kosovo, attraverso una collaborazione flessibile con le istituzioni del Kosovo. La proclamazione di una indipendenza completa causerebbe una maggiore destabilizzazione in tutti i Balcani. Non dico questo perché gli albanesi non ottengano quello che vogliono. Forse anche loro hanno diritto a desiderare l'indipendenza, così come i serbi hanno diritto di continuare a vivere nel loro paese, in un Kosovo serbo, come è stato in tutti questi secoli. Bisogna trovare una soluzione provvisoria, legata ad una via dinamica verso l'Unione europea. Questo condizionerebbe Belgrado e Pristina ad uno scopo comune e li costringerebbe ad essere fedeli agli accordi. E' l'unico modo che potrebbe portare maggiore stabilità a quest'area, ai Balcani e all'Europa. Ora vedremo che cosa decideranno i grandi poteri mondiali, perché alla fine l'accordo sarà tra Washington, Mosca e Bruxelles tutti pronti a far accettare il piano Ahtisaari così com'è.


il manifesto
15 Marzo 2007

Piano dell'Onu

Il simulacro e il fallimento

T. D. F.

Lunedì scorso il mediatore dell'Onu Martti Ahtisaari è tornato a Vienna per annunciare che le trattative sullo status finale del Kosovo erano fallite. Era annunciato, fin dal momento in cui gli era stata affidata la «mediazione» - strana, per uno che è a favore dell'indipendenza. L'Occidente non ha deflettuto, riproponendosi nel ruolo nefasto di chi ha partecipato alla guerra balcanica con le concessioni delle indipendenze proclamate su base etnica - Slovenia e Croazia - già nel 1991. E ora si avvia a confermare una nuova indipendenza monoetnica, quella albanese del Kosovo. A un bel dire ora il governo italiano, che bisogna «uscire dagli schemi» per insistere sul compromesso e non imporre l'indipendenza alla Serbia. I giochi, pericolosi, sembrano fatti. Tutto ormai è finito nel grande calderone internazionale che vede protagonista la Russia di Putin, gli Stati uniti di George W. Bush eredi della guerra «democratica» e spesso bipartisan, l'Ue che da tempo ha affidato alla Nato la sua politica estera.
Nessuno che si chieda quale sia stato alla fine il risultato della guerra «umanitaria» di 78 giorni di bombardamenti aerei, l'ambigua uscita della missione Osce dal territorio del Kosovo (dove mediava tra esercito di Belgrado e Uck) per colpa della messainscena della strage di Racak, la truffa dei diktat di Rambouillet. Milosevic non c'è più, ma alla Serbia è stata proposta solo e soltanto l'indipendenza di una parte del suo territorio. Suo anche secondo gli accordi di pace di Kumanovo e la risoluzione 1244 dell'Onu. Rivelando che la guerra della Nato, giustificata per scopi umanitari, aveva in realtà l'obiettivo di una secessione etnica. Un bel precedente, per l'incerta Bosnia Erzegovina, per la crisi in Macedonia, per le «altre indipendenze» nel Caucaso, in Europa e nel mondo.
I monasteri ortodossi aprono ai diritti degli albanesi, confermando il diritto dei serbi al Kosovo. Con una maggiore disponibilità della Chiesa ortodossa che lì vive sotto la pressione albanese, e che parla ai democratici e ai moderati nazionalisti in Serbia; mentre un'altra parte più dura del Patriarcato respinge le rivendicazioni di Pristina. Vojslav Kostunica e il presidente Boris Tadic, che rappresentano la stabilità serba, mandano a dire che non ci saranno concessioni sulla sovranità. Tadic aggiunge che anche se la situazione precipiterà, non muoverà l'esercito. Ma tutto è possibile, perché a Belgrado ancora è in ballo il nodo del governo e il primo partito alle elezioni è stato quello ultranazionalista.
Il disastro vero è quello della leadership kosovaro-albanese. La Lega democratica che fu di Ibrahim Rugova è in frantumi; l'ex leader dell'Uck, Hasim Thaqi appare fuori scena; al premier Agim Ceku hanno arrestato per traffico di valuta il suo principale consigliere; è fallita l'alternativa dell'Alleanza di Ramush Haradinaj che, prima di morire, Ibrahim Rugova aveva nomimato premier, nelle stesse ore in cui veniva accusato all'Aja per crimini contro l'umanità. Al nuovo processo, il procuratore Carla Del Ponte lo ha chiamato «gangster in divisa» ricordando i 37 capi d'imputazione che pendono contro di lui - la sua immagine in uniforme «all'eroe della patria Ramush Haradinaj» pende sempre su un grande telone nella piazza di Decani. Regnano i clan in Kosovo, della droga e dei trafici di armi e ricchi aiuti internazionali. Purtuttavia chiedono l'indipendenza. E ricattano con la violenza di un movimento eterodiretto che chiede tutto e subito. I serbi dicono no.
All'ultima conferenza alla Farnesina il ministro degli esteri Massimo D'Alema aveva intimato a Belgrado: «Vi attaccate al passato, il Kosovo è solo un simulacro». Vagli a spiegare ai serbi ortodossi che considerano il Kosovo come la loro Gerusalemme, la culla della loro storia - e, visti i monumenti, anche della nostra - della quale è stato fatto scempio in questi sette anni di protettorato Nato, che «invece» è un simulacro.


=== en français ===


Kosovo : « Indépendance ? Ici c’est le règne des clans »

Tommaso Di Francesco
15 mars 2007
Il manifesto

Decani (KOSOVO) - C’est le monument médiéval le plus important de Serbie, par ses fresques et par son histoire, tombe de rois et lieu de couronnements. Eglise, monastère, un grand ensemble monastique, et maintenant les ateliers du bois et de la peinture d’icônes, et plus au sud, une antique vigne. Pour l’Unesco elle appartient au patrimoine de l’humanité, pour l’histoire de l’art c’est « le chaînon manquant pour comprendre notre Moyen-Âge ».

Dehors, le contingent militaire italien qui le protège – en 2004 on a même tiré des coups de mortiers sur le monastère. Dedans, une communauté de gens réfugiés des destructions qui vont de 1999 à aujourd’hui, avec un pic en 2004, y compris les quatre religieuses qui sont venues se mettre à l’abri dans ce couvent après la destruction de la Sainte Trinité de Djakovica. Une litanie de réfugiés qui a vu fuir dans la terreur 200 mille serbes et autant de roms. Et comme il est impossible d’imaginer un lieu de culte dans l’absolu, d’autant moins chez les orthodoxes, sans une communauté – d’autant que ces provinces se sont toujours appelées Kosmet (Kosovo et Metohja, Terre de l’église) – les monastères sont désormais une lieu de défense, un symbole de ce qui reste de la présence des Serbes dans ce Kosovo qu’une bonne partie de la communauté internationale veut remettre à une nouvelle indépendance statale ethnique : albanaise. 

Nous avons posé quelques questions au Père Sava, responsable et souvent porte-parole des Serbes qui sont restés : nous l’avions rencontré la veille à Villaggio Italia, la base du contingent de la Kfor, où il était venu pour une rencontre interconfessionnelle avec des représentants musulmans et catholiques, organisé par le général Attilio Claudio Borreca, commandant des contingents Kfor de la zone ouest. Notre entrevue a eu lieu dans l’extraordinaire bibliothèque du couvent, avec l’aide de Père Andrej.

Que feriez-vous si l’on accordait l’indépendance selon le plan du médiateur de l’Onu, Martthi Ahtisaari, plan rejeté dans les négociations officielles de Vienne ? Le Patriarche Pavle a invité les serbes à rester au Kosovo.

Les Serbes vivent sur ces terres depuis des siècles, ils y ont vécu sous diverses autorités, et l’église orthodoxe y a vécu, même sous différents systèmes politiques, en témoignant de la vérité de Christ. Le Patriarche Pavle a invité notre peuple à rester fidèle à sa foi et à sa tradition. Le Conseil de sécurité de l’Onu doit encore décider comment va se développer la crise du Kosovo. Il ne s’agit pas d’une question « locale » entre Belgrade et Pristina, mais du nouvel ordre géostratégique mondial. Le plan de Ahtisaari contient pas mal d’éléments significatifs pour une permanence des Serbes, mais dans le contexte d’un Kosovo indépendant qui n’aura plus de liens institutionnels avec la Serbie. Et cela génère une grande préoccupation du côté serbe, à cause de la peur, fondée, que sans liens avec la Serbie il ne soit pas possible de garantir la présence à long terme du peuple serbe au Kosovo. Le plan a de nombreux éléments positifs, mais le contexte politique institutionnel négatif qu’il propose décourage les serbes d’accepter même les éléments positifs. Maintenant on discute beaucoup à Belgrade de la dernière version du plan Ahtasaari. Qui, d’un côté refuse le projet de Pristina d’affaiblir les dispositios de protection de la minorité serbe, mais de l’autre dit non aussi à la demande des autorités de Belgrade d’une connexion entre les propositions du plan et la résolution de l’Onu 1244. Cette résolution reconnaissait les accords de paix de Kumanovo mettant fin à la guerre de l’OTAN, et qui prévoyait le retour du Kosovo sous l’autorité étatique de la Serbie.

