Informazione

Liste de diffusion : Damnés du Kosovo 


Faut-il tuer la Serbie ? 

Le processus est bien entamé, mais il n’est pas fini. L’opinion publique est à tel point préparée à sa mise à mort que personne, dans aucun pays, ne pourra crier au scandale. La Russie ? Pensez vous, la Russie s’occupe de ses affaires ! La Serbie ne vaut pas la peine de se fâcher contre «l’ordre planétaire établi». 

 

Utilisée comme une mèche pour allumer la Grande Guerre de 14-18, la Serbie, aujourd'hui agonisante, est goulûment observée par les pays des ex-Empires disloqués par ce conflit. Son rôle de petit caillou dans la grosse chaussure d’Hitler et de ses alliés balkaniques, n’a plus de valeur marchande dans le nouveau marketing politique. En s’opposant à la dislocation de la Yougoslavie, elle s'est attirée les foudres du Nouvel Ordre Mondiale et ses investisseurs, ses banquiers et autres gestionnaires de bulles financières qui vont pouvoir piller plus facilement ce territoire...  balkanisé. 

La réaction de Milosevic face à l’insurrection des Albanais du Kosovo a finalement donné le feu vert aux missiles de l’OTAN pour détruire, durant trois mois, des ponts et des ateliers de production dans tous les coins de la  Serbie. La mort, la désolation et la misère ont hanté ce pays maudit par tous. Des centaines de milliers de réfugiés ont fuit la Croatie, la Bosnie et le Kosovo pour se réfugier dans la Mère Patrie où ils ont croupi dans des gymnases et des salles de fêtes de villages, abandonnés par tous. 

Milosevic ayant été désigné unique coupable de cette tragédie collective, la «communauté internationale» a posé ses conditions : «Il ne peut y avoir de libération du peuple sans contribution du peuple.» Grâce au «soulèvement d'octobre» qui a balayé cet ennemi public numéro 1, Carla del Ponte a eu la joie de détenir dans ses geôles le «Boucher des Balkans». Enfin, la sortie du tunnel pour les citoyens de ce petit pays ? 

Mais non, pas si vite ! Il faut maintenant amputer la Serbie du Kosovo, soit 15% de son territoire. En pourquoi s’arrêter en si bon chemin, sachant que la composition de la population serbe ressemble étrangement à celle de l’ex-Yougoslavie. Pour quelle raison des Hongrois, des Croates, des Bosniaques, des Roms ou d’autres n’auraient- ils pas le droit de demander l’indépendance et se séparer ainsi de la Serbie ? L’étymologie du terme balkanisation aurait ainsi trouvé son sens profond. L’existence de différentes religions dans ce pays multiethnique pourrait être une autre clef pour ouvrir la porte de nouvelles démarches d’indépendance...

L’Histoire reconnaîtra les erreurs des uns et des autres, mais hélas, elle n’empêchera pas l’asphyxie de ce peuple fier et assoiffé de liberté, aujourd’hui abandonné par tous. 

Dragan Kotarac


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Comité pour la paix en (ex)-Yougoslavie
http://www.gael.ch/collectif/
CP 915 - 1264 St-Cergue
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L'UCK DEGLI IRANIANI


http://www.voltairenet.org/article146940.html
11 AVRIL 2007

Un nouveau groupe terroriste en Iran, commandité par la CIA
Alors que depuis plusieurs semaines, les pressions contre l’Iran se
sont accrues, la chaîne d’information américaine ABC News a confirmé
le 5 avril 2007 les nouvelles activités terroristes de la CIA en Iran.

On sait que depuis 1981, la CIA équipe et finance les Moudjahiddins
du peuple ( http://www.voltairenet.org/article12526.html ) contre la
révolution islamique ; après la défaite des Soviétiques en
Afghanistan, la CIA a utilisé les mercenaires d’Oussama Ben laden
pour contrer l’influence chiite en Asie centrale ; plus récemment, la
CIA a pris le contrôle des mouvements séparatistes de l’Arabistan
(c’est-à-dire de la région arabe de l’Iran). Désormais, la CIA
manipule aussi le Jundullah, un groupe qui a commis plusieurs
attentats mortels à l’intérieur de l’Iran. Originaire du
Baloutchistan, région pakistanaise frontalière, le groupe terroriste
dirigé par Abdel-Malik Regi serait resté en relation étroite avec les
États-unis depuis 2005. Kidnapping, attentats... ses actions ont
entraîné la mort de plusieurs citoyens ordinaires, aussi bien que de
soldats et d’officiers. L’un de ses attentats, qui avait causé la
mort de 11 gardiens de la révolutions iraniennes dans la ville de
Zehland en février 2006, a même été revendiqué publiquement par son
leader, Regi, lors d’un entretien télévisé.



Il Profitto “über Alles”! Il Profitto innanzitutto!
Le Corporations Americane ed Hitler 

Review Article
by Dr. Jacques R. Pauwels


Nota Editoriale: Questo articolo è stato pubblicato da Global Research l’8 giugno 2004.                  

Mentre l’America conduce la guerra in Medio Oriente, questo articolo incisivo e frutto di ricerche accurate da parte di Jacques Pauwels fornisce una comprensione storica delle relazioni fra guerra e profitto.

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)


Negli Stati Uniti, la Seconda Guerra Mondiale è considerata generalmente come “la buona guerra”.  

In contrasto con molte delle guerre dell’America, per ammissione generale ritenute perniciose, come le Guerre Indiane, quasi dei genocidi, e come il feroce conflitto nel Vietnam, la Seconda Guerra Mondiale è largamente celebrata come una “crociata”, nella quale gli USA hanno combattuto incondizionatamente dalla parte della democrazia, della libertà e della giustizia, contro le dittature.  
Non fa meraviglia che il Presidente George W. Bush ami paragonare l’attuale “guerra contro il terrorismo” con la Seconda Guerra Mondiale, insinuando che l’America ancora una volta si colloca dalla parte giusta in un conflitto apocalittico tra il Bene e il Male. 
Comunque, le guerre mai hanno presentato un lato scuro e l’altro completamente candido, come Mr. Bush vorrebbe farci credere, e questo può applicarsi anche alla Seconda Guerra Mondiale. L’America certamente merita credito per il suo contributo importante alla vittoria, dopo strenua lotta, che alla fine ha arriso agli Alleati. Ma il ruolo delle imprese Americane giocato nella guerra è seccamente sintetizzato dalla dichiarazione del Presidente Roosevelt, per cui gli USA erano un “arsenale democratico”. Quando gli Americani sbarcarono in Normandia nel giugno 1944 e catturarono i primi autocarri, scoprirono che questi veicoli erano forniti di motori prodotti da industrie Americane, come la Ford e la General Motors. (1) 
Quindi, era accaduto che il sistema industriale e finanziario Americano era stato utilizzato come arsenale del Nazismo. 

I Fans del Führer

Fin dal momento del suo arrivo al potere, Mussolini aveva espresso una grandissima ammirazione verso il sistema delle imprese Americane in una società che aveva definito dal punto di vista statuale come “una bella e giovane rivoluzione”. (2) D’altro canto, Hitler inviava segnali eterogenei. Come le loro controparti Germaniche, gli uomini di affari Americani da molto tempo erano preoccupati per le intenzioni e i metodi di questi parvenus plebei, la cui ideologia veniva definita Nazional-Socialismo, il cui partito, esso stesso, si identificava come un partito dei lavoratori, e che parlava sinistramente di essere portatore di cambiamenti rivoluzionari. (3) Però, alcuni dei leaders di più alto profilo nel sistema d’impresa Americano, come Henry Ford, vedevano con favore e ammiravano il Führer fin dalle prime fasi. (4)

Altri ammiratori di Hitler della prima ora erano il barone della stampa Randolph Hearst e Irénée Du Pont, a capo del trust Du Pont, che secondo Charles Higham, avevano “appassionatamente seguito la carriera del futuro Führer già dagli anni Venti” e lo avevano sostenuto finanziariamente. (5)

Col passare del tempo, molti dei capitani di industria Americani impararono ad amare il Führer. Si è spesso accennato che l’attrattiva per Hitler era una questione di personalità, materia di psicologia. Si presume che le personalità autoritarie non potevano fare a meno di avere simpatia ed ammirazione per un uomo che predicava le virtù del “principio di supremazia” e metteva in pratica quello che predicava, prima nel suo partito e poi per l’intera Germania. 
Sebbene citi anche altri fattori, essenzialmente è in questi termini che Edwin Black, autore del libro eccellente sotto vari aspetti “IBM e l’Olocausto”, spiega il caso del presidente dell’IBM, Thomas J. Watson, che aveva incontrato Hitler in parecchie occasioni negli anni Trenta ed era rimasto affascinato dal nuovo regime autoritario della Germania.                                                                              

Ma è nel dominio della politica economica, non della psicologia, che possiamo più proficuamente capire perché il sistema economico ed industriale Americano abbia abbracciato Hitler.

Nel corso degli anni Venti, molte corporations Americane particolarmente importanti avevano goduto di considerevoli investimenti  in Germania.                                                                                  Prima della Prima Guerra Mondiale, la IBM aveva insediato in Germania una sua filiale, la Dehomag;  negli anni Venti, la General Motors aveva preso il controllo del più grosso produttore industriale di auto della Germania, la Adam Opel AG; e Ford aveva gettato le basi di un impianto succursale, più tardi noto come la Ford-Werke, a Colonia.                                                                            

Altre compagnie USA contraevano società strategiche con compagnie Tedesche. La Standard Oil del New Jersey — oggi Exxon — sviluppava collegamenti strettissimi con il trust Germanico IG Farben. 

Dall’inizio degli anni Trenta, una élite di circa venti fra le più grandi corporations Americane, fra cui Du Pont, Union Carbide, Westinghouse, General Electric, Gillette, Goodrich, Singer, Eastman Kodak, Coca-Cola, IBM, e ITT  aveva rapporti con la Germania.                                                                 

Per ultimo, molti studi legali Americani, compagnie di assicurazioni e finanziarie, e banche venivano profondamente coinvolte in un’offensiva finanziaria Statunitense in Germania; fra questi, il famoso studio legale di Wall Street, Sullivan & Cromwell, e le banche J. P. Morgan e Dillon, Read and Company, così come la Union Bank di New York, di proprietà di Brown Brothers & Harriman.