Ces jours ci, après les agressions dont les monastères ont été l’objet, les autorités de Belgrade ont demandé qu’en plus des militaires de la Kfor, la police serbe assure la protection des églises orthodoxes…

Les médias l’ont présenté comme le thème majeur des négociations auxquelles a participé notre évêque Théodose. Ça n’a été qu’un des arguments de la discussion, immédiatement abandonné. La proposition, par contre, a été faite parce qu’à Belgrade on craint que la Kfor, face à la déclaration de la fameuse indépendance, ne prépare son retrait de la protection des monastères orthodoxes pour la transmettre au Corps de police kosovar-albanais (en majorité composé des ex-milices de l’Uck, NDR). Car, dans le plan Ahtisaari, on dit qu’ « il faut libérer la Kfor dès que possible de son activité militaire ». La position de l’Eglise est que la Kfor continue à protéger le plus longtemps possible les huit lieux sacrés orthodoxes que la Kfor-OTAN protège déjà – la majorité étant dans cette zone et impliquant le contingent italien. La police kosovar-albanaise, en particulier dans cette zone, n’est ni capable ni motivée pour protéger des monuments chrétiens. Pendant le soulèvement de mars 2004, leur rôle a été décevant. C’est pour cela que la proposition de la co-présence de la police de Belgrade en appui des militaires OTAN était assez légitime, mais impossible à proposer parce qu’ensuite il faudrait encore plus de militaires Kfor pour protéger les policiers serbes. Mais parler de police serbe n’est pas une provocation, le danger est encore entier. Et il concerne aussi les églises que nous reconstruisons à Pristina, à Podujevo, et en particulier à Pec, qui a été à nouveau violée ces jours derniers. Ce sont des églises qui ont subi des destructions et des incendies en mars 2004, elles ont été reconstruites grâce au Conseil européen, qui avaient des représentants albanais et serbes, et avec l’argent du gouvernement kosovar ; mais je dois dire qu’elles ont à nouveau été violés et volées. La police kosovar n’a rien fait.

Mais existe-t-il pour vous des systèmes démocratiques - à l’égard des minorités, des méthodes non violentes, des garanties des droits humains – pour concéder son indépendance au Kosovo ?

Nous posons toujours la même question aux représentants de la communauté internationale : comment peut-on parler d’indépendance pour une société qui est pratiquement au niveau des clans qui gouvernent le Kosovo ? Et où les institutions sont une façade derrière laquelle commandent de puissants personnages de l’ex-Uck ? Quand nous continuons, nous, à avoir de graves problèmes avec les municipalités qui nous répondent qu’ils sont impuissants à résoudre les problèmes que nous posons en tant que communauté religieuse et serbe, et où tous les problèmes sont délégués, sous l’influence de personnages comme Ramush Haradinaj et Hasim Thaqui qui se sont disqualifié internationalement. Alors que pour mettre en acte un plan d’indépendance assez complexe il faut au moins qu’il y ait une implication d’autorités réelles, pas seulement locales, et politiquement crédibles et efficientes. Peut-être que la crédibilité est plus grande dans le centre du Kosovo, où la présence internationale est plus importante. Mais le nœud du problème, partout, reste les municipalités. Avant qu’une décision n’arrive à Decani, Djakovica ou Pec, elle se perdra en chemin. Et nous craignons, de ce fait, que de nombreuses dispositions du plan soient impossibles à garder : les pouvoirs exécutifs doivent rester dans les mains de la communauté internationale, en espérant que se développe tôt ou tard une élite démocrate qui n’aura plus besoin de protectorats. Pour la protection du patrimoine culturel orthodoxe nous demandons concrètement une tutelle de l’Union Européenne. Nous voulons que l’OTAN reste le plus loin possible. Ces lieux sacrés pourraient être détruits en une seule nuit et tout l’effort apporté jusqu’à présent par vos contingents pourrait être réduit à zéro à cause de la concession peu prudente à l’indépendance. 

Comment cela va-t-il finir, alors ?

Nous sommes optimistes. Bien sûr, pour l’être, nous ne nous fondons pas que sur des évaluations politiques, sinon nous devrions être plus que pessimistes. Nous avons une vision eschatologique des problèmes. Comme les fresques de notre église, nous ne nous représentons pas la réalité comme elle est mais comme nous croyons qu’elle sera dans le royaume des cieux. Mais revenons à la réalité. Nous souhaitons, nous, que la présence internationale demeure, autant militaire que civile, au moins jusqu’à ce que tous les Balkans occidentaux soient intégrés dans l’Union européenne. C’est très important de maintenir la stabilité politique en Serbie, en faisant la concession de ne pas donner au Kosovo une place aux Nations Unies comme si c’était un état reconnu internationalement, et cela jusqu’au moment de l’intégration totale des Balkans occidentaux en Europe quand cette question aura été résolue. La Serbie est prête maintenant à concéder au Kosovo de nombreux éléments d’un statut d’autonomie, quasiment étatique, mais à l’intérieur de la Serbie : il aurait toutes les prérogatives d’un état sans un poste à l’ONU, et bien sûr avec le maintien de liens institutionnels avec les Serbes du Kosovo, à travers une collaboration flexible avec les institutions du Kosovo. La proclamation d’une indépendance complète entraînerait une déstabilisation plus grande dans tous les Balkans. Je ne dis pas ça pour que les Albanais n’obtiennent pas ce qu’ils veulent. Peut-être eux aussi ont-ils le droit de désirer leur indépendance, de la même façon que les Serbes ont le droit de continuer à vivre dans leur pays, dans un Kosovo serbe, comme il l’a été pendant tous ces siècles. 

Il faut trouver une solution provisoire, liée à une dynamique vers l’Union européenne. Cela conditionnerait Belgrade et Pristina à un objectif commun, et cela les obligerait à être fidèles aux accords. C’est le seul moyen qui pourrait apporter une plus grande stabilité à cette région, aux Balkans et à l’Europe. Nous allons voir maintenant ce que vont décider les grands pouvoirs mondiaux, parce que, pour finir, l’accord se fera entre Washington, Moscou et Bruxelles, tous prêts à faire accepter le plan Ahtisaari tel qu’il est.

Edition de jeudi 15 mars 2007 de il manifesto
Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio 


Riceviamo e volentieri giriamo
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VILLA OLMO - COMO

120 capolavori dal Museo Nazionale di Belgrado

orario: martedì, mercoledì e giovedì 9.00 ­ 20.00; venerdì, sabato e
domenica 9.00 ­ 22.00. Lunedì chiuso (La biglietteria chiude un’ora prima)
(possono variare, verificare sempre via telefono)
biglietti: intero: € 9; ridotto: € 7 dai 6 ai 16 anni, over 65, studenti
universitari, gruppi
vernissage: 23 marzo 2007. ore 18
editore: SILVANA EDITORIALE
ufficio stampa: CLP
curatori: Tatjana Bosnjak, Sergio Gaddi, Giovanni Gentili, Dragana Kovacic
autori: Paul Cézanne, Marc Chagall, Edgar Degas, Paul Gauguin, Wassily
Kandinsky, Piet Mondrian, Claude Monet, Gustave Moreau, Pablo Picasso,
Pisarro, Odilon Redon, Auguste Renoir, Alfred Sisley, Henri
Toulouse-Lautrec
genere: arte contemporanea, collettiva


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Monet, Degas, Renoir, Gauguin, Redon, Mondrian
GLI IMPRESSIONISTI, I SIMBOLISTI E LE AVANGUARDIE
120 capolavori dal Museo Nazionale di Belgrado

 