La Union Bank era intimamente collegata con l’impero finanziario ed industriale del magnate Tedesco dell’acciaio Thyssen, il cui apporto finanziario aveva permesso ad Hitler di arrivare al potere. Questa banca era gestita da Prescott Bush, nonno di George W. Bush.                                          

Si suppone che anche Prescott Bush fosse un supporter entusiasta di Hitler, visto che a costui Bush travasava denaro via Thyssen, e in cambio realizzava considerevoli profitti col fare affari con la Germania Nazista; con questi profitti aveva lanciato suo figlio, più tardi divenuto Presidente degli USA, negli affari del petrolio. (6)                                                                                                                                              

Le avventure Americane d’oltremare ebbero scarso successo agli inizi degli anni Trenta, visto che la Grande Depressione aveva colpito duramente, in particolare la Germania. La produzione e i profitti erano precipitati in modo pesante, la situazione politica era estremamente instabile, vi erano continuamente scioperi e scontri per le strade fra Nazisti e Comunisti, e molti temevano che il paese fosse maturo per una rivoluzione “rossa”, dello stesso stampo di quella che aveva portato al potere i Bolscevichi nella Russia del 1917.
Comunque, sostenuto dalla potenza e dal denaro degli industriali e dei banchieri Tedeschi, come Thyssen, Krupp, e Schacht, Hitler arrivava al potere nel gennaio 1933, e non solo la politica ma anche la situazione socio-economica mutava drasticamente.
Improvvisamente, le filiali Tedesche delle corporations Americane cominciarono a mietere profitti. Perché? Dopo la presa del potere da parte di Hitler, i leaders affaristici con attività in Germania trovarono a loro immensa soddisfazione che la cosiddetta rivoluzione Nazista conservava lo “status quo socio-economico”. La stigmate del fascismo Teutonico del Führer, come di ogni altra varietà di fascismo, era reazionaria di natura ed estremamente vantaggiosa per gli scopi dei capitalisti.  Portato al potere dagli uomini di affari e dai banchieri Tedeschi, Hitler serviva agli interessi di questi “deleganti”. La sua principale iniziativa era stata di sciogliere i sindacati dei lavoratori e di schiacciare i Comunisti e i tanti attivisti Socialisti, sbattendoli in prigione e nei primi campi di concentramento, che erano stati appositamente impiantati per accogliere la sovrabbondanza di prigionieri politici di sinistra.  
Queste spietate misure non solo rimossero il timore di un cambiamento rivoluzionario — incarnato dai Comunisti Tedeschi — ma anche castrarono la classe lavoratrice della Germania e la trasformarono in una impotente “massa di seguaci” (Gefolgschaft), per usare la terminologia Nazista, che veniva incondizionatamente messa a disposizione dei datori di lavoro, i Thyssen e i Krupp. Inoltre, le imprese Tedesche, comprese le succursali Americane, anche se non tutte, approfittarono di questa situazione e tagliarono di netto i costi del lavoro. Ad esempio, la Ford-Werke, riduceva i costi del lavoro, dal 15% del volume di affari nel 1933 a solo l’11% nel 1938.  (Research Findings, 135–6)
L’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen accresceva in modo considerevole la sua redditività poiché, sotto il regime di Hitler, i lavoratori “erano poco più che servi ai quali era proibito non solo scioperare, ma anche cambiare lavoro, costretti a lavorare più duramente e più velocemente, mentre i loro salari erano deliberatamente tenuti ai livelli minimi.” (7)
Infatti, nella Germania Nazista, i salari effettivi si erano abbassati rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza erano accresciuti, e non era possibile far parola alcuna di problematiche del lavoro, tanto meno cercare di organizzare uno sciopero, senza che immediatamente si scatenasse una risposta armata da parte della Gestapo, con il risultato di arresti e licenziamenti. Questo è stato il caso della fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nel giugno 1936. (Billstein et al., 25) Come ha scritto dopo la guerra il professore e membro della Resistenza anti-fascista della Turingia, Otto Jenssen, i dirigenti delle imprese della Germania erano felici “ che il terrore per il campo di concentramento rendesse i lavoratori Tedeschi docili e mansueti come cagnolini.” (8)                             

I proprietari e i managers delle corporations Americane con investimenti in Germania erano non meno incantati, e se apertamente esprimevano la loro ammirazione per Hitler — come erano usi fare il Presidente della General Motors, William Knudsen, e il boss della ITT Sosthenes Behn — questo avveniva senza alcun dubbio perché Hitler aveva risolto i problemi sociali della Germania in modo tale da creare giovamento ai loro interessi. (9)


Depressione? Quale Depressione?

Hitler si era accattivato  il sistema delle corporations Americane per un’altra ragione veramente importante: aveva fatto apparire, come per magia, la soluzione al problema immenso della Grande Depressione. Il suo rimedio forniva una sorta di stratagemma Keynesiano, tramite commesse statuali per stimolare la domanda, per rimettere in moto la produzione e fare il possibile in favore delle imprese in Germania — comprese anche le imprese di proprietà straniera — per incrementare in modo assoluto i loro livelli di produzione ed acquisire un livello di redditività senza precedenti. 
Però, quello che lo stato Nazista ordinava all’industria Tedesca era materiale bellico ed era piuttosto chiaro che la politica di riarmo di Hitler avrebbe portato inesorabilmente alla guerra, dato che solo il bottino risultante da una guerra vittoriosa avrebbe permesso al regime di pagare i conti enormi presentati dai fornitori. 
Già di per sé, il programma di riarmo Nazista si rivelava come una meravigliosa vetrina di opportunità per le imprese fornitrici Statunitensi.                                                                                                 Ford pretende che la sua Ford-Werke abbia subito delle discriminazioni da parte del regime Nazista, per il fatto che la proprietà era straniera, ma ammette che per tutta la seconda metà degli anni Trenta la sua filiale di Colonia era stata “formalmente legalizzata dalle autorità Naziste...essendo la sua origine Tedesca” e quindi “con i requisiti per ricevere contratti governativi.”                                        

Ford trasse profitto da questa opportunità, anche se le commesse del governo erano quasi esclusivamente per forniture militari. La filiale Tedesca di Ford, la Ford-Werke , che nei primi anni Trenta aveva incassato pesanti perdite, grazie ai contratti lucrativi con il governo, derivati dalla spinta Hitleriana al riarmo, vedeva un aumento spettacolare dei propri profitti annuali, dai 63.000 marchi (RM-Reichsmarks) nel 1935 a 1.287.800 RM nel 1939. (Research Findings, 21)            

La fabbrica Opel della GM a Rüsselsheim, nei pressi di Mainz, mieteva un successo ancora migliore. La sua quota di mercato Tedesco dell’automobile balzava dal 35% nel 1933 a più del 50% nel 1935, e la succursale GM, che aveva perso denaro all’inizio degli anni Trenta, divenne estremamente redditizia grazie al boom economico prodotto dal programma di riarmo di Hitler.         

Nel 1938 venivano registrati profitti per 35 milioni di marchi RM — quasi 14 milioni di dollari (USA). (Research Findings, 135–6; e Billstein et al., 24) (10)  Nel 1939, alla vigilia della guerra, il Presidente della GM, Alfred P. Sloan, pubblicamente motivava il fatto di fare affari nella Germania di Hitler, sottolineando la natura altamente vantaggiosa delle operazioni della GM sotto il Terzo Reich.  (11)

Ancora un’altra corporation Americana che aveva trovato un filone d’oro nel Terzo Reich di Hitler è stata la  IBM. La sua filiale Tedesca, la Dehomag, ha fornito ai Nazisti l’apparecchiatura a schede perforate — antesignana del computer — necessaria ad automatizzare la produzione del paese, e con questo la IBM-Germany realizzava un sacco di soldi. Nel 1933, l’anno della presa del potere da parte di Hitler, la Dehomag realizzava profitti per un milione di dollari, e durante i primi anni del regime di Hitler versava alla IBM negli USA qualcosa come 4.5 milioni di dollari di dividendi.         

“Nel 1938, ancora in piena Depressione, i profitti annuali si aggiravano sui 2.3 milioni di marchi RM; nel 1939 i profitti della Dehomag aumentavano in modo spettacolare a circa 4.0 milioni di marchi RM”, scrive Edwin Black. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119, 120–1, 164, 198, and 222)

Le imprese Americane con succursali in Germania non erano le uniche a guadagnare fortune inaspettate dalle spinte di Hitler al riarmo. La Germania, in preparazione della guerra, stava immagazzinando petrolio e molto di questo petrolio veniva fornito da imprese Americane. La Texaco realizzava grandi profitti dalle vendite alla Germania Nazista, e non fa sorpresa che il suo Presidente Torkild Rieber, fosse diventato un altro dei potenti imprenditori Americani che ammiravano Hitler. Un membro dei servizi segreti Tedeschi riportava che costui era “assolutamente filo Tedesco” e “un sincero ammiratore del Führer”. Sta di fatto che Rieber era divenuto amico personale di Göring, lo czar economico di Hitler. (12)
Questo valeva anche per Ford, la cui impresa non solo produceva per i Nazisti nella stessa Germania, ma anche esportava autocarri parzialmente assemblati direttamente dagli USA in Germania. Questi veicoli venivano poi completamente assemblati nella Ford-Werke a Colonia ed erano pronti ad essere usati al momento giusto nella primavera del 1939, quando Hitler occupava la parte della Cecoslovacchia che non gli era stata ceduta nell’infame Patto di Monaco dell’anno precedente. Per giunta, negli ultimi anni Trenta, Ford aveva inviato in Germania materie prime strategiche, a volte tramite sue società consociate in paesi terzi; solo all’inizio del 1937, queste spedizioni comprendevano quasi 2 milioni di libbre di gomma e 130.000 libbre di rame. (Research Findings, 24, e 28)

Le corporations Americane facevano il pieno di denaro nella Germania Hitleriana; questa è la ragione, e non il presunto carisma del Führer, per cui i proprietari e i managers di queste imprese lo adoravano! Per contro, Hitler e i suoi compagnoni si compiacevano di molto per le performances del capitale Americano nello stato Nazista. Infatti, la produzione di materiale bellico da parte delle consociate Americane onorava e addirittura superava le aspettative della dirigenza Nazista. 
Berlino pagava pronta cassa ed Hitler in persona mostrava il suo apprezzamento, assegnando prestigiose decorazioni a gente come Henry Ford, Thomas Watson della IBM, e James D. Mooney, direttore delle esportazioni della GM. Lo stock di investimenti Americani in Germania era accresciuto enormemente dopo la conquista del potere da parte di Hitler nel 1933. La motivazione principale di tutto questo era che il regime Nazista non consentiva ai profitti realizzati da imprese straniere di rientrare nelle nazioni di origine, almeno in teoria. In realtà, i centri operativi delle corporations potevano eludere questo embargo tramite stratagemmi, e così alle filiali Tedesche venivano pagate le fatture in  “royalties”  e con ogni sorta di “parcelle”. Ancora, le restrizioni comportavano che i profitti venivano largamente reinvestiti all’interno del paese delle grandi opportunità, che a quel tempo la Germania dimostrava di essere, per esempio nella modernizzazione di impianti esistenti, nella costruzione o nell’acquisizione di nuove fabbriche e nell’acquisto di obbligazioni del Reich e di beni immobili.                                                                                                   

Così, la IBM reinvestiva i suoi considerevoli guadagni in una nuova fabbrica a Berlino-Lichterfelde, in un allargamento delle sue strutture a Sindelfingen, vicino Stoccarda, in numerosi uffici succursali in tutto il Reich, e nell’acquisto di appartamenti a Berlino, di altre proprietà immobiliari e di strutture per attività materiali. (Black, 60, 99, 116, e 122–3)
Conseguentemente a queste circostanze, il valore del capitale di IBM in Germania era aumentato in modo considerevole, e alla fine del 1938 il valore netto della Dehomag era raddoppiato, dai 7.7 milioni di marchi RM del 1934 ad oltre i 14 milioni di marchi RM. (Black, 76–7, 86–7, 98, 119–21, 164, 198, and 222)                                                                                                                                          

Negli anni Trenta, il valore delle proprietà complessive della Ford-Werke cresceva come i funghi, dai  25.8 milioni di marchi RM del 1933 ai 60.4 milioni di marchi RM del 1939. (Research Findings, 133)                                                                                                                                                   

Sotto Hitler, gli investimenti Americani in Germania continuarono ad espandersi, e al tempo di Pearl Harbor ammontavano a circa 475 milioni di dollari. (Research Findings, 6) (13)


Meglio Hitler di "Rosenfeld"