COMO, Villa Olmo - Via Cantoni, 1
Dal 24 marzo al 15 luglio 2007

270.000 visitatori in tre anni. È questo il dato che testimonia il successo del progetto culturale realizzato dal Comune di Como, che ha portato sulle rive lariane in tre anni, dal 2004 al 2006, capolavori di Mirò, Picasso e Magritte. La settecentesca Villa Olmo è ora pronta a ospitare la nuova grande iniziativa in programma per la primavera 2007.
L’assessore alla Cultura, Sergio Gaddi, ha infatti annunciato che dal 24 marzo al 15 luglio 2007 si terrà un raffinato evento espositivo dedicato ai capolavori impressionisti e post-impressionisti provenienti dal Museo di Belgrado.
La rassegna ‘GLI IMPRESSIONISTI, I SIMBOLISTI E LE AVANGUARDIE, curata da Tatjana Bosnjak (conservatore del Museo di Belgrado), Sergio Gaddi, Giovanni Gentili e Dragana Kovacic (conservatore del Museo di Belgrado), raccoglierà 124 opere (77 oli su tela e 47 disegni), realizzate dai maggiori esponenti dei movimenti da Renoir a Degas, da Monet, da Sisley a Pisarro, da Cézanne a Toulouse-Lautrec, da Redon a Moreau, fino a giungere ai primi del Novecento con Gauguin, Picasso, Chagall, Kandinsky, Mondrian. 
L’iniziativa è organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Como. «Dopo il successo della mostra di Renè Magritte dell’anno scorso - sottolinea il sindaco di Como Stefano Bruni - Como prosegue la stagione dei grandi eventi, un ulteriore passo di un percorso ambizioso iniziato nel 2004 e che a pieno titolo ci ha già inserito nel circuito delle città d’arte, con importanti benefici per il territorio, per la naturale vocazione turistica e per il prestigio della nostra città». 
«Il passaggio tra ‘800 e ‘900 è presentato in un percorso inedito che arriva fino alla nascita della modernità - evidenzia Sergio Gaddi, Assessore alla Cultura del Comune di Como e curatore della rassegna – attraverso l’esperienza straordinaria dei più grandi maestri europei. L’idea della mostra è quella di accompagnare il visitatore alla scoperta dell’arte moderna attraverso opere importanti mai viste prima in Italia, che partono addirittura dal pre-impressionismo di Corot”. Gaddi, che ha curato anche la mostra di Magritte a Villa Olmo dell’anno scorso, evidenzia poi come “Gli Impressionisti, i Simbolisti e le Avanguardie sono elementi di un unico “progetto culturale integrato”, partito con Miró, Picasso e Magritte, e aperto alla letteratura, alla poesia, al teatro».
L’appuntamento di Como sarà l’occasione per ammirare per la prima volta in Italia questi capolavori, conservati nel Museo Nazionale di Belgrado, una tra le istituzioni culturali più vivaci dell’Est europeo, chiuso per ristrutturazione fino al 2010.
La collezione dai cui provengono si è formata grazie alla volontà del principe serbo Paul Karadordevic tra la metà dell’Ottocento e gli anni Venti del secolo scorso e, per le sue particolarità, è unica in Europa.
A differenza delle altre collezioni coeve, infatti, in essa sono concentrati i lavori di quegli autori che sono stati i protagonisti dello sviluppo dei nuovi orientamenti artistici e che hanno condiviso le moderne idee estetiche.    

È una collezione mirata alla scelta della modernità che condurrà il visitatore dalle opere dei primi impressionisti fino alla nascita delle Avanguardie.
Il percorso espositivo prende avvio con due paesaggi di Camille Corot e una ‘Natura morta con ciliegie’ di Eugène Boudin, due artisti che hanno spianato la strada alla ‘rivoluzione’ impressionista.
La grande stagione dell’Impressionismo è ben rappresentata dai maggiori esponenti del movimento, quali Claude Monet, qui con una delle sue famose cattedrali di Rouen (‘La Cattedrale rosa’, 1892), Pierre Auguste Renoir, con 14 oli su tela, tra cui ‘La bagnante che dorme’ del 1861, e ‘La bagnante’ del 1915, Edgar Degas, con tre oli su tela, Alfred Sisley, Camille Pissarro, con ‘Pomeriggio a Berneval’ del 1900. 
Le evoluzioni stilistiche dell’Impressionismo sono delineate nei suoi tratti essenziali da Paul Gauguin - di cui il Museo di Belgrado conserva importanti dipinti, come ‘Le gioie di Bretagna’ una piccola tela del 1889 appartenente al suo periodo bretone, e tre lavori realizzati a Tahiti, dove l’artista si recò nel 1891 - da Toulouse Lautrec e Paul Signac.
Il punto di svolta tra la poetica impressionista e i suoi successivi sviluppi verso l’affermazione delle Avanguardie è dato dall’analisi del movimento simbolista, con opere dei maggiori artisti, come Gustave Moreau, Odilon Redon e Eugène Carrière.
L’esposizione comasca dà poi conto degli sviluppi artistici del primo Novecento con il movimento fauvista; è qui che si incontrano le opere di Henri Matisse, di André Derain, di Maurice de Vlaminck, di Georges Rouault. 
Il cubismo è rappresentato dal capolavoro di Picasso, “Testa di donna”; per il movimento Nabis si incontreranno i lavori di Pierre Bonnard e di Edouard Villard, mentre lavori di Marc Chagall e Kees Van Dongen testimonieranno la ricerca stilistica della cosiddetta ‘scuola di Parigi’.
La mostra si conclude idealmente con due artisti che, con modalità diverse, hanno spinto la pittura a nuove ricerche espressive, come Piet Mondrian e Vassily Kandinsky.

Il catalogo sarà pubblicato da Silvana Editoriale. 

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Scheda tecnica della mostra

Titolo della mostra: Monet, Degas, Renoir, Gauguin, Redon, Mondrian. GLI IMPRESSIONISTI, I SIMBOLISTI E LE AVANGUARDIE. 120 capolavori dal Museo Nazionale di Belgrado
Sede: Como, Villa Olmo - Via Cantoni, 1
Periodo: 24 marzo - 15 luglio 2007
Orari: martedì, mercoledì e giovedì 9.00 – 20.00; venerdì, sabato e domenica 9.00 – 22.00.
Lunedì chiuso (La biglietteria chiude un’ora prima)

Biglietto intero: Euro 9,00 
Biglietto ridotto: Euro 7,00, dai 6 a 16 anni, over 65, studenti universitari, categorie convenzionate, gruppi di almeno 20 persone (con gratuità per l’accompagnatore)
Biglietto ridotto: Euro 5,00, per le scuole (classi organizzate, con gratuità per 2 accompagnatori)
Ingresso gratuito: bambini sino a 6 anni, portatori di handicap con accompagnatore, giornalisti con tesserino, guide turistiche con tesserino o autorizzate, militari in divisa.
Visite guidate: su prenotazione per gruppi fino a 20 persone: Euro 100,00; per scuole: Euro 50,00
Audioguide: € 3
Catalogo: Silvana Editoriale

Infoline e prenotazione singoli 24/24H: Tel. 02.54914
Informazioni e prenotazioni gruppi (Como e Provincia): Tel. 031.571979
Prenotazione gruppi: Tel. 02.5427927


LA MEMORIA CORTA DEL NOSTRO PRESIDENTE


Bologna. Forse è l’unico caso al mondo, dove un ex ministro
dell’Interno diventa Presidente della Repubblica. Forse è un altro
caso, il fatto che il Presidente in questione si rechi nella città
delle stragi e non dica una parola su questi drammatici episodi
storici e politici.
La memoria del nostro Presidente. Forse sta svanendo, proprio come la
memoria degli italiani. Forse ci rappresenta proprio per questo. Ma
proprio per questo vanno dette e ricordate alcune cose: Bologna è la
città della strage di Marzabotto, è la città della strage del rapido
904, è la città della strage dell’Italicus, è la città del 2 Agosto
1980, è la città della banda fascista della Uno bianca, è la città
della strage del Pilastro, è la città di Francesco Lo Russo, è la
città del DC 9 di Ustica, è la città Medaglia d’Oro della Resistenza,
è la città della strage dell’Istituto G. Salvemini. Forse è proprio
per questo che il nostro Presidente non ha proferito parola su queste
memorie. Lui, che quando era Ministro dell’Interno del governo Prodi,
nel 1998, accadde che il Gran Maestro della P2, Licio Gelli, scappò
dagli arresti domiciliari e si rifugiò all’estero, rimanendovi per
quasi otto mesi. Già proprio lui, il nostro Presidente della
Repubblica, era Ministro dell’Interno. E noi, che la memoria non
l’abbiamo svenduta, ricordiamo a chi dovesse averla perduta, che
Licio Gelli fu coinvolto nella strage del 2 Agosto 1980, a Bologna.
Sì, Bologna. La città che ha visto il nostro Presidente tacere. E
ricordiamo anche che ha fatto visita al giornale ‘ Il Resto del
Carlino’, definendolo “ un istituzione”. Ricordiamo anche che questo
giornale, durante il fascismo, alcuni giorni successivi la strage del
1944, a Marzabotto, definì’ quella strage “ un'invenzione”.
Del resto, Bologna è una città finita politicamente. Del resto,
Bologna, laboratorio politico nazionale, è stata usata maldestramente
da eminenti figuri, solo pochi anni fa applauditi e ora, purtroppo,
smascherati nella loro pochezza, e Bologna, ancora una volta, muore.