Per tutti i “tempestosi anni Trenta” i profitti delle imprese negli USA si erano mantenuti sul depresso; le società come la GM e Ford potevano solo sognarsi di realizzare in patria il genere di ricchezze che le loro affiliate in Germania stavano realizzando grazie a Hitler.  Inoltre, in casa, il sistema imprenditoriale  Americano stava vivendo problemi con attivisti sindacali, Comunisti, e altri radicali. Cosa pensavano i nervosi detentori di questi marchi di fabbrica della personalità e del regime del Führer? I leaders delle imprese Americane subivano per questo qualche turbamento? All’apparenza non molto, se non proprio affatto. Ad esempio, l’odio razziale profuso da Hitler non offendeva eccessivamente la loro sensibilità. Dopo tutto, il razzismo contro i non-Bianchi rimaneva sistemico in tutti gli Stati Uniti e l’anti-Semitismo era comune nella classe imprenditoriale. Nei clubs esclusivi e negli hotels di gran classe patrocinati dai capitani di industria, gli Ebrei vi erano raramente ammessi; e molti alti dirigenti delle imprese Americane si dichiaravano apertamente  anti-Semiti. (14)

Agli inizi degli anni Venti, Henry Ford fece pubblicare un libro virulentemente anti-Semita, “L’Internazionale Giudea”, che veniva tradotto in molte lingue; Hitler ne lesse la versione Tedesca e in seguito ammise che il testo gli aveva fornito ispirazione ed incoraggiamento. Un altro magnate Americano, notoriamente anti-Semita, era Irénée Du Pont, anche se la famiglia Du Pont aveva avuto antenati Ebrei. (15) L’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano assomigliava fortemente a quello di Hitler, il cui punto di vista sull’Ebraismo era interconnesso intimamente con il suo giudizio sul Marxismo, come Arno J. Mayer ha argomentato in modo convincente nel suo libro “Why Did the Heavens not Darken – Perché il Cielo non si è oscurato?” (16)

Hitler dichiarava di essere un socialista, ma era sottinteso che il suo era un socialismo “nazionale”, un socialismo solo per i Tedeschi di razza pura. Quanto all’autentico socialismo, che predicava la solidarietà internazionale fra le classi lavoratrici e trovava la sua ispirazione nell’opera di Karl Marx, questo veniva disprezzato da Hitler come un’ideologia Giudaica che si proponeva di rendere schiavi o addirittura annullare i Tedeschi e gli altri “Ariani”.  Hitler detestava come “Giudaiche” tutte le forme di Marxismo, ma nessuna più del Comunismo (o “Bolscevismo”) e denunciava l’Unione Sovietica come patria del socialismo “Giudaico” internazionale. 
Negli anni Trenta, con le stesse modalità, l’anti-Semitismo del sistema imprenditoriale Americano si manifestava come l’altra faccia della medaglia dell’anti-socialismo, anti-Marxismo, e del disprezzo dei rossi. Molti uomini d’affari Americani condannavano pubblicamente il New Deal di Roosevelt come un’interferenza “socialistica” in economia. Gli anti-Semiti del sistema imprenditoriale Americano consideravano Roosevelt come un cripto-Comunista ed un agente degli interessi degli Ebrei, se non addirittura di essere lui stesso un “Giudeo”; di routine si faceva riferimento a lui come “Rosenfeld”, e il suo New Deal veniva storpiato con “Jew (Giudeo) Deal”. (17)

Nel suo libro“ The Flivver King”, Upton Sinclair ha descritto l’anti-Semita dichiarato Henry Ford come sognante un movimento fascista Americano, che “si impegnava nel paese ad abbattere i Rossi e a preservare gli interessi padronali; ad estromettere il Bolscevico [Roosevelt] dalla Casa Bianca e tutti i suoi professori progressisti dalle cariche di governo... [e] a considerare un illecito penale degno della fucilazione il parlare di comunismo o la proclamazione di uno sciopero.” (18)                                               

Anche altri magnati Americani desideravano ardentemente un Salvatore fascista che potesse sbarazzare l’America dai “Rossi” e quindi ridonarle prosperità e redditività. Du Pont forniva generosi contributi finanziari per sostenere le organizzazioni fasciste presenti negli Stati Uniti, come la famigerata “Black Legion – la Legione Nera”, ed era anche coinvolto nei piani di un colpo di stato fascista a Washington. (Hofer and Reginbogin, 585–6) (19)


Perché preoccuparsi per la Guerra Incombente? 

Era del tutto ovvio che Hitler, riarmando la Germania fino ai denti, prima o dopo avrebbe scatenato un grave conflitto. Potessero avere avuto i capitani di industria Americani qualche timore a riguardo, presto le loro apprensioni venivano fugate, visto che negli anni Trenta gli esperti di diplomazia internazionale e di economia, senza eccezioni, si aspettavano che Hitler avrebbe risparmiato i paesi occidentali, e avrebbe attaccato e distrutto l’Unione Sovietica, come promesso nel “Mein Kampf”. Ad incoraggiarlo e a sostenerlo in questa impresa, che egli considerava la grande missione della sua vita, (20) veniva il segreto obiettivo dell’infame politica di acquiescenza perseguita da Londra e Parigi, e tacitamente approvata da Washington. (21)

I leaders del sistema imprenditoriale in tutti i paesi occidentali, più nettamente negli USA, detestavano l’Unione Sovietica, poiché questo stato era la culla dell’“antisistema” comunista in contrapposizione all’ordine capitalista internazionale e una fonte di ispirazione per gli stessi “rossi” Americani. Inoltre, trovavano particolarmente offensivo che la patria del comunismo non fosse caduta preda della Grande Depressione, ma sperimentasse una rivoluzione industriale, che in seguito è stata favorevolmente paragonata dallo storico Americano John H. Backer al tanto decantato “miracolo economico” della Germania Ovest dopo la Seconda Guerra Mondiale. (22)

La politica di pacificazione e di acquiescenza era un progetto ambiguo, i cui reali obiettivi dovevano essere celati all’opinione pubblica della Gran Bretagna e della Francia. In modo spettacolare si ottenne un effetto contrario, dato che i contorcimenti di questa politica alla fine resero Hitler diffidente verso le effettive intenzioni di Londra e Parigi, e lo indussero a sottoscrivere un accordo con Stalin, e lo portarono a scatenare la guerra della Germania contro la Francia e la Gran Bretagna, piuttosto che contro l’Unione Sovietica.                                                                                                      

Tuttavia, il sogno di una crociata Tedesca contro l’Unione Sovietica comunista nell’interesse dell’Occidente capitalistico non rinunciò a morire. Londra e Parigi scatenarono semplicemente una “Guerra Fasulla” contro la Germania, sperando che Hitler alla fine si sarebbe rivolto contro l’Unione Sovietica. Questa era anche l’idea che informava le missioni quasi-ufficiali a Londra e a Berlino intraprese da James D. Mooney della GM, che cercava insistentemente — come aveva fatto l’ambasciatore USA a Londra, Joseph Kennedy, padre di John F. Kennedy — di convincere i dirigenti della Germania e della Gran Bretagna ad appianare i loro inopportuni conflitti, in modo che Hitler potesse dedicare la sua completa attenzione al suo grande “Progetto Orientale”.                            

In un incontro con Hitler nel marzo 1940, Mooney lanciava un appello di pace per l’Europa Occidentale, dichiarando che “gli Americani erano comprensivi del punto di vista Tedesco rispetto alla questione dello spazio vitale” — in altre parole, che loro non avevano nulla in contrario rispetto alle pretese territoriali Tedesche nei riguardi dell’Est Europeo. (Billstein et al., 37–44) (23)              

Queste iniziative Americane, comunque, non avrebbero prodotto i risultati sperati. Senza ombra di dubbio, i proprietari e i managers delle corporations Statunitensi con filiali in Germania si rammaricarono che la guerra scatenata da Hitler  nel 1939 fosse una guerra contro l’Occidente, ma in ultima analisi questo rammarico si palesava non più che tanto. Quello che era di sicura importanza consisteva in questo: aiutare Hitler a preparare la guerra significava fare buoni affari e la guerra stessa apriva, ancor di più, prospettive inimmaginabili di fare affari e realizzare profitti.  


Imporre il Blitz alla Guerra Lampo

I successi militari della Germania del 1939 e del 1940 si fondavano su una nuova ed estremamente mobile forma di muovere guerra, la Blitzkrieg, la Guerra Lampo, che consisteva di attacchi estremamente rapidi e altamente sincronizzati dall’aria e per terra. 
Per intraprendere la Guerra Lampo, Hitler necessitava di macchine belliche, carri armati, autocarri, aeroplani, carburanti ed oli per motori, benzina, gomma e sistemi di comunicazione sofisticati per assicurare agli Stukas di colpire in tandem con i Panzers. Molto di questo equipaggiamento veniva fornito da imprese Americane, soprattutto dalle affiliate Tedesche delle grandi corporations Americane, ma molto veniva anche importato dagli Stati Uniti, sebbene solitamente attraverso paesi terzi. Senza questo tipo di supporto Americano, nel 1939 e nel 1940 il Führer poteva solo sognarsi di “guerre lampo”, seguite da “vittorie lampo”. La maggior parte dei mezzi da trasporto e degli aeroplani di Hitler venivano prodotti dalle filiali Tedesche della GM e della Ford. Alla fine degli anni Trenta queste imprese avevano gradualmente rimosso la produzione civile per impegnarsi esclusivamente sullo sviluppo di apparecchiature militari per l’esercito e per l’aviazione militare della Germania. 
Questo mutamento, richiesto— se non ordinato — dalle autorità Naziste, non solo era stato approvato, ma anche attivamente incoraggiato dai centri direzionali delle imprese negli USA. La Ford-Werke a Colonia procedeva non solo a fabbricare senza limiti mezzi di trasporto per materiali ed uomini, ma anche macchinari bellici e parti di ricambio per la Wehrmacht. La nuova fabbrica Opel della GM nel Brandenburgo avviava la produzione degli autocarri “Blitz” per la Wehrmacht, mentre la fabbrica principale a Rüsselsheim produceva principalmente per la Luftwaffe, assemblando aeroplani come lo JU-88, il cavallo di battaglia della flotta di bombardieri della Germania. Ad un certo punto, la GM e Ford insieme si aggiudicavano non meno della metà dell’intera produzione Tedesca di carri armati. (Billstein et al., 25,) (24)
Intanto la ITT aveva acquisito la quarta parte dei titoli azionari della fabbrica di aeroplani Focke-Wulf, e così contribuiva alla costruzione di aerei da combattimento. (25) Forse i Tedeschi avrebbero potuto assemblare veicoli ed aerei senza l’assistenza Americana. Ma la Germania necessitava disperatamente di materie prime strategiche, come gomme e petrolio, che erano indispensabili a combattere una guerra che si basava sulla mobilità e la velocità. Le corporations Statunitensi andarono in soccorso. 
Come abbiamo fatto menzione in precedenza, la Texaco aiutava i Nazisti ad immagazzinare carburanti. Per giunta, quando in Europa la guerra era sul punto di scoppiare, grandi quantità di gasolio, oli lubrificanti, e altri prodotti petroliferi venivano spedite via mare in Germania non solo dalla Texaco ma anche dalla Standard Oil, specialmente attraverso i porti della Spagna. (Fra l’altro, la Flotta Tedesca veniva rifornita di carburante dal petroliere Texano William Rhodes Davis.) (26) Negli anni Trenta, la  Standard Oil aveva assistito la IG Farben nello sviluppo di carburanti sintetici come alternativa al petrolio naturale, di cui la Germania doveva importare anche una singola goccia.  (Hofer and Reginbogin, 588–9)
Albert Speer, l’architetto di Hitler e Ministro degli Armamenti per il tempo di guerra, dopo il conflitto dichiarava che senza certi tipi di carburante sintetico realizzati con l’aiuto delle industrie Americane, Hitler “non avrebbe mai preso in considerazione l’invasione della Polonia”.(27) Questo valeva per i Focke-Wulfs e per altri aerei veloci da combattimento Tedeschi, che non avrebbero potuto acquisire la loro implacabile velocità senza un additivo nel loro carburante, il piombo tetraetile di sintesi; i Tedeschi stessi, in seguito, ammisero che senza il piombo tetraetile il concetto globale di Blitzkrieg sarebbe risultato inconcepibile.
Questo magico ingrediente era stato sintetizzato da una impresa, la Ethyl GmbH, una affiliata del trio formato da  Standard Oil, da IG Farben, partner Tedesca della Standard, e da GM. (Hofer and Reginbogin, 589)(28)                                                                                                                                           