Giuliano Bugani

(fonte: http://www.arcoiris.tv/modules.php?
name=Lettere&op=esteso&id=2092
/ "siudal" su: forum @...-forum.org )

From: peter_betscher @...
Subject: Wartburgpreisverleihung an del Ponte
Date: March 19, 2007 11:39:10 PM GMT+01:00


Krieg bedeutet Frieden - Unsere Freiheit verteidigen wir am
Hindukusch - Gerechtigkeit ist ICTY
möchte man frei nach George Orwell in schönen Lettern in die Gemäuer
der Wartburg meißeln, wenn Carla del Ponte, die Chefanklägerin des
„Internationalen Strafgerichtshofs für das ehemalige
Jugoslawien“ (engl. Abkürzung ICTY), am 23. März 2007 in Eisenach den
Wartburgpreis entgegennimmt, der seit 1992 „für herausragende
Verdienste um die europäische Einigung“ vergeben wird. Es wird in den
deutschen Medien keine helle Aufregung um sich greifen. Ganz anders
war es im letzten Jahr, als der Heinrich-Heine-Preis der Stadt
Düsseldorf dem Schriftsteller Peter Handke zugesprochen wurde.
Handke, bekannt als einer der wenigen, die ihre Stimme gegen die
antiserbische Hetze erhoben, die den ersten offenen Angriffskrieg der
Bundesrepublik Deutschland (aber den dritten deutschen Krieg gegen
Serben im 20. Jahrhundert) begleitete und bis heute rechtfertigen
soll, hatte eben noch an der Beerdigung von Slobodan Milosevics am
18. März 2006 im serbischen Städtchen Požarevac teilgenommen und das
wütende Geschrei der publizistischen Kriegshetzer geerntet. Und nun
sollte er den Heine Preis erhalten – ein Skandal!

Del Ponte dagegen ist für eben diese Kriegshetzer eine Heldin, die
mit Auszeichnungen überhäuft wird. 2002 erhielt sie den
„Westfälischen Friedenspreis“ in Münster. Wo 1648 das Ende des
Dreißigjährigen Krieges mit einem Friedensvertrag besiegelt wurde, in
dem zum erstenmal in der europäischen Geschichte das Prinzip der
Staatssouveränität zur Geltung kam und die Parteien sich
verpflichteten, unter keinem Vorwand, auch nicht „unter dem Anschein
des Rechts“ Gewalt gegeneinander auszuüben, wurde jetzt die Person
geehrt, die maßgeblich daran beteiligt ist, der Gewaltanwendung gegen
Jugoslawien den „Anschein des Rechts“ zu verleihen. Denn das ist die
einzige Funktion, die ihre Anklagebehörde und der ganze so genannte
„Gerichtshof“, der zum Spott auf den echten Internationalen
Gerichtshof (IGH) ebenfalls in Den Haag angesiedelt ist, erfüllen
sollen.

Symbolträchtig findet die Preisverleihung an Carla Del Ponte einen
Tag vor dem Beginn der NATO-Aggression gegen Jugoslawien statt. Der
1. Wartburg-Preisträger war Hans-Dietrich Genscher und heute zweifelt
kaum jemand daran, dass das Vorpreschen der BRD bei der Anerkennung
von Slowenien und Kroatien maßgeblich zum Ausbruch des jugoslawischen
Bürgerkriegs geführt hat, der zur “humanitären” Bombardierung der BR
Jugoslawien führte und schließlich durch eine vom Westen gesponserte
Umsturzaktion abgeschlossen wurde. Ihr Knowhow vermarkten die
gekauften Akteure der Konterrevolution heutzutage an noch nicht
gleichgeschaltete Länder in alle Welt.

Eine Aufarbeitung des deutschen Faschismus fand in der Bundesrepublik
trotz medialem Getöse nie statt und das gleiche Schicksal erfährt der
erste Angriffskrieg von deutschem Boden nach 1945. Fast niemand hat
durch den fast durchgängigen Medienboykott etwas von den Inhalten des
“Jahrhundert-prozesses” gegen Slobodan Milosevic erfahren. Deshalb
werden wir am Tag der Wartburgpreis-verleihung an Carla del Ponte
Auszüge aus der Eröffnungsrede der Verteidigung von Slobodan
Milosevic, Orginaltöne aus dem Prozess, sowie Gerichtsreportagen des
bulgarischen Journalisten Germinal Civikov zu Gehör bringen.

23. März 2007, 13-18 Uhr Protest-Flugblattaktion in Eisenach,
Treffpunkt 13.00 und für später Anreisende um 15.00 Ecke Marktgasse/
Karlstraße (zwischen Schloß, Rathaus und Georgenkirche)

23. März 2007, 19 Uhr, Eisenach, Bahnhofsstraße 5e, "Treffpunkt
Familie": "Die Zerstörung Jugoslawiens"- Vortrag von Klaus Hartmann
(Vorsitzender des Deutschen Freidenker Verbandes). Anschließend liest
Mitautor Sebastian Bahlo aus "Slobodan Milosevic antwortet seinen
Anklägern" (Zambon Verlag 2006) und Mitautorin Cathrin Schütz aus
"Der Milosevic-Prozess. Bericht eines Beobachters" (ProMedia Verlag
2006).

24.März 2007 10 Uhr Eisenach, Marktgasse/Karlstrasse Infostand zum 8.
Jahrestag der NATO-Aggression gegen die BR Jugoslawien und zum 4.
Jahrestag des Irak-Krieges (20. März)

Weiterverbreitung und Teilnahme äußerst erwünscht!

Mit solidarischen Grüßen

Peter Betscher
Vereinigung für Internationale
Solidarität (VIS) e.V.


(Un documentario, scaricabile dal sito indymedia tedesco, sugli strumenti di propaganda, controllo dei media e guerra psicologica oggigiorno utilizzati dalla Bundeswehr - l'esercito della Germania)

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Anläßlich der heute startenden Sicherheitskonferenz in München und der aktuellen Debatte über den Tornadoeinsatz in Afghanistan (und das Herumeiern der Politik um das Wort “Kampfeinsatz”), eine Empfehlung auf einen Film von Steve Hutchings über die die Informations- und Medienarbeit der Bundeswehr. Der Film entstand im Rahmen einer Diplomarbeit an der Hochschule für Gestaltung in Offenbach am Main.

Er kann bei Indymedia kostenlos heruntergeladen werden - allerdings braucht man dazu eine DSL-Verbindung... (Der Link verweist auf die Präsentation des Films mit weiteren Infos, noch nicht auf die Datei selbst).

Der Film startet mit einem geschichtlichen Aufriss. Anhand von Zeitzeugeninterviews mit Soldaten aus Einheiten für ´Psychologische Kampfführung` (PSK) bzw. ´Psychologische Verteidigung` (PSV) wird deren vornehmlich gegen die DDR gerichtete Propagandatätigkeit beschrieben. Sie richtete sich vor allem gegen die DDR, aber auch Organisationen und Personen, die der Bundeswehr kritisch gegenüber standen.

Ende der 80er Jahre wurden diese Strukturen aufgelöst und aus der ´Akademie für Psychologische Verteidigung` wird 1990 die ´Akademie für Information- und Kommunikation der Bundeswehr`(AIK). Sie dient als ´Thinktank` für die Öffentlichkeitsarbeit im Inland. Sie berät z.B. die Bundesregierung und die Bundeswehr dabei, wie sie die öffentliche Zustimmung zu Auslandseinsätzen sicher kann. Zitat Oberst Rainer Senger, Kommandeur der AIK:

“Wenn festzustellen ist, dass die Mehrheit der Bundesbürger eine hohe Zustimmung pflegen zu Einsatzen der Bundeswehr, wenn sie humanitären Zwecken dient [...], dann ist das schon ein wichtiges Ergebnis, das wir in entsprechender Weise auch für den Presse und Informationsstab aufbereiten. Etwas mit der Maßgabe, dass diese Auslandseinsätze der Bundeswehr und die Rolle der Soldaten aber auch der Beamten, die dort im Einsatz sind, entsprechend differenziert und anschaulich dargestellt werden.”

Der Film dauert über 60 Minuten und lohnt sich. Es ist ja manchmal erstaunlich, dass in Deutschland mehr über die Einflussnahme von Regierung und Militär auf die öffentliche Meinung in den USA bekannt ist und geschrieben wird, als über die entsprechenden Strukturen in Deutschland.

Interessenkonflikt beim Deutschlandfunk

Auch als die Süddeutsche Zeitung im letzten Herbst kritisierte, dass Rolf Clement als Leiter der Abteilung Hintergrund im Deutschlandfunk zugleich Chefredakteur bei „loyal“ der Zeitschrift des Reservistenverbandes wurde und nebenbei auch Mitglied im Beirat für Fragen der Inneren Führung beim Bundesminister der Verteidigung ist, gab es wenig öffentliches Echo. Clement hat inzwischen die Chefredaktion abgegeben, schreibt aber weiter als freier Redakteur für „loyal“. Der Interessenkonflikt wurde abgemildert, aber nicht aufgehoben. Es gäbe in diesem Feld durchaus noch interessante Geschichten zu recherchieren...

Trubel um Teltschik

Noch ein letzter Hinweis zur Sicherheitskonferenz: In der Süddeutschen Zeitung kann man auch die Debatte über folgende Äußerungen von Horst Teltschik, Organisator der Sicherheitskonferenz und Ex-Berater von Helmut Kohl, nachlesen:

“Es ist die Tragik jeder Demokratie, dass bei uns jeder seine Meinung öffentlich vertreten darf und dass man politisch Verantwortliche in einer Demokratie schützen muss. In Diktaturen würde so etwas nicht passieren.‘‘

Samt dem Relativierungsversuch von Teltschik.

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http://de.indymedia.org/2006/09/156842.shtml

Film: Gesteuerte Demokratie?

Steven Hutchings 11.09.2006 01:53 Themen: Kultur Medien Militarismus

Der Film ist im Rahmen einer Diplomarbeit an der Hochschule für Gestaltung, Offenbach am Main entstanden. Untersucht wird die Informations- und Medienarbeit der Bundeswehr. Ausgehend vom 'sicherheitspolitischen Paradigmenwechsel' am Ende des kalten Krieges werden Kontinuitäten und Wechsel in diesem Bereich betrachtet.
http-Download bei video.indymedia.org:

Filesharing-Links bei v2v.cc (bittorrent, ed2k, magnet): 

Onlineformat: OggTheora (384x288) 
kostenloser Player unter www.videolan.org/vlc (VLC)Dateigröße:182,7 MB



Anhand von Zeitzeugeninterviews mit Soldaten aus Einheiten für ´Psychologische Kampfführung` (PSK) bzw. ´Psychologische Verteidigung` (PSV) wird deren vornehmlich gegen die DDR gerichtete Propaganda- und Zersetzungstätigkeit beschrieben. Der Apparat der PSK bzw. PSV wurde einhergehend mit einer Skandalisierung seiner verdeckt ausgeführten Ausforschungs- und Einwirkungstätigkeit im bundesdeutschen Inland zum Ende der 80er Jahre aufgelöst. Über eine sogenannte ´Studiengesellschaft für Zeitprobleme e.V.` waren getarnte Propagandaprodukte der Bundeswehr an vermeintlich wehrkritische Zielgruppen in der BRD lanciert worden.

Aus der in Waldbröl angesiedelten ´Akademie für Psychologische Verteidigung` wird 1990 die ´Akademie für Information- und Kommunikation der Bundeswehr`(AIK). Spezialisten der PSV übernehmen die leitenden Positionen der neuen Dienststelle, die dem Presse- und Informationsstab des Verteidigungsministeriums zugeordnet wird. Sie untersteht direkt dem zeitgleich im PR-/ Infostab neu gegründeten ´Grundsatzreferat` und dient als ´Thinktank` für die Öffentlichkeitsarbeit im Inland. Wie der Film belegt, werden wesentliche Tätigkeiten der PSV-Akademie fortgeführt, allerdings mit neu formuliertem Auftrag und mit neuen Zielsetzungen. Das Führungspersonal der 1994 nach Strausberg bei Berlin verlegten AIK gibt im Film ausführlich Auskunft über Auftrag und Tätigkeiten der Akademie. 

Eine wesentliche Aufgabe bestand nach der Wende in der Grundlagenbeschaffung zur sicherheitspolitischen ´Umorientierung` der ehemaligen DDR-Bevölkerung. Neben der Ausbildung von Fachpersonal der Presse- und Informationsarbeit wird auch heute im Rahmen von Seminaren ein ´sicherheitspolitischer Dialog` mit ´interessierten Bürgern` geführt. Dabei handelt es sich vornehmlich um sogenannte Multiplikatoren wie Journalisten; Richter, Staatsanwälte und Polizisten werden zu Seminaren über die ´Vernetzung von innerer und aüßerer Sicherheit` eingeladen. Um weitere Bevölkerungskreise zu erreichen, arbeitet man in Strausberg mit Wissenschaftlern, Universitätsdozenten und Lehrern zusammen. 

Neben der AIK ist aus der ´Psychologischen Verteidigung` auch die ´Truppe für Operative Information` (OpInfo) hervorgegangen. Bezeichnenderweise trägt sie im NATO-Sprachgebrauch weiterhin die Bezeichnung ´Psychological Operations` (PSYOPS). Die bundesdeutschen PSYOPS-Truppen sind heute in Mayen stationiert. Dem dortigen Zentrum Operative Information (ZOpInfo) ist ein zusätzliches ´Einsatzbataillon` in Koblenz unterstellt. Soldaten der OpInfo werden seit 1993/94 im Rahmen von bewaffneten Auslandsoperationen der Bundeswehr eingesetzt und wirken mit propagandistischen Mitteln auf Zielgruppen im Einsatzgebiet ein.

Im Film wird hauptsächlich die Tätigkeit des ZOpInfo im ´Dezernat Video` dargestellt. Die OpInfo verfügt über weitere Kapazitäten in den Bereichen ´Print`, ´Radio`, ´Neue Medien` ´Lautsprecher` und in der Direktkommunikation. Im ZOpInfo ist auch das ´Dezernat Einsatzkamera` (Combat Camera) angesiedelt. Sogenannte Einsatzkamerateams (EKT) dokumentieren weltweit Einsätze der Bundeswehr und erstellen oft schon vor der Ankunft regulärer Truppen Lageberichte für Führungsstab und Einsatzführungskommando der Bundeswehr sowie für das Verteidigungsministerium. ´Auch eine Weitergabe an die Medien wäre denkbar, wenn es ein konkretes Interesse gäbe`, hieß es bereits im Mai 2003 in der Publikation Bw Aktuell. Ganz sicher jedoch wird nach entsprechender Freigabe Material der EKTs an den internen Fernsehsender der Bundeswehr, BwTv weitergegeben. Die EKTs können bei Bedarf live aus dem Einsatzgebiet senden.

BwTv wiederum ist Teil des ´internen Medienmix` der Bundeswehr und wird verschlüsselt per Satellit ausgestrahlt, da den Streitkräften eine direkte Einflußnahme auf die eigene Bevölkerung gesetzlich verboten ist. Das Studio von BwTv ist im Hause der Informations- und Medienzentrale (IMZBw) der Bundeswehr in St. Augustin bei Bonn untergebracht. Hier wird neben der Koordinierung der Mitarbeiterkommunikation auch der Öffentlichkeitsarbeit zugearbeitet; die IMZBw verwaltet das Bildarchiv der Bundeswehr und beherbergt Onlineredaktionen für verschiedene Webseiten der Bundeswehr.

BwTv wurde 2002 mit Hilfe der PR-Agentur Atkon AG aufgebaut. Wie die Recherchen zum Film ergaben, wurde eine 100% Tochterfirma der Atkon AG, die Atkon TV Service GmbH damit beauftragt, sendefertige Fernsehbeiträge an private und öffentlich-rechtliche Fernsehanstalten abzugeben. Beiträge aus Material von Bundeswehr TV werden dazu über die Internetseite www.tvservicebox.de angeboten und können dann in Sendequalität bestellt werden. Die Filme bestehen aus ungekennzeichnetem Material - ein Verweis auf die Quelle wird der abnehmenden Redaktion überlassen. Völlig unklar bleibt für den unbedarften Betrachter, ob nicht auch Videomaterial der EKTs via BwTv in die Beiträge gelangt.

Die Informations- und Medienzentrale besteht darauf, dass durch dieses Vorgehen keinesfalls gegen das Verbot eines Staatsfernsehens verstoßen würde. Vielmehr könnten die Journalisten die Beiträge redaktionell bearbeiten. Gemeint ist damit vor allem, dass die Beiträge auf die entsprechenden Magazinformate zugeschnitten werden dürfen. Wie die Geschäftsbedingungen der Servicebox zeigen, ist eine "inhaltliche Sinn- und Zweckentfremdung" ausdrücklich untersagt. Atkon TV Service verfügt über ein Netzwerk von Journalisten, die im Auftrag der Bundeswehr mit Themenvorschlägen, Kontakten und Material beliefert werden (´Media Relations`)

Erst kürzlich hat das Verteidigungsministerium ein Besuchsverbot u. A. für Journalisten und Parlamentarier beim Afghanistan-Kontingent erlassen. Desweiteren werden Informationen über Anschläge auf das Kontingent nur noch auf direkte Anfrage der Presse herausgegeben. Einer freien Berichterstattung über die Bundeswehr und ihre Einsätze soll mit den dargestellten Beeinflussungs- und Zensurmaßnahmen augenscheinlich das Wasser abgegraben werden. Offenbar fürchten Ministerium und militärische Führung, die von der AIK als ´konditional` bewertete Zustimmung der Bevölkerung zum Auftrag der Bundeswehr im Falle von Berichten über Verluste oder intensive Kampfhandlungen rasch zu verlieren. 