La guerra lampo, la “Blitzkrieg”, prevedeva attacchi da terra e dall’aria perfettamente sincronizzati, e questo richiedeva un sistema di strutture per le comunicazioni altamente sofisticato. La filiale Tedesca della ITT forniva la maggior parte della strumentazione, mentre l’altro stato-dell'-arte tecnologica essenziale agli scopi della Guerra Lampo faceva l’onore della IBM, attraverso la sua filiale Tedesca, la Dehomag. Secondo Edwin Black, il know-how della IBM permetteva alla macchina bellica Nazista di “acquisire dimensioni, velocità ed efficienza”; e concludeva che “la IBM aveva apportato il “lampo” alla guerra della Germania Nazista.” (Black, 208)                            

Secondo le prospettive del sistema delle imprese Americane non era una catastrofe che la Germania dall’estate del 1940 avesse stabilito la sua supremazia sul continente Europeo. 
Molte affiliate Tedesche delle imprese Americane — ad esempio la Ford-Werke e l’impianto di imbottigliamento della Coca-Cola ad Essen — andavano espandendosi nei paesi occupati, approfittando delle vittorie della Wehrmacht. Il Presidente della IBM, Thomas Watson, era sicuro che la sua associata Tedesca avrebbe conseguito vantaggi dai trionfi Hitleriani.                                         

Black scrive: “Come molti uomini di affari Statunitensi, Watson confidava che la Germania sarebbe rimasta egemone in Europa, e che la IBM avrebbe beneficiato di questo, con il predominio sui centri di calcolo e di elaborazione dei dati, fornendo alla Germania gli strumenti tecnologici per un controllo globale.”  (Black, 212)
Il 26 giugno 1940, una delegazione commerciale Tedesca organizzava una colazione di lavoro al  Waldorf-Astoria Hotel di New York per applaudire alle vittorie dell’Esercito Tedesco nell’Europa Occidentale. Molti importanti industriali presenziarono, compreso James D. Mooney, direttore responsabile delle operazioni Tedesche della GM. Cinque giorni più tardi, sempre a New York, venivano nuovamente celebrate le vittorie Tedesche, questa volta ad un party offerto dal filo-fascista Rieber, boss della Texaco. Fra i leaders delle imprese Americane erano presenti James D. Mooney e il figlio di Henry Ford, Edsel.(29)


Che guerra meravigliosa!



Il Profitto “über Alles”! Il Profitto innanzitutto!
Le Corporations Americane ed Hitler 

Review Article
by Dr. Jacques R. Pauwels



(seconda ed ultima parte; la parte precedente è leggibile alla pagina:

Il profitto über Alles; il profitto innanzitutto!

I proprietari e i managers delle imprese case madri negli USA si preoccupavano poco di quali prodotti venivano sviluppati e prodotti dalle catene di montaggio Tedesche. Quello che contava per loro e per i detentori delle loro azioni era solamente il profitto. Le affiliate delle corporations Americane in Germania realizzavano considerevoli guadagni durante il conflitto, e questo denaro non veniva intascato dai Nazisti. Per quel che concerne la Ford-Werke, sono disponibili dati precisi. 
I profitti della filiale Tedesca di Dearborn aumentavano da 1.2 milioni di Marchi Tedeschi (RM) nel 1939 a 1.7 milioni di RM nel 1940, a 1.8 milioni di RM nel 1941, a 2.0 milioni di RM nel 1942, e a 2.1 milioni di RM in 1943. (Research Findings, 136).(45)                                                                       

Anche le filiali della Ford nella Francia occupata, in Olanda e nel Belgio, dove il gigantesco sistema delle imprese Americane forniva un contributo industriale allo sforzo bellico Nazista, vedevano ugualmente realizzarsi successi straordinari. Ad esempio, la Ford-France, — che prima della guerra non era una struttura troppo fiorente —,  divenne veramente redditizia dopo il 1940, grazie alla sua collaborazione incondizionata con i Tedeschi; nel 1941 registrava profitti per 58 milioni di Franchi, un livello di rendimento per cui riceveva le calde congratulazioni da parte di Edsel Ford. (Billstein et al, 106; e Research Findings, 73–5) (46)
Relativamente alla Opel, i profitti industriali erano saliti alle stelle al punto tale che il Ministero dell’Economia Nazista aveva vietato la loro pubblicazione per impedire un bagno di sangue da parte della popolazione Tedesca, alla quale si chiedeva in maniera sempre più pressante di stringere collettivamente la cinghia.(Billstein et al, 73) (47)                                                                                         

La IBM non solo realizzava profitti alle stelle tramite la sua filiale Tedesca, ma, come la Ford, vedeva innalzarsi i suoi guadagni anche nella Francia occupata, soprattutto per merito degli affari generati tramite la zelante collaborazione con le autorità di occupazione Tedesche. Era stato perfino necessario costruire nuove fabbriche. Comunque, su tutto, la IBM prosperava in Germania e nei paesi occupati grazie alle vendite ai Nazisti di strumenti tecnologici richiesti per identificare, deportare, ghettizzare, schiavizzare e, alla fine del percorso, sterminare milioni di Ebrei Europei, in altre parole, per organizzare l’Olocausto.(Black, 212, 253, and 297–9)

È ben lontano dall’essere chiarito cosa sia successo ai profitti realizzati in Germania durante la guerra dalle filiali Americane, ma qualche allettante notizia succosa di informazioni è nonostante tutto emersa. Negli anni Trenta le imprese Americane avevano sviluppato diverse strategie per eludere l’embargo Nazista al rimpatrio dei profitti. L’ufficio della dirigenza della IBM a New York, per esempio, regolarmente fatturava la Dehomag per royalties dovute alla casa madre, per rimborso di prestiti inventati, e per altre competenze e spese; queste pratiche ed altri bizantinismi di transazioni inter-societarie minimizzavano i profitti realizzati in Germania e quindi nel contempo funzionavano come un realistico piano di evasione fiscale. Inoltre, esistevano altri modi di operare per evitare l’embargo sul rientro dei profitti alla casa madre, come il loro reinvestimento all’interno della Germania, ma dopo il 1939 questa opzione non veniva permessa più a lungo, almeno in teoria.  
In pratica, le sussidiarie Americane intrapresero questo percorso, di aumentare in modo assolutamente considerevole le loro strutture.  L’Opel, ad esempio, nel 1942 assumeva il controllo di una fonderia a Lipsia. (48) Rimaneva anche possibile utilizzare i profitti per migliorare e modernizzare le infrastrutture stesse delle affiliate, cosa che era avvenuta spesso nel caso della Opel.  

Inoltre, esistevano possibilità di espansione nei paesi occupati dell’Europa. Nel 1941, la sussidiaria della Ford in Francia utilizzava i suoi profitti per costruire un’industria di carri armati ad Orano, Algeria; con tutta probabilità, questo impianto aveva fornito all’Africa Corps di Rommel le strutture necessarie all’avanzata diretta verso El Alamein in Egitto. Nel 1943, anche la Ford-Werke insediava una fonderia non lontano da Colonia, proprio attraverso il confine con il Belgio, vicino a Liegi, per produrre parti di ricambio. (Research Findings, 133)                                                                                             Per di più, è probabile che una parte del profitto ammassato nel Terzo Reich veniva trasferita in qualche modo direttamente negli USA, ad esempio, attraverso la Svizzera neutrale.  Molte  corporations USA mantenevano in Svizzera uffici che funzionavano da intermediari fra le case madri e le loro filiali nei paesi nemici od occupati, e quindi erano coinvolti nel “riciclaggio dei profitti”, come scrive Edwin Black a proposito della filiale Svizzera della IBM. (Black, 73) (49)

Allora, allo scopo del ritorno dei profitti alle case madri, le corporations potevano far conto sui servizi sperimentati delle filiali Parigine di alcune banche Americane, come la Chase Manhattan e J.P. Morgan, e di un certo numero di banche Svizzere. La Chase Manhattan faceva parte dell’impero di  Rockefeller, così come la Standard Oil, partner Americana della IG Farben; la sua filiale nella Parigi sotto occupazione Tedesca rimaneva aperta per tutto il corso della guerra e realizzava guadagni in modo considerevole grazie alla stretta collaborazione con le autorità Tedesche. Inoltre, da parte Svizzera, si dava il caso che alcune istituzioni finanziarie si impegnavano — senza porsi imbarazzanti domande — a prendersi cura dell’oro sottratto dai Nazisti alle loro vittime Ebree. A questo riguardo, giocava un importante ruolo la banca dei Regolamenti Internazionali  (BIS) di Basilea, una Banca internazionale che era stata fondata nel 1930 all’interno della struttura del Progetto Giovani, con l’obiettivo di agevolare i pagamenti delle riparazioni di guerra da parte Tedesca dopo la Prima Guerra Mondiale.  
I banchieri Americani e Tedeschi (come Schacht) dominavano la BIS fin dall’inizio e collaboravano con tutta comodità in tutte le sue speculazioni finanziarie.Durante la guerra, era un Tedesco, che era membro del Partito Nazista, Paul Hechler, ad occupare la funzione di direttore della BIS, mentre un Americano, Thomas H. McKittrick, ne era presidente. McKittrick era un buon amico dell’ambasciatore Americano a Berna e di un agente in Svizzera del servizio segreto Americano [l’OSS, antesignano della CIA], Allen Dulles. Prima della guerra, Allen Dulles e suo fratello John Foster Dulles erano stati partners nell’ufficio legale di New York Sullivan & Cromwell, ed erano specializzati nell’affare veramente redditizio di gestione di investimenti Americani nella Germania. Avevano eccellenti rapporti con i proprietari e dirigenti al vertice di imprese Americane, e in Germania con banchieri, uomini di affari e funzionari governativi, compresi alti papaveri Nazisti.   Dopo lo scoppio della guerra, John Foster divenne il legale societario per la BIS a New York, mentre Allen veniva arruolato nell’OSS e prendeva servizio in Svizzera, dove si dimostrava amico di McKittrick. È ampiamente conosciuto che durante il conflitto la BIS maneggiava quantità enormi di denaro e di oro provenienti dalla Germania Nazista. (50) Non è irragionevole sospettare che tali trasferimenti potevano riguardare i proventi delle associate Americane destinati agli USA, in altre parole, denaro accumulato da clienti ed associati degli onnipresenti fratelli Dulles!  


Procurare il lavoro di schiavi! 

Prima della guerra, le imprese Tedesche si erano entusiasticamente avvantaggiate del grande favore loro concesso dai Nazisti, vale a dire dell’eliminazione dei sindacati dei lavoratori e della trasformazione risultante della classe lavoratrice Tedesca, nel passato militante e consapevole, in una mansueta “massa di servitori”.  Quindi, non è sorprendente che nella Germania Nazista i salari reali diminuivano rapidamente, mentre i profitti in corrispondenza si incrementavano. Durante la guerra, i prezzi continuavano a salire, mentre gli stipendi venivano gradualmente erosi e l’orario di lavoro veniva aumentato.(51) Questa era anche l’esperienza che dovevano subire le forze del lavoro delle sussidiarie Americane. Per contrastare la deficienza di lavoratori nelle industrie, i Nazisti facevano assegnamento in modo crescente su lavoratori stranieri che venivano deportati a lavorare in Germania sotto condizioni molto spesso disumane. 
Insieme a centinaia di migliaia di Sovietici e di altri prigionieri di guerra e di reclusi nei campi di concentramento, questi lavoratori stranieri (lavoratori forzati) costituivano una gigantesca massa di lavoratori che potevano essere sfruttati a volontà da chiunque li prendesse in carico, in cambio di una modesta remunerazione versata alle SS, la Schutzstaffel, la milizia di protezione nazista.   Infatti, le SS mantenevano la disciplina e l’ordine d’obbligo con pugno di ferro. Allora, i costi del lavoro crollavano ad un livello tale per cui i programmatori di oggi possono solo sognare, e i profitti delle imprese aumentavano in proporzione.
Anche le filiali Tedesche delle imprese Americane avevano fatto con bramosia uso del lavoro schiavile fornito dai Nazisti, non solo attraverso lavoratori stranieri, ma anche di prigionieri di guerra e di reclusi dei campi di concentramento. Ad esempio, la Yale & Towne Manufacturing Company con sede a Velbert in Renania, da quanto viene documentato, faceva affidamento sul “concorso di lavoratori provenienti dall’Europa Orientale” per realizzare “consistenti profitti”, (52) ed anche viene sottolineato che la Coca-Cola ha avuto vantaggi dall’utilizzo di lavoratori stranieri, e di prigionieri di guerra nei suoi impianti della Fanta.(53)  Comunque, gli esempi maggiormente spettacolari dell’uso di lavoro forzato da parte di filiali Americane sono sicuramente forniti dalla  Ford e dalla GM, due casi che di recente hanno costituito l’oggetto di un’approfondita inchiesta.
Sulla Ford-Werke, è stato asserito che a partire dal 1942 questa fabbrica “sollecitamente, aggressivamente e con grande successo” aveva perseguito l’uso di lavoratori stranieri e di prigionieri di guerra dall’Unione Sovietica, dalla Francia e dal Belgio e da altri paesi occupati  — chiaramente con la conoscenza della casa madre dell’impresa negli USA. (54)                                                                   

Karola Fings, una ricercatrice Tedesca che con molta attenzione ha studiato le attività in tempo di guerra della Ford-Werke, scrive: “[Ford] aveva fatto meravigliosi affari con i Nazisti, dato che l’accelerazione della produzione durante la guerra dava spazio totalmente a nuove opportunità, mantenendo basso il livello del costo del lavoro. In effetti era dal 1941 che alla Ford-Werke era in atto un generale congelamento dell’aumento dei salari. Comunque, i più alti margini di profitto potevano essere acquisiti per mezzo dell’uso dei cosiddetti Ostarbeiter [lavoratori forzati provenienti dall’Europa dell’Est].(55)                                                                                                                     

Le migliaia di lavoratori forzati stranieri portati a lavorare nella Ford-Werke venivano costretti come schiavi ogni giorno, eccettuata la domenica, per dodici ore al giorno, e per questo non ricevevano un qualsiasi salario. Presumibilmente anche peggiore era il trattamento riservato al relativamente piccolo numero di reclusi del campo di concentramento di Buchenwald, messo a disposizione della Ford-Werke nell’estate del 1944”. (Research Findings, 45–72)                                        

In contrasto con Ford-Werke, l’Opel non ha mai usato reclusi di campi di concentramento, almeno non nelle fabbriche principali di Rüsselsheim e nel Brandenburgo. La filiale Tedesca della GM, comunque, aveva avuto un insaziabile appetito per altri tipi di lavoratori forzati, per i prigionieri di guerra. “Tipico dell’uso schiavistico del lavoro nelle fabbriche Opel, particolarmente quando venivano utilizzati i Russi”, scrive la storica Anita Kugler, “era lo sfruttamento massimo, il trattamento peggiore possibile, e...la pena capitale anche nel caso di lievi violazioni.” La Gestapo aveva l’incarico di sorvegliare e sovrintendere ai lavoratori stranieri. (56)


Un permesso di lavoro in collaborazione con il nemico

Negli USA, le case madri delle imprese delle filiali Tedesche lavoravano veramente in modo intenso per convincere l’opinione pubblica Americana sul loro patriottismo, in modo che l’uomo della strada Americano non potesse pensare che la GM, ad esempio, che in patria finanziava manifesti anti-Tedeschi, fosse coinvolta in operazioni di banche lontane, sul Reno, in attività che erano equivalenti al tradimento. (57)
Washington era molto meglio informata di “John Doe”, ma il governo Americano osservava la regola non scritta convenuta che “quello che va bene per la General Motors va bene per l’America”, ed evitava di prendere in considerazione il fatto che le imprese Americane accumulavano ricchezze tramite i loro investimenti o i loro affari in un paese con cui gli Stati Uniti erano in guerra.
Questo aveva molto a che fare con il fatto che il sistema delle imprese Americano era diventato ancora più influente a Washington durante il conflitto di quanto lo era stato dapprima; infatti, dopo Pearl Harbor i rappresentanti dei “grandi affari” si erano accalcati nella capitale in modo da prendere il controllo su molti uffici governativi importanti.
Stando alle apparenze, costoro erano motivati da un genuino patriottismo e offrivano il loro servizi per una elemosina, diventando noti per questo come “gli uomini un-dollaro-per-un-anno”. In verità, molti occupavano quei posti per garantire le loro strutture in Germania. L’ex presidente della GM, William S. Knudsen, un esplicito ammiratore di Hitler dal 1933 e amico di Göring, divenne direttore dell’Ufficio Gestionale della Produzione. Un altro direttore esecutivo della GM, Edward Stettinius Jr., divenne Segretario di Stato, e Charles E. Wilson, presidente della General Electric, divenne “il potentissimo numero due del Ministero della Produzione Bellica” (58)
Sotto queste circostanze, desta ancora meraviglia che il governo Americano abbia preferito guardare da un’altra parte, mentre le grandi imprese del paese operavano come falchi da preda nella terra del nemico Tedesco? Nei fatti, Washington effettivamente legittimava queste attività. Appena una settimana dopo l’attacco Giapponese su Pearl Harbor, il 13 dicembre 1941, lo stesso Presidente Roosevelt in via riservata emanava un decreto che consentiva alle imprese Americane di fare affari con le nazioni nemiche — o con paesi neutrali che erano in buone relazioni con i paesi nemici — per mezzo di una speciale autorizzazione. (59)
Questa disposizione chiaramente contravveniva alle norme, supposte estremamente vincolanti, contro tutte le forme di “commercio con il nemico”.  Presumibilmente, Washington non poteva permettersi di offendere le grandi imprese del paese, i cui esperti erano indispensabili per portare la guerra al successo finale.                                                                                                                         

Come ha scritto Charles Higham, “l’amministrazione Roosevelt doveva andare a letto con le compagnie petrolifere (e con le altre grandi imprese) in modo da vincere la guerra” .                               

Di conseguenza, i funzionari governativi giravano la testa da un’altra parte sistematicamente, per non vedere il comportamento non patriottico dei capitalisti Americani con investimenti all’estero, ma vi sono state alcune eccezioni a questa regola generale. “In ordine di soddisfare l’opinione pubblica”, scrive Higham, nel 1942, in modo simbolico, venivano mosse azioni legali contro la più conosciuta compagnia violatrice della legislazione sui “rapporti commerciali con il nemico”, la    Standard Oil. Ma la Standard faceva rilevare “che stava fornendo carburanti per un’alta percentuale all’Esercito, alla Marina e all’Aviazione, quindi rendendo possibile la vittoria della guerra all’America” .
Alla fine, l’impresa di Rockefeller concordava di pagare un’ammenda di poca importanza “per aver tradito l’America”, ma le veniva consentito di continuare il suo redditizio commercio con i nemici degli Stati Uniti. (60) Un tentativo di inchiesta relativa alle attività della IBM in territorio del nemico Nazista, che si potevano configurare come tradimento, veniva allo stesso modo bloccato, visto che gli USA avevano bisogno della tecnologia IBM, tanto quanto facevano i Nazisti.                  

Edwin Black scrive: “La IBM era per molti versi peggiore della guerra.” Entrambi i contendenti non avrebbero potuto procedere senza la tecnologia assolutamente essenziale della compagnia. “Hitler aveva necessità della IBM. Questo valeva anche per gli Alleati.” (Black, 333, and 348)                               

In breve, lo Zio Sam ammoniva con il dito la Standard Oil e la IBM, ma la maggior parte dei proprietari e dei managers delle corporations, che facevano affari con Hitler, non dovevano assolutamente preoccuparsi. Le connessioni di Sosthenes Behn della ITT con la Germania Nazista, per esempio, non erano un pubblico segreto a Washington, ma, come risultato di tutto questo, Behn  non veniva sottoposto ad alcuna difficoltà.                                                                                                                   

Nel frattempo, risultava che in Germania i quartieri generali degli Alleati Occidentali facilmente avrebbero avuto la possibilità  di accanirsi sulle imprese di proprietà Americana. Secondo l’esperto Tedesco Hans G. Helms, Bernard Baruch, un consigliere di alto grado del Presidente Roosevelt, aveva dato l’ordine di non bombardare certe fabbriche in Germania, o di bombardarle non in maniera pesante; è difficile sorprendersi che le affiliate delle imprese Americane cadessero in questa categoria! Ed infatti, mentre il centro storico della città di Colonia veniva raso al suolo in ripetuti raids di bombardamenti, la grande fabbrica della Ford in periferia poteva godere della reputazione di essere il posto più sicuro della città durante gli attacchi aerei, sebbene alcune bombe naturalmente cadessero occasionalmente sulle sue strutture. (Billstein et al, 98-100) (61)
Dopo la guerra, la GM e le altre imprese Americane, che avevano fatto affari in Germania, non solo non venivano penalizzate, ma anche venivano compensate per i danni subiti dalle loro sussidiarie Tedesche, come risultato dei raids dei bombardamenti Anglo-Americani. La General Motors riceveva dal governo Americano come indennizzo 33 milioni di dollari e la ITT 27 milioni di dollari. La Ford-Werke, durante la guerra, era stata danneggiata relativamente poco e aveva ricevuto più di 100.000 dollari a compensazione dallo stesso regime Nazista; anche la filiale della Ford in Francia si era azionata in modo da ricevere un indennizzo di 38 milioni di franchi dal Regime di  Vichy. Nonostante ciò, la Ford si rivolgeva a Washington per ottenere un indennizzo di 7 milioni di dollari di danni, e dopo molto disputare riceveva un totale di 785,321 dollari “per la parte di perdite riconosciute accettabili sostenute dalla Ford-Werke e dalla Ford Austriaca durante la guerra” , che la compagnia aveva rese note in un suo rapporto di recente pubblicazione. (Research Findings, 109)