Kontakt & Feedback: s.hutchings@web.de

Länge: 62´14 min
Entstehungsjahr: 2006 (Dreh Mai-Juni)
Drehformat: DVC Pro 25/ MiniDV, 4:3

http-Download bei video.indymedia.org:

Filesharing-Links bei v2v.cc (bittorrent, ed2k, magnet):

Onlineformat: OggTheora (384x288) 
kostenloser Player unter www.videolan.org/vlc (VLC)Dateigröße:182,7 MB

Die Rechte Dritter bleiben von der Lizensierung unberührt. 
Zitate: ´Verteidigungswaffe Psychologie ` - WDR Landesspiegel, Westdeutscher Rundfunk/ Minow Film 1989


Mitwirkende:

Oberst i.G. Thomas Beier - Kommandeur Informations- und Medienzentrale der Bundeswehr (St. Augustin)
Oberleutnant Martin Besinger - Redakteuroffizier Einsatz Kamera Trupp (EKT), Zentrum Operative Information (Mayen)
Oberstleutnant Reinhard Busch - Leiter Bundeswehr TV, Informations- und Medienzentrale der Bundeswehr (St. Augustin)
Oberstleutnant Hartmut Dressel - Leiter Zielgruppenanalyse Zentrum Operative Information (Mayen), ehem. Soldat im PSV-Bataillon Clausthal-Zellerfeld
Claudia Haydt - Soziologin und Religionswissenschaftlerin, Informationsstelle Militarisierung (IMI) www.imi-online.de
Dipl. Psych. Dr. Hans-Victor Hoffmann - Wiss. Direktor FB Kommunikation der Akademie für Information und Kommunikation der Bundeswehr (Strausberg)
Oberstleutnant Michael Kötting - Leiter Bereich Lehre der Akademie für Information und Kommunikation der Bundeswehr (Strausberg)
Oberst i.G. Horst Matzeit - 1988 Kommandeur der Akademie für Psychologische Verteidigung (Waldbröl) 
(Archivmaterial)
Dr. Alfred Mechtersheimer - ehem. Ausbildungsoffizier an der Schule für Psychologische Kampfführung (Schloß Alfter bei Bonn), dann u.A. MdB (Die Grünen) und Gründer der rechtsextremen Deutschland-Bewegung 
(Archivmaterial)
Thomas Mielke - Schriftsteller und Werbefachmann (Berlin), ehem. Soldat der Psychologischen Kampfführung 
Hauptfeldwebel Stephan Schwaldat - Kameramann EKT, ZOpInfo Bw (Mayen)
Oberst Rainer Senger - seit 11/2002 Kommandeur der Akademie für Information und Kommunikation der Bundeswehr (Strausberg)
Dr. Olaf Theiler - Leiter FB Information der Akademie für Information und Kommunikation der Bundeswehr (Strausberg)


weitere Stichworte: Dr. Eberhard Taubert, Dr. Werner Marx, Franz Josef Strauss, Helmut Kamphausen, Jörg Lolland, Ortwin Buchbender, Horst Schuh, Briefzensur, Zoll- und Devisenverbringungsstelle Hannover, Organisation Gehlen, Bundesnachrichtendienst, Prof. Renate Riemeck, Deutsche Friedensunion, Friedensbewegung, Ostermärsche, Impuls TV, Münchner Sicherheitskonferenz 2006, SIKO






Logik der Dekomposition 

16.02.2007

MADRID/PARIS/LONDON/BERLIN (Eigener Bericht) – Die von Berlin und Washington forcierte Abspaltung des Kosovo ruft Befürchtungen vor Sezessionsbewegungen in ganz Europa hervor. Sollte es zu einer forcierten Ausgründung des Kosovo kommen, um der serbischen Provinz Eigenstaatlichkeit zu verleihen, werde man anderswo ähnlich vorgehen, drohen völkische Organisationen unter Hinweis auf das "Selbstbestimmungsrecht". Betroffen sind unter anderem Spanien, Frankreich, Griechenland sowie Großbritannien. Insbesondere spanische Gruppierungen, die sich als "Basken" verstehen, streben die Auflösung des Zentralstaates an und beanspruchen Hoheitsrechte auch auf französischem Territorium. Durch Zerschlagung der französischen Republik in völkische Parzellen soll ein einheitliches "Baskenland" entstehen. Um die territoriale Einheit Spaniens zu wahren, laufen konservative Kreise in Madrid gegen die Abspaltung des Kosovo Sturm. Die Folgen der Kosovo-Sezession werden Berlin angelastet. Vorfeldorganisationen der deutschen Außenpolitik stehen mit den völkischen Autonomisten in direktem Kontakt. In Paris weisen Kritiker auf die langjährige deutsche Zuarbeit für französische Separatisten hin, die mit Dezentralisierungsprojekten, grenzübergreifenden Euroregionen und der Förderung sogenannter Regionalkulturen den Nährboden für entschlossene Autonomieforderungen geschaffen hat. Die Abspaltung des Kosovo ist der "Einstieg in die Logik der Dekomposition der europäischen Staaten" und läuft letztlich auf eine Chaotisierung des internationalen Völkerrechts hinaus, warnt der französische Politikwissenschaftler Dr. Pierre Hillard im Gespräch mit dieser Redaktion.

Faktische Anerkennung

Kommentare in der spanischen Presse warnen eindringlich vor einer endgültigen Abspaltung des Kosovo, wie sie Berlin und Washington gegenwärtig vorantreiben. Die "schwerwiegendste Konsequenz" einer Sezession ist "die faktische Anerkennung des Rechtes auf Selbstbestimmung in Europa", urteilt die konservative Tageszeitung ABC, die der oppositionellen konservativen Partei nahe steht.[1] Unausweichliche Folge wäre eine Intensivierung von "Forderungen irredentistischer Nationalismen in anderen Teilen des Kontinents, vor allem in Russland, aber auch in Spanien", urteilt das Blatt. Erst kürzlich hat der frühere spanische Ministerpräsident José María Aznar in Washington eindringlich von der Anerkennung einer kosovarischen Eigenstaatlichkeit abgeraten – mit derselben Begründung, aber offensichtlich vergeblich.

"Basken, Katalanen, Galizier"

Tatsächlich streben Sezessionsbewegungen in weiten Teilen Nordspaniens nach umfangreichen Autonomierechten oder fordern explizit den Austritt aus dem spanischen Staatsverband. Am schwersten betroffen sind Teile des Grenzgebiets zu Frankreich, in denen bewaffnete Separatisten einen eigenen Staat gründen wollen ("Baskenland").

Erst kürzlich fielen ihren Bombenanschlägen zwei Immigranten zum Opfer.[2] Im Nordosten des Landes bemüht sich eine Abspaltungsbewegung um Souveränität für ein eigenständiges "Katalonien". Die dortige Bevölkerung gehöre einer separaten "Nation" an, heißt es seit Verabschiedung eines neuen Autonomiestatuts im vergangenen Sommer.[3] Auch in Nordwestspanien ("Galizien") werden die Autonomieforderungen lauter. Dort bemühen sich Anhänger einer angeblichen "regionalen Identität" um neue Sonderrechte und wollen zur Förderung ihrer "Selbstbestimmung" eine eigene Uhrzeit einführen – gegenüber der Madrider Uhrzeit um eine Stunde verschoben. Langfristig wird auch hier das Verlangen nach Abspaltung nicht ausgeschlossen.[4] (Karte: Sowohl Spanien als auch Frankreich sollen ihre zentralstaatliche Ordnung aufgeben, um den "Regionen" und "Nationen" das ihnen zukommende "Selbstbestimmungsrecht" zu gewähren. Wie die Karte zeigt, laufen diese Forderungen auf eine Ausgründung mehrerer Kleinstaaten hinaus, die sowohl Frankreich wie auch Spanien auf Teilgebiete reduzieren. Zur Großansicht.)