Il sistema delle imprese Americano e la Germania post-bellica 

Quando finì la guerra in Europa, il sistema delle imprese Americano era ben posizionato a contribuire a stabilire esattamente cosa sarebbe dovuto succedere alla Germania in generale, e in particolare alle sue attività Tedesche. Ben prima che le armi tacessero, Allan Dulles dal suo osservatorio di Berna, in Svizzera, stabiliva contatti con le associate Tedesche delle imprese Americane, alle quali egli aveva in precedenza fornito prestazioni come avvocato nello studio  Sullivan & Cromwell, e ,quando nella primavera del 1945 i carri armati di Patton si spinsero in profondità all’interno del Reich, il boss della ITT, Sosthenes Behn, indossata l’uniforme da ufficiale Americano, si recava nella Germania in disfatta per ispezionarvi personalmente le sue filiali.     Cosa più importante, l’amministrazione nella zona della Germania occupata dagli USA abbondava di delegati di imprese, come la GM e la ITT. (62) Naturalmente, costoro erano presenti per assicurarsi che il Sistema Imprenditoriale Americano potesse continuare ad usufruire della piena rendita dei suoi lucrosi investimenti nella Germania sconfitta ed occupata.                                                     

Uno dei loro principali obiettivi era quello di ostacolare la realizzazione del Piano Morgenthau. Henry Morgenthau era Ministro del Tesoro di Roosevelt, ed aveva proposto di smantellare il sistema industriale Tedesco, e con ciò di trasformare la Germania in uno stato ad agricoltura arretrata, povera, quindi in una nazione inoffensiva. I proprietari e i dirigenti delle corporations Americane con attività in Germania erano assolutamente consapevoli che la messa in applicazione del Piano Morgenthau significava la fine per le loro affiliate Tedesche; perciò lo contrastarono con le unghie e con i denti.                                                                                                                                         

Un oppositore particolarmente esplicito del Piano era Alfred P. Sloan, l’autorevole presidente del consiglio della GM. Sloan, altri capitani di industria, e i loro delegati ed amici a Washington all’interno delle autorità di occupazione Americana in Germania, erano favorevoli ad una opzione alternativa: la ricostruzione economica della Germania, in modo che fosse loro possibile fare affari e denaro in Germania, e alla fine arrivarono ad avere quello che volevano. Dopo la morte di Roosevelt, il Piano Morgenthau venne tranquillamente accantonato e lo stesso Morgenthau, il 5 luglio 1945, fu fatto dimettere dalla sua posizione di governo di rango elevato dal Presidente Harry Truman. La Germania — o almeno la parte occidentale della Germania — doveva venire economicamente ricostruita, e le sussidiarie Statunitensi sarebbero state così le maggiori beneficiarie di questo sviluppo.(63)

 Le autorità Americane di occupazione in Germania in generale, e gli agenti delle case madri Americane delle filiali Tedesche all’interno di questa amministrazione in particolare, si trovarono di fronte ad un altro problema.  Dopo il crollo del Nazismo e del Fascismo, in Europa era diffuso un profondo modo di sentire — che si sarebbe conservato ancora per pochi anni— decisamente anti-fascista e nello stesso tempo più o meno anti-capitalista, dato che a quel tempo si era ampiamente capito che il fascismo era stato una manifestazione del capitalismo. Quasi dappertutto in Europa, ed in particolare in Germania, associazioni radicali a livello popolare, come i gruppi Tedeschi anti-fascisti o Antifas, sorsero spontaneamente e divennero influenti. Quindi avvenne che sindacati di lavoratori e partiti politici di sinistra apparvero sulla scena con buon esito; poterono godere di diffusi appoggi popolari a seguito delle loro denunce dei banchieri Tedeschi e degli industriali che avevano portato Hitler al potere e che avevano strettamente collaborato con il regime, e il consenso era manifesto quando venivano proposte riforme anti-capitaliste più o meno radicali, come la socializzazione di particolari compagnie e di settori industriali. 
Comunque, questi piani di riforme violavano i dogmi Americani riguardanti l’inviolabilità della libertà privata e della libertà di impresa, ed ovviamente erano la più importante fonte di preoccupazione degli industriali Americani con interessi in Germania. (64) Infatti, costoro erano atterriti dall’emergere in Germania di “commissioni interne di lavoratori” democraticamente elette, che esigevano di interagire negli affari delle imprese. A peggiorare la situazione, di frequente i lavoratori eleggevano dei Comunisti a far parte di queste commissioni. Questo avveniva nelle più importanti succursali Americane, alla Ford-Werke e alla Opel.
I Comunisti giocarono un ruolo importante nella commissione interna della Opel fino al 1948, quando la GM ufficialmente ripristinò alla Opel la direzione manageriale e mise fine di colpo all’esperimento. Le autorità Americane sistematicamente si opposero agli anti-fascisti e sabotarono i loro progetti di riforme sociali ed economiche a tutti i livelli della pubblica amministrazione e degli affari privati. Ad esempio, nell’impianto della Opel a Rüsselsheim, le autorità Americane collaborarono solo con riluttanza con gli anti-fascisti, mentre cercarono di fare ogni cosa in loro potere per impedire l’instaurarsi di nuovi sindacati di lavoratori e di non riconoscere alle commissioni il diritto di intervenire nelle decisioni della direzione dell’impresa. Invece di consentire lo sbocciare delle progettate riforme democratiche “provenienti dal basso”, gli Americani procedettero ad restaurare strutture autoritarie “calate dall’alto” ogni qualvolta possibile. 
Loro misero da parte gli anti-fascisti in favore di personalità della conservazione, autoritarie, di destra, compresi molti ex Nazisti. Alla Ford-Werke a Colonia, la pressione anti-fascista costrinse alle dimissioni il direttore generale, già Nazista, Robert Schmidt, ma grazie a Dearborn e alle autorità Americane di occupazione, Schmidt e tanti altri dirigenti Nazisti ritornarono ben presto saldamente in sella. (65)


Capitalismo, Democrazia, Fascismo, e Guerra

“Rispetto alle questioni su cui non si è in grado di discutere, bisogna rimanere in silenzio”, ha dichiarato il famoso filosofo Wittgenstein, e un suo collega, Max Horkheimer, lo ha parafrasato nelle considerazioni sul fenomeno del fascismo e della sua varietà Tedesca, il Nazismo, sottolineando che, se si desidera discutere di fascismo, non è possibile rimanere in silenzio sul capitalismo.
Il Terzo Reich di Hitler era un sistema mostruoso reso possibile dai leaders affaristici al vertice in Germania, e mentre questo procurava una catastrofe per milioni di persone, adempiva ad una funzione da Paradiso, come un Nirvana, per il sistema delle imprese Tedesche. Anche alle imprese di proprietà straniera veniva consentito di godere di sevizi meravigliosi. 
Il regime di Hitler era stato redditizio per “das Kapital”, con la cancellazione di tutti i partiti e i sindacati dei lavoratori, attraverso un programma di riarmo, che aveva procurato ai capitalisti immensi profitti, e, mediante una guerra di conquista, aveva eliminato la concorrenza straniera e aveva fornito nuovi mercati, con l’acquisizione di materie prime a prezzi bassi, e che era stata la fonte senza limiti di lavoratori sempre più a buon mercato, dai prigionieri di guerra ai lavoratori stranieri trattati come schiavi e agli internati dei campi di concentramento.                                                I proprietari e i managers delle imprese guida Americane ammiravano Hitler, dato che nel Terzo Reich potevano fare profitti e dove Hitler massacrava i sindacati Tedeschi e giurava di distruggere l’Unione Sovietica, patria del comunismo internazionale.                                                                      
Molte, se non tutte queste imprese, godevano pienamente dei vantaggi derivati dall’eliminazione dei sindacati dei lavoratori e dei partiti di sinistra, e l’orgia di commesse e di profitti era resa possibile dal riarmo e dalla guerra. Queste imprese tradivano il loro paese, producendo ogni sorta di equipaggiamento per la macchina da guerra di Hitler, anche dopo Pearl Harbor, e quindi obiettivamente aiutavano i Nazisti a commettere i loro crimini orrendi. Questi particolari, comunque, sembravano non sconvolgere i proprietari e le dirigenze in Germania e anche negli USA, che erano ben consapevoli di quello che stava avvenendo oltremare. Tutto quello che interessava a costoro, chiaramente, era la collaborazione incondizionata con Hitler, che consentiva loro di fare profitti come non mai; il loro motto giustamente poteva essere il seguente: “i profitti  über alles”, il profitto soprattutto. Dopo la guerra, i signori del capitale e gli associati del mostro fascista prendevano le distanze, come il Dr. Frankenstein dalla loro creatura, e in modo fragoroso proclamavano la loro preferenza per le forme democratiche di governo.                                               
Oggi, molti dei nostri leaders politici e dei nostri mezzi di comunicazione ci vogliono far credere che “libero mercato” — un linguaggio cifrato eufemistico per dire “capitalismo”— e “democrazia” sono fratelli Siamesi. Comunque, anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, il capitalismo, ed in particolare il capitalismo Americano, ha continuato a collaborare intimamente con regimi fascisti in paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e il Cile, appoggiando movimenti di estrema destra, incluse squadroni della morte e terroristi, in America Latina, in Africa e in ogni dove.                                 
Possiamo dire che nei piani alti delle corporations, i cui interessi collettivi si riflettono naturalmente nelle politiche governative Americane, è perdurata la nostalgia per il buon vecchio tempo del Terzo Reich Hitleriano, che aveva costituito un paradiso per le imprese della Germania, ma anche dell’America e di altri paesi stranieri: nessun partito di sinistra, niente sindacati, numero illimitato di lavoratori in condizioni da schiavi, ed uno stato autoritario che assicurava la disciplina necessaria e predisponeva un “boom degli armamenti” e alla fine una guerra che aveva prodotto “profitti illimitati”, come scrive Black, alludendo al caso della IBM. 
Questi vantaggi possono essere attesi più propriamente da una dittatura fascista che da una genuina democrazia, da qui l’appoggio ai Franco, ai Suharto, e a tutti i Pinochet del mondo post bellico. Ma anche all’interno delle società democratiche il capitalismo cerca attivamente il lavoro a basso costo e senza conflitti, che il regime di Hitler gli aveva servito su un piatto d’argento, e di recente questo è avvenuto in modo non palese tramite strumenti come la globalizzazione e la riduzione dello stato sociale, piuttosto che attraverso lo strumento del fascismo, a cui il capitale Americano ed internazionale ha fatto ricorso per procurare al sistema imprenditoriale il paradiso del Nirvana, del quale la Germania di Hitler aveva offerto una stuzzicante anticipazione.   


Importanti Riferimenti:

Vedi Edwin Black, “IBM and the Holocaust: The Strategic Alliance between Nazi Germany and America's Most Powerful Corporation” – (IBM e l’Olocausto: L’alleanza strategica tra la Germania Nazista e la più potente impresa Americana.) - (London: Crown Publishers, 2001)

Walter Hofer e Herbert R. Reginbogin, „Hitler, der Westen und die Schweiz 1936–1945“  - (Hitler, l’Occidente e la Svizzera 1936-1945), (Zürich: NZZ Publishing House, 2002)

Reinhold Billstein, Karola Fings, Anita Kugler, e Nicholas Levis, “Working for the Enemy: Ford, General Motors, and Forced Labor during the Second World War” – (Lavorare per il nemico: Ford, General Motors e il lavoro forzato durante la Seconda Guerra Mondiale) - ( New York: Berghahn, 2000);  Risultati di una ricerca su la Ford-Werke sotto il regime Nazista (Dearborn, MI: Ford Motor Company, 2001)


Note

1 Michael Dobbs, "US Automakers Fight Claims of Aiding Nazis- I produttori di automobili USA contrastano le affermazioni di aver aiutato i Nazisti  " The International Herald Tribune, 3 dicembre 1998.   