Blut und Boden

In völliger Verkehrung der UNO-Charta berufen sich sämtliche Separatisten auf ein angebliches "Selbstbestimmungsrecht", das sie wegen ihres Minderheitenstatus in Anspruch nehmen wollen. Um als Minorität gelten zu können, werden Besonderheiten der blutlichen Herkunft, Sprache und Kultur ins Feld geführt, die ein Zusammenleben mit der Mehrheitsbevölkerung unzumutbar machen würden, so in Schottland oder Wales. In Spanien sei es für die "Basken" nicht länger hinnehmbar, dass die spanische Stadt Bilbao auch Bilbao heißt, statt einen rein baskischen Namen anzunehmen. Ähnliche Auseinandersetzungen, die anfangs lediglich kulturelle Inhalte haben, läuten weitergehende Kämpfe um hoheitliche Rechte ein (eigene Fahne, eigene Steuern) und enden in der Regel mit Ansprüchen auf Staatsgründung. Ziel ist die völkerrechtliche Einfriedung ethnisch reiner Zonen, in denen die Abstammungsminderheit ihre vermeintliche "Identität" bewahrt - um auf eigenem Boden zur Mehrheit zu werden.

Angriff

In fast sämtlichen europäischen Sezessionsgebieten werden diese Prozesse mit terroristischen Mitteln vorangetrieben. Während die direkten Gewalttäter aus dem Milieu der Benachteiligten kommen und den völkischen Nationalismus sozial verklären, werden die organisatorischen Fäden von den regionalen Eliten gezogen. Ihnen geht es um die Ausweitung ihrer Pfründe, die sie mit den Eliten des jeweiligen Zentralstaats nicht länger teilen wollen. Auf ideeller Ebene wird der Anspruch auf "Selbstbestimmung" verbreitet, obwohl bekannt ist, dass die entsprechenden Rechtsvorschriften der UNO-Charta nicht von Minderheitenkollektiven in Anspruch genommen werden dürfen, sondern ausschließlich dem Schutz des jeweiligen Individuums dienen. Es soll vor Übergriffen der Mehrheit bewahrt werden. Diese Unterscheidung will verhindern, was im Zuge der Kosovo-Politik um sich greift: der Angriff auf Zentralstaaten unter Berufung auf kollektive Minderheitenrechte.

Druck

Während die konservative Opposition in Madrid noch davor warnt, mit der Abspaltung des Kosovo einen Präzedenzfall für die spanischen Irredentismen zu schaffen, versucht die spanische Regierung die Folgen einzugrenzen. Wie der spanische Verteidigungsminister José Antonio Alonso behauptet, handelt es sich bei der südserbischen Provinz um einen nicht vergleichbaren "Einzelfall". "In Spanien haben wir eine gut funktionierende Verfassung", erklärte Alonso in der vergangenen Woche; zudem sei das Land "von jedem ethnischen Auseinanderstreben" weit entfernt.[5] Die Behauptung, die die offenkundigen Sezessionsvorhaben in großen Teilen Spaniens ignoriert, folgt der Unterzeichnung der "NATO Riga Summit Declaration" im vergangenen November, die Ministerpräsident José Luís Rodriguez Zapatero unter deutsch-amerikanischem Druck gebilligt hatte – trotz eines Passus, der die Sezession des Kosovo auch ohne Zustimmung der Belgrader Zentralregierung erlaubt.[6]

Einstieg

Befürchtungen, die territoriale Integrität des eigenen Staates auf die Dauer nicht verteidigen zu können, werden auch in Frankreich laut. Die Anerkennung der kosovarischen Eigenstaatlichkeit sei der "Einstieg in die Logik der Dekomposition der europäischen Staaten", urteilt der französische Politikwissenschaftler Dr. Pierre Hillard.[7] Wie Hillard in Erinnerung ruft, unterstützt die Pariser Regierung die Kosovo-Politik der EU, obwohl die Folgen für Frankreich offenkundig sind. Separatistische Kräfte, die auf Korsika oder in der Bretagne seit Jahren aktiv sind und mit dem bekannten Terror vorgehen, dürfen ihre Ansprüche in Zukunft auf einen völkerrechtlichen Präzendenzfall stützen - nach Vorbild der kosovarischen "Minderheit" . Im Süden Frankreichs stehen eine "baskische" und eine "katalanische" Sezessionsbewegung unter dem Einfluss spanischer Schwesterbewegungen und drohen mit Austritt aus dem Zentralstaat.

Blockbildung

Die Politik der Regionalisierung, die auf deutsches Betreiben europaweit durchgesetzt wird, schafft günstige Voraussetzungen für Sezessionsbewegungen, sagt Pierre Hillard im Gespräch mit dieser Redaktion: Sie stärkt angebliche "regionale Identitäten" und verbessert die Ausgangsbedingungen für Abspaltungsversuche. Dasselbe gelte für die sogenannten Euroregionen, deren Entstehung die Bundesrepublik seit langem fördert und auf deutschem Staatsgebiet zentral steuert. Wie Hillard in Erinnerung ruft, steht die Gründung einer Euroregion bevor, in der die von baskischen Separatisten beanspruchten Teile Spaniens und Frankreichs zusammengeführt werden. "Auf diese Weise können die Basken auf beiden Seiten der Pyrenäen einen Block bilden".[8]

Anschluss

"Wenn dieser Prozess abgeschlossen ist, dann werden wir das Ende der europäischen Nationalstaaten erleben", sagt der Politikwissenschaftler im Gespräch mit dieser Redaktion. Eine Ausnahme dürfte freilich der deutsche Nationalstaat bilden. Eine Landkarte, die die baskische Separatistenpartei Herri Batasuna vor einigen Jahren veröffentlicht hat, zeigt ein nach völkischen Kriterien zergliedertes Europa.[9] Darin enthalten sind ein baskischer Nationalstaat sowie ein beinahe um die Hälfte geschrumpftes Frankreich. Allein Deutschland darf sich auf den Anschluss heutiger Nachbarterritorien freuen: Teile Belgiens und Frankreichs werden wegen des dort residierenden Deutschtums Berlin zugeschlagen.


Bitte lesen Sie das vollständige Interview mit Pierre Hillard.

Den dritten Teil unseres Schwerpunkts über die westliche Kosovo-Politik und ihre Folgen bringen wir am kommenden Sonntag.
Das Kartenmaterial entstammt den Wikimedia Commons und steht unter der GNU-FDL. Bearbeitung: german-foreign-policy.com.

[1] Kosovo: el riesgo de la autodeterminación humanitaria; ABC 13.02.2007
[4] Noch eine spanische "Nation"; Frankfurter Allgemeine Zeitung 05.02.2007
[5] España advierte que "no tiene sentido" comparar el País Vasco con Kosovo; ABC 10.02.2007
[6] s. dazu Abmontiert
[7], [8] s. dazu unser Interview mit Pierre Hillard
[9] s. dazu Ethno-Fraktion

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Führende Rolle 

16.02.2007

PARIS - Über die Folgen der von Deutschland forcierten Sezession des Kosovo sprach german-foreign-policy.com mit Dr. Pierre Hillard. Hillard, Spezialist für die deutsch-französischen Beziehungen, ist docteur en science politique und Autor mehrerer Publikationen über die Zerschlagung von Staaten nach ethnischen Kriterien. Im Jahr 2001 erschien sein Werk "Minorités et régionalismes dans l'Europe Fédérale des Régions: Enquête sur le plan allemand qui va bouleverser l'Europe" (Paris). 2005 veröffentlichte er "La décomposition des nations européennes. De l'union euro-Atlantique à l'État mondial" (Paris).

german-foreign-policy.com: Mit immer neuen Kampagnen versuchen spanische Separatisten, das sogennante Baskenland aus der territorialen Einheit mit Madrid zu lösen. Betreffen diese Forderungen auch Frankreich?

Dr. Pierre Hillard: Es gibt längst eine größere Eigenständigkeit der spanischen Regionen. Im Baskenland und in Katalonien wurden aufgrund von Autonomieforderungen Referenden durchgeführt. Und infolge des katalonischen Referendums im Juni 2006 sind die regionalen Zuständigkeiten der Provinzregierung in Barcelona erweitert worden. Gleichzeitig erkennt ein neues Statut an, es gebe eine "katalonische Nation". Auf französischer Seite sind die baskischen und katalonischen Unabhängigkeitsbewegungen weniger stark; sie stehen unter dem Einfluss ihrer Kameraden südlich der Pyrenäen. Die Regierung Raffarin hat den französischen Unabhängigkeitsbewegungen nachgegeben, als es 2003 zur Bewilligung politischer und finanzieller Kompetenzen für die Regionen kam. Diese Dezentralisierung hat den Weg für größere Ansprüche der Basken und der Katalanen frei gemacht.

gfp.com: Welche Haltung nimmt der französische Staat ein? Gibt es Erwägungen, diese Gebiete abzutreten oder ein ethnisches "Baskenland" unter Einfluss französischer Territorien zumindest zu tolerieren?