2 David F. Schmitz, "'A Fine Young Revolution': The United States and the Fascist Revolution in Italy, 1919–1925, - ‘Una meravigliosa giovane rivoluzione’: gli Stati Uniti e la Rivoluzione Fascista in Italia, 1919-1925," Radical History Review, 33 (settembre1985), 117–38; e John P. Diggins, “Mussolini and Fascism: The View from America – Mussolini e il Fascismo: Uno sguardo dall’America” (Princeton 1972).

3 Gabriel Kolko, "American Business and Germany, 1930–1941, - Affari Americani e la Germania, 1930-1941". “The Western Political Quarterly, 25 (dicembre1962), 714”, fa riferimento allo scetticismo che si era diffuso nella stampa economica Americana nei confronti di Hitler, dato che veniva considerato “un non conformista dal punto di vista economico e politico”. 

4 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio” (New York 2001), in modo particolare: 172–91.

5 Charles Higham, “Trading with the Enemy: An Exposé of The Nazi-American Money Plot             1933–1949 – Fare affari col nemico: un resoconto dell’intreccio di denaro fra Nazisti e Americani              1933-1949” (New York 1983), 162.

6 Webster G. Tarpley e Anton Chaitkin, "The Hitler Project, - Il piano di Hitler" capitolo 2 in “George Bush: The Unauthorized Biography – George Bush: La biografia non autorizzata” (Washington 1991). Disponibile online a http://www.tarpley.net/bush2.htm .

7 Mark Pendergrast, “For God, Country, and Coca-Cola: The Unauthorized History of the Great American Soft Drink and the Company that Makes It – Per Dio, Patria e Coca-Cola: La storia non autorizzata della grande bibita analcolica Americana e della Compagnia che la produce.” (New York 1993), 221.

8 Citazione da Manfred Overesch, “Machtergreifung von links: Thüringen 1945/46 – La presa del potere da sinistra: Turingia 1945/46 „ (Hildesheim Germany 1993), 64.

9 Knudsen descriveva la Germania Nazista, dopo una sua visita nel 1933, come "il miracolo del ventesimo secolo." Higham, “Trading With the Enemy – Fare affari col nemico”, 163.

10 Stephan H. Lindner, “Das Reichskommissariat für die Behandlung feindliches Vermögens im Zweiten Weltkrieg: Eine Studie zur Verwaltungs-, Rechts- and Wirtschaftsgeschichte des nationalsozialistischen Deutschlands – Il Commissariato del Reich per la gestione del patrimonio nemico durante la Seconda Guerra Mondiale: uno studio sulle questioni di tipo amministrativo, giuridico ed economico nella Germania Nazionalsocialista“ (Stuttgart 1991), 121; Simon Reich, „The Fruits of Fascism: Postwar Prosperity in Historical Perspective – I frutti del Fascismo: prosperità postbellica in una prospettiva storica“ (Ithaca, NY and London 1990), 109, 117, 247; e Ken Silverstein, "Ford and the Führer, - Ford e il Führer " The Nation, 24 gennaio 2000, 11–6.

11 Citazione da Michael Dobbs, "Ford and GM Scrutinized for Alleged Nazi Collaboration, - Ford e la GM sotto inchiesta per una presunta collaborazione con il Nazismo" The Washington Post, 12 dicembre 1998.

12 Tobias Jersak, "Öl für den Führer, - Petrolio per il Führer " Frankfurter Allgemeine Zeitung, 11 febbraio 1999.

13 Higham, “Trading With the Enemy - Fare affari col nemico” xvi.

14 Gli autori di un recente libro sull’Olocausto mettono anche in evidenza che “nel 1930, l’antiSemitismo era molto più visibile e impudente negli Stati Uniti piuttosto che in Germania.”     Vedi l’intervista di Suzy Hansen con Deborah Dwork e Robert Jan Van Pelt, autori di “Olocausto: una storia”, a http:/salon.com/books/int/2002/10/02/dwork/index.html.

15 Henry Ford, “The International Jew: The World's Foremost Problem – Il Giudaismo Internazionale: il principale problema mondiale.” (Dearborn, MI n.d.); e Higham, “Trading With the Enemy - Fare affari col nemico” 162.

16 Aino J. Mayer, “Why Did the Heavens not Darken? The Final Solution in History - Perché il Cielo non si è oscurato? La soluzione finale nella Storia.” (New York 1988).

17 Neil Baldwin, “Henry Ford and the Jews: The Mass Production of Hate – Henry Ford e gli Ebrei: La produzione di massa dell’odio”, 279; e Higham, “Trading With the Enemy - Fare affari col nemico”, 161.

18 Upton Sinclair, “The Flivver King: A Story of Ford-America – Il re dei macinini: la storia di Ford-America” (Pasadena, CA 1937), 236.

19 Higham, “Trading With the Enemy - Fare affari col nemico”, 162–4.

20 Vedi Bernd Martin, “Friedensinitiativen und Machtpolitik im Zweiten Weltkrieg 1939–1942 – Iniziative di pace e politica di potere nella Seconda Guerra Mondiale 1939-1942” (Düsseldorf 1974); e Richard Overy, “Russia's War – la Guerra di Russia” (London 1998), 34–5.

21 Vedi Clement Leibovitz e Alvin Finkel, “In Our Time: The Chamberlain-Hitler Collusion – Nella nostra epoca: la collusione Chamberlain-Hitler”  (New York 1998).

22 John H. Backer, "From Morgenthau Plan to Marshall Plan – Dal Piano Morgenthau al Piano Marshall," in Robert Wolfe, ed., “Americans as Proconsuls: United States Military Governments in Germany and Japan, 1944–1952 – Americani come proconsoli: I governi militari degli Stati Uniti in Germania e in Giappone, 1944-1952” (Carbondale and Edwardsville, IL 1984), 162.

23 Mooney viene citato in Andreas Hillgruber, “Staatsmänner und Diplomaten bei Hitler. Vertrauliche Aufzeichnungen über Unterredungen mit Vertretern des Auslandes 1939–1941- Uomini di Stato e Diplomatici di Hitler. Appunti riservati sui colloqui con i rappresentanti esteri 1939-1941“ (Frankfurt am Main 1967), 85.

24 Anita Kugler, "Das Opel-Management während des Zweiten Weltkrieges. Di

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NEUTRALE SUGLI EBREI. E SUI SERBI, I ROM, E GLI ALTRI?


Testo della didascalia sotto la foto di Pio XII a Yad Vashem (Museo
dell'Olocausto, Gerusalemme):

“La reazione di Pio XII all’uccisione degli ebrei durante la Shoà è
una questione controversa. Nel 1933, quando era Segretario di Stato
vaticano, si attivò per ottenere un Concordato con il regime tedesco
per preservare i diritti della Chiesa in Germania, anche se ciò
significò riconoscere il regime razzista nazista. Quando fu eletto
Papa nel 1939, accantonò una lettera contro il razzismo e
l’antisemitismo preparata dal suo predecessore. Anche quando notizie
sull’uccisione degli ebrei raggiunsero il Vaticano, il Papa non
protestò né verbalmente né per iscritto. Nel dicembre 1942, si
astenne dal firmare la dichiarazione degli Alleati che condannava lo
sterminio degli ebrei. Quando ebrei furono deportati da Roma ad
Auschwitz, il Papa non intervenne. Il Papa mantenne una posizione
neutrale per tutta la guerra, con l’eccezione degli appelli ai
governanti di Ungheria e Slovacchia verso la fine. Il suo silenzio e
la mancanza di linee guida costrinsero il clero d’Europa a decidere
per proprio conto come reagire”.

Fonte: ecumenici @...

(english / deutsch / italiano)

Handke in Kosmet consegna gli aiuti del "Premio Heine"


Si è recentemente conclusa la raccolta di fondi per il "Premio Heinrich Heine alternativo", assegnato a Peter Handke da intellettuali e militanti contro la guerra tedeschi. I 50mila euro raccolti grazie a più di 500 donatori - tra cui il nostro Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia, che ha contribuito con 770 euro - sono stati consegnati nei giorni di Pasqua dallo stesso scrittore ai serbi kosovari di Velika Hoca, dove verranno spesi sotto la supervisione della chiesa ortodossa per la locale comunità che trascorre la sua esistenza nello spazio di pochi chilometri quadrati circondati da filo spinato. 
L'incontro di Handke e degli altri suoi accompagnatori (soprattutto artisti e giornalisti) con i serbi del Kosovo si è svolto in un clima di soddisfazione ed amicizia ma anche in un contesto di tensione e militarizzazione fortissima, con le truppe KFOR dei diversi paesi occupanti schierate massicciamente nei luoghi visitati dalla delegazione.
( Sul "Premio H. Heine alternativo" si veda: https://www.cnj.it/CULTURA/handke.htm#berliner )


=== ITALIANO ===

Dal "Bollettino di Kosovo e Metohija (KIM)" del 09-04-07:
http://www.kosovo.net/news/archive/2007/April_09/1.html


Peter Handke e Claus Peymann hanno visitato il Monastero di Visoki Decani

Decani, 9 Aprile 2007

Il noto scrittore austriaco Peter Handke, il Direttore del Teatro « Berliner Ensemble », Claus Peymann, e loro colleghi, hanno visitato oggi il Monastero di Visoki Decani. Con Handke e Peymann sono giunti l'attrice Kaethe Reichel, il drammaturgo Jutta Ferbers e il politologo Eckart Spoo. Hanno trascorso le festività pasquali assieme con i Serbi di Velika Hoca ed a questa cittadina hanno consegnato il contributo di 50.000 Euro che Handke aveva ricevuto quale premio alternativo "Heinrich Heine", raccolto da più di 500 donatori. Handke aveva in precedenza espresso il desiderio che questo premio venisse distribuito agli abitanti Serbi in Kosovo e Metohija, quale gesto di sua personale solidarietà e sostegno.


Da "BLIC" quotidiano belgradese:
http://www.blic.co.yu/kultura.php?id=1267
http://www.blic.co.yu/kultura.php?id=1143

« Voglio bene a Velika Hoca ed è mio desiderio spendere i miei soldi qua. Voglio bene a questi bambini, al vino di queste parti, alla grappa di prugne e al cielo azzurro », ha detto Handke ad un gran numero di giornalisti locali e stranieri, davanti ad una delle chiese.
Handke è stato accolto dagli scrittori serbi del Kosovo, tra i quali anche da Petar Saric, l'autore di più romanzi e raccolte di poesie, che ha proposto che tra 50 o 60 anni una delle vie più belle di Belgrado porti il nome di Handke.
Peter Handke e Claus Peymann parteciperanno alla liturgia pasquale e si recheranno a Velika Hoca entro lunedì. In seguito visiteranno il Monastero di Visoki Decani e altri templi della Chiesa Ortodossa Serba in Kosovo.

(a cura di DK e AM)

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Embattled playwright aids Serb enclave


Published Apr 14, 2007 9:48 AM

Austrian playwright and poet Peter Handke has turned over his entire Alternate Heinrich Heine prize of over 50,000 Euros ($65,000) to the embattled enclave of Serbian people living in rightist-ruled and NATO-occupied Kosovo.