Hillard: Die Anerkennung sogenannter regionaler Identitäten wird immer wichtiger. Die drei bedeutendsten politischen Parteien Frankreichs, die Sozialistische Partei von Ségolène Royal, die UMP von Nicolas Sarkozy und die UDF von François Bayrou, sie alle haben versprochen, die Charta der Regional- oder Minderheitensprachen zu ratifizieren, wenn ihr jeweiliger Kandidat die Präsidentschaftswahlen 2007 gewinnen sollte. Hier hat die deutsche Arbeitsgemeinschaft Europäische Grenzregionen (AGEG) mit ihren Konzepten der grenzüberschreitenden Kooperation Pate gestanden.[1] In dem offiziellen Programm der AGEG vom 1. Dezember 1995 heißt es, dass das Ziel der grenzüberschreitenden Kooperation darin liege, die Grenzen zu überwinden, "zumindest ihre Bedeutung zu einer rein administrativen Grenze zu verringern".

Demzufolge wird die französisch-spanische Staatsgrenze immer "administrativer". Im Jahre 2004 haben die Präsidenten der spanischen Regionen (Aragon, Katalonien und die Balearen) und der französischen Regionen (Midi-Pyrénées und Languedoc-Roussillon) beschlossen, die "Euroregion Pyrenäen-Mittelmeer" (www.euroregion-epm.org/) zu gründen. Es ist ebenfalls eine Euroregion vorgesehen, die das spanische Baskenland und Navarra mit Aquitanien vereint. Das bedeutet, dass die Basken beiderseits der Pyrenäen einen einzigen Block bilden. Die französische Regierung soll auf diese Weise in die Lage gebracht werden, die "Identität" der Franzosen baskischer Sprache zu fördern - auf Kosten der nationalen Einheit. Die Euroregionen ermöglichen die Zerstörung der Autorität der Staaten. Die Gründung der adriatischen Euroregion im Februar 2006 zum Beispiel dient eindeutig diesem Ziel (www.adriaticeuroregion.org/en/).

gfp.com: Wenn die französische Regierung diese ablehnende Haltung einnimmt, wie kann sie dann der faktischen Sezession des Kosovo zustimmen, die unmittelbar bevorsteht? 

Hillard: Die französische Elite stellt sich immer weniger gegen diese Politik. Sie setzt langsam aber sicher die ethno-regionalistischen Maßnahmen um, wegen des Drucks aus Europa und wegen der führenden Rolle Deutschlands bei der Formulierung aller politischen Texte, die die nationalen Territorien zerstören – durch Regionalisierung, Ethno-Privilegien, Grenzabbau usw. Frankreich ist im Vergleich zu anderen Ländern lediglich im Verzug. Die Anerkennung - früher oder später - der Unabhängigkeit des Kosovo ist Teil dieser Logik: Auflösung der europäischen Staaten. Die staatlichen Stellen Frankreichs werden sich dem beugen, denn die Macht ist nicht mehr in Paris, sondern in Brüssel.

gfp.com: Die verschiedenen Separatismen im ehemaligen Jugoslawien konnten sich auf die konsequente deutsche Politik der Regionalisierung stützen. Trifft das auch auf französische Abspaltungsbewegungen zu?

Hillard: Im Falle Frankreichs gibt es ein Beispiel bei dem es sicher ist, und zwar Korsika. Im Juli 2003 hat die französische Regierung ein Referendum organisiert, damit die Insel mehr politische Befugnisse erhält. Dieses Referendum ist fehlgeschlagen. Wenn das Ja gewonnen hätte, dann hätten Maßnahmen eingeleitet werden müssen, um das "Korsische" zu stärken, das heißt Maßnahmen, die es ermöglicht hätten, die korsische "Identität" auf Kosten der französischen Staatsbürgerschaft zu stärken. Die politischen Befugnisse des korsischen Regionalrates wären auf Kosten der Autorität des französischen Staates gestärkt worden. Diese Maßnahmen wurden bereits im August 1998 am Beispiel der Åland-Inseln diskutiert (finnische Inseln, aber schwedischsprachig). Unter der Führung des deutschen ECMI (European Center for Minority Issues, Flensburg) und von Stefan Troebst, damals dessen Vorsitzender, wurde vom 25. bis zum 30. August ein Kolloquium mit allen Vertretern der korsischen Unabhängigkeitsbewegung organisiert (Jean-Guy Talamoni, Edmond Simeoni usw.). Ziel war es, Maßnahmen zu diskutieren, deren Einführung die korsische "Identität" stärken könnten.[2]

gfp.com: Die Sezession des Kosovo wird seit vielen Jahren von Deutschland aktiv gefördert. Gibt es auch unmittelbare deutsche Unterstützung für französische Separatisten?

Hillard: In meinem Buch "Minderheiten und Regionalismen" habe ich dargelegt, dass das deutsche Innenministerium über die FUEV (Föderalistische Union Europäischer Volksgruppen) Hunderte von Unabhängigkeitsbewegungen in Europa unterstützt. Im Falle Frankreichs sind das: Die "Savoyer Liga", die "Volksunion Elsass-Lothringen", die "Partei für die Organisation einer freien Bretagne" und das regionale "Aktionskomitee der Bretagne". In meinem Buch [3] habe ich eine offizielle Liste aller Namen und aller Adressen der Teilnehmer dieser Unabhängigkeitsbewegungen beim Kongress der FUEV 1999 veröffentlicht. An diesem Kongress nahm ein damaliger hoher deutscher Beamter aus dem zuständigen Bundesministerium des Innern teil, Rolf Gossmann. Neben der FUEV nicht geringzuschätzen ist auch die Fraktion der Grünen/Freie Europäische Allianz im Europa-Parlament. Sie vereint ungefähr dreißig Autonomiegruppen, die unter dem Einfluss von Berlin stehen. Im Falle Frankreichs findet man dort: Die "Demokratische Union der Bretagne", die "Union des elsässischen Volkes" oder auch die "Okzitanische Partei".[4]

gfp.com: Vom baskischen und vom katalanischen Separatismus ist auch Spanien betroffen. Sind die Regierungen in Madrid und Paris dem selben äußeren Regionalisierungs-Einfluss ausgesetzt?

Hillard: Auch wenn der Prozess der Regionalisierung in Spanien weiter fortgeschritten ist als in Frankreich, die französische Regierung nimmt europäische Texte an, die das Auseinanderfallen des Landes vorbereiten. So hat die Nationalversammlung am 30. Juni 2006 eine Charta für lokale Autonomie verabschiedet, ein deutsch-europäisches Dokument [5], das mittlerweile den allgemeinen Rahmen für die französischen lokalen Gebietskörperschaften bildet, auf Kosten der Zentralgewalt. Aber bedenklicher ist, dass die französische Regierung über den Innenminister Nicolas Sarkozy am 17. Januar 2007 im Senat einen Gesetzentwurf angenommen hat, der eine probeweise Umstellung bei der Mittelvergabe des europäischen Strukturfonds vorsieht.[6] Wenn diese Maßnahme umgesetzt werden sollte, werden die Regionen die Strukturfonds selber mit Brüssel aushandeln können - ohne Rücksicht auf die Zentralgewalt, das heißt die Präfekten. Gestärkt durch diese finanzielle Unabhängigkeit, werden die französischen Regionen leichter Maßnahmen beschließen können, die dem angeblichen Minderheitenschutz dienen, aber womöglich darauf hinauslaufen, die Bildung grenzüberschreitende Territorialeinheiten zu beschleunigen - zugunsten spanischer, italienischer oder deutscher Autonomisten. Das sind dann die von der Zentralgewalt unabhängigen Euroregionen. Wenn dieser Prozess abgeschlossen ist, erleben wir das Ende der europäischen Nationen.


[1] Die AGEG in Gronau/Nordrhein-Westfalen steuert die europaweite Gründung von Euroregionen.
[2] "Autonomies insulaires, vers une politique de la différence pour la Corse? " Ajaccio, Editions Albiana, 1999.
[3] Pierre Hillard, "Minorités et régionalismes", Paris, Editions François-Xavier de Guibert, 4è édition, 2004, annexe 34.
[4] Pierre Hillard, "La décomposition des nations européennes", Paris, Editions Françoix-Xavier de Guibert, 2005, annexes 5 et 21.
[5] Rapport sur "Les institutions régionales en Europe", Strasbourg, Editions Congrès des Pouvoirs Locaux et Régionaux de l’Europe, Quinzième session, Strasbourg, 10-12 juin 1980 (CPL (15) 5 Final), projet de résolution présenté par la Commission des structures et des finances locales, rapporteur M. A Galette (Allemagne).
[6] Rapport n°161 (2006-2007) de Mme Catherine Troendle, fait au nom de la commission des lois, déposé le 17 janvier 2007, Sénat.