Anyone who has paid attention to Handke’s career path in the past year might wonder how he was in a position to do this. The outspoken Handke had opposed NATO’s war on Yugoslavia and German imperialism’s excuses for subverting and destroying that multinational country in the Balkans.

In March 2006, at a time when he was about to receive the official Heinrich Heine Prize from the Dusseldorf City Council, Handke was in Belgrade speaking at the memorial service for the late Yugoslav President Slobodan Milosevic. The Yugoslav leader had died in prison in The Hague, where he was fighting charges of alleged war crimes but had not been convicted.

When they heard that Handke was speaking in Belgrade, Dusseldorf City Council members tried to stop the prize. Handke withdrew before the council could take action.

Next, a Handke play was going to be performed in Paris. The French ruling class put pressure on the theater company, forcing the play’s cancellation.

The German anti-war movement and especially theater people active in it came to the rescue. They created an Alternate Heinrich Heine Prize, funded by donations, many coming from progressives in the arts. They collected the funds that Handke, was pleased to turn over to the Serbian enclave, which many describe as a “ghetto.” Rightist Albanian organizations that have been running Kosovo since the NATO invasion have persecuted the Serb community and driven many people out of the province.


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10.04.2007 / Schwerpunkt / Seite 3

Dorf unter dem Himmel


Berliner Heinrich-Heine-Preis gespendet: Schriftsteller Peter Handke übergibt 50000 Euro an serbische Enklave im Kosovo. NATO-Truppen in Alarmbereitschaft
Von Peter Wolter, Velica Hoca

Es war über Ostern das Medienereignis im serbischen Fernsehen: Der österreichische Schriftsteller Dichter Peter Handke übergab am Sonntag die 50000 Euro des »Berliner Heinrich-Heine-Preises« an die Bewohner der Enklave Velica Hoca im Kosovo. Dort halten seit Jahren etwa 650 Serben aus, umgeben von feindseligen Albanern, geschützt von Stacheldraht und Patrouillen der UN-Schutztruppe KFOR.

Ursprünglich sollte Handke im vergangenen Jahr mit dem gleich hoch dotierten Düsseldorfer Heinrich-Heine-Preis ausgezeichnet werden. Eine unabhängige Jury hatte ihm die Auszeichnung zuerkannt, was jedoch kleingeistigen Kommunalpolitikern vor allem grüner Provenienz mißfiel. Ihr Vorwurf: Handke sei ein Freund der Serben. Außerdem habe er den früheren serbischen Präsidenten Slobodan Milosevic im NATO-Gewahrsam in Den Haag besucht und – schlimmer noch – bei dessen Beerdigung eine Grabrede gehalten. Die Provinzialität Düsseldorfs setzte sich ausgerechnet in Paris fort: Die Cómedie Francaise nahm aus demselben Grund ein Handke-Stück aus dem Spielplan. 

Die Frankfurter Allgemeine, der Spiegel und andere Druckerzeugnisse, die sich als Qualitätsblätter ausgeben, legten flugs nach: Den NATO-Bomben auf Serbien wurden Stinkbomben auf Handke hinterhergeworfen, der Dichter wurde als Apologet des Völkermordes und Tyrannenfreund verleumdet. Angeekelt verzichtete Handke auf den Düsseldorfer Preis.

Die Schauspieler Rolf Becker und Käthe Reichel sowie der Journalist Eckart Spoo wollten sich mit dem Skandal nicht abfinden. Sie gründeten flugs den »Berliner Heinrich-Heine-Preis«, weitere Intellektuelle wie Dietrich Kittner, Arno Klönne, Claus Peymann, Monika und Otto Köhler sowie Ingrid und Gerhard Zwerenz schlossen sich an. Nach kurzer Zeit waren 50000 Euro gesammelt, die Handke dann am Sonntag als demonstrative Solidaritätsspende an die Bewohner der Enklave Velica Hoca übergab. »Ich bedanke mich bei allen Einwohnern, daß sie hiergeblieben sind und immer noch hier leben«, erklärte der österreichische Schriftsteller. »Velica Hoca heißt in der alten Sprache: Viele Väter. Ich wünsche mir heute einen anderen Namen: Viele Kinder.« Unter dem Applaus der Serben sagte Handke weiter: »Dann habe ich noch einen dritten Namen für Velica Hoca heute: Dorf unter dem Himmel.«

Die verarmte Gemeinde liegt auf einer Hochebene, umgeben von albanischen Siedlungen. Immer wieder, so schildern Dorfbewohner, kam es zu Übergriffen von Albanern, die von der Terrororganisation UCK aufgehetzt worden waren. Die Zufahrten zum Dorf sind seit Jahren mit Stacheldrahtrollen gesichert, die im Ernstfall schnell über Straßen und Wege gezogen werden können. Auf einer Anhöhe gegenüber dem Dorf befindet sich ein Beobachtungsposten, der mit UN-Soldaten aus der Schweiz und Österreich besetzt ist. 

Das Vorhaben des prominenten Österreichers, sein Preisgeld der Gemeinde Velica Hoca zu übergeben, muß bei der UN-Truppe KFOR Besorgnis ausgelöst haben. Die Fahrzeuge, mit denen Handke und die Mitglieder der Berliner Initiative vom Flughafen der Kosovo-Provinzhauptstadt Pristina nach Velica Hoca fuhren, wurden von der albanischen Polizei eskortiert, im Ort selbst warteten weitere Polizeifahrzeuge. Hin und wieder sahen UN-Patrouillen nach dem rechten. Und zur Ostermesse, kurz vor der offiziellen Preisübergabe, erschien – angeblich mit österlicher Betabsicht – vor dem Kirchlein des Dorfes auch noch ein Trupp georgischer UN-Soldaten, angeführt von einem deutschen Militärseelsorger. Die KFOR hatte wegen des Handke-Besuches vorsorglich Alarm ausgelöst, wie ein österreichischer Soldat im Privatgespräch verriet.



13.04.2007 / Abgeschrieben / Seite 8

Zur Reise Peter Handkes ins Kosovo


Die Frankfurter Rundschau ging am Donnerstag im Feuilleton auf die Reise des Schriftstellers Peter Handkes in die serbische Enklave Velica Hoca und die Übergabe des privat gesammelten Berliner Heinrich-Heine-Preisgeldes am vergangenen Wochenende ein:

(...) Peter Handke ist also wieder auf Reisen gegangen; das vom Berliner Ensemble gestiftete Preisgeld – 50000 Euro – des alternativen Heinrich-Heine-Preises sollte jenem verarmten, entvölkerten serbischen Dorf zukommen nach Handkes Wunsch und Willen. Der echte Heine-Preis wurde ihm bekanntlich gegen die Entscheidung der Jury von Düsseldorfer Politikern verwehrt, weil diese an Handkes Auftritt auf der Beerdigung von Slobodan Milosevic Anstoß genommen hatten. Der einfühlsame Zeit-Reporter [Wolfgang Büscher] nennt Milosevic jetzt einen »mutmaßlichen Kriegsverbrecher nach allgemeiner Ansicht im Westen«. Mutmaßlich hätte genügt. (...) Die Stimmung auf dem Ostertrip soll hervorragend gewesen sein – auch dank des »Reisemarschalls« Claus Peymann. Seinen zukünftigen Praktikanten Christian Klar hatte der BE-Chef leider noch nicht dabei; der hätte die Szene sicher prima ausgeleuchtet.



14.04.2007 / Fotoreportage / Seite 4 (Beilage)

Blick in den Elendstrichter


Der österreichische Dichter Peter Handke machte den Kosovo-Serben Mut
Von Peter Wolter (Text) und Gabriele Senft (Fotos)

Ihre Weinberge außerhalb des Ortes können die Bauern der serbischen Enklave Velica Hoca kaum noch bestellen – sie haben Angst, dort von Albanern erschlagen zu werden. Ihr Dorf im Südwesten des Kosovo, der als Elendstrichter Europas gilt, ist durch Stacheldraht gesichert, immer wieder fahren UN-Patrouillen durch die Straße. Arbeit hat hier kaum jemand, ohne Sozialhilfe aus Belgrad könnten wohl nur wenige überleben. Die Gesichter sind besorgt, vielen sieht man die Angst an: Vor der Zukunft und um ihr Leben. 

Ein wenig Hoffnung brachte über Ostern der Besuch des österreichischen Dichters Peter Handke. Der war zu diesem vergessenen Dorf gereist, um den 640 Einwohnern die 50000 Euro des Berliner Heinrich-Heine-Preises zu überreichen, die auf Initiative der Schauspieler Käthe Reichel und Rolf Becker sowie des Journalisten Eckart Spoo gesammelt worden waren. 

Der Preis war das Produkt eines unerhörten Literaturskandals. Eine unabhängige Jury hatte den Heinrich-Heine-Preis der Stadt Düsseldorf Handke zuerkannt. Dann wurden in der Öffentlichkeit und im Stadtrat üble Beschimpfungen laut, weil der Dichter sich erdreistet hatte, eine eigene Meinung über den Krieg gegen Serbien zu haben. Entnervt verzichtete Handke und die Berliner Initiative sprang in die Bresche. 

Unter Polizeischutz war die Delegation, der auch der Intendant des Berliner Ensembles, Claus Peymann, angehörte, vom Flughafen in Pristina durch Albanergebiet nach Velica Hoca gefahren. Etliche Passanten schüttelten drohend die Fäuste, sobald sie den Bus mit Belgrader Kennzeichen ausmachten.

Vor der Dorfkirche harrte die lokale Prominenz: Bürgermeister, Lehrer, orthodoxe Priester, Neugierige. Erste Stufe der Begrüßung: Brot, Salz und einem Gläschen Rakija. Zweite Stufe: Küßchen links, Küßchen rechts, Küßchen links. Dritte Stufe: kurze Ansprachen. Vierte Stufe: Willkommensessen mit Gemüse, Fisch und Rakija. 

Am nächsten Morgen nach der orthodoxen Messe in der Dorfkirche »Sveti Stefan« noch schnell ein Besuch im außerhalb des Ortes gelegenen und ebenfalls von UN-Soldaten bewachten Kloster; der Abt höchstpersönlich schenkt Rakija ein. Dann die Übergabe des Geldes – die Gemeinde bedankt sich mit einem Fäßchen Schnaps, die Geistlichkeit mit einer frisch gemalten Blattgold-Ikone. Die 50000 Euro, so Bürgermeister Dejan Baljosevic, sollen in die Renovierung der Kirche gesteckt werden, außerdem möchte man eine Peter-Handke-Stiftung zur Förderung serbischer Maler einrichten, die in dem Dorf selbst arbeiten sollen.

Die Religion ist offenbar der einzige Halt für viele Kosovo-Serben, die erst die Zerschlagung Jugoslawiens, den Krieg und dann die Verfolgung durch aufgehetzte Albaner erleben mußten. Die orthodoxe Kirche bestimmt das Leben der gesamten Gemeinde; Priester und Äbte genießen hohes Ansehen. 

In der Nachbarenklave Orahovac mußte der am Ortsrand gelegene Friedhof aufgegeben werden – Albaner hatten immer wieder die Gräber verwüstet. Die Toten werden jetzt unmittelbar neben der Kirche begraben. Seitdem die Telefongesellschaft einen Mobilfunkmast mitten in der Enklave aufstellte, können die meist alten Leute auch wieder mit ihren Verwandten telefonieren – Albaner hatten den alten Funkmast umgerissen. 

Die abschüssige Straße zum albanischen Ortsteil ist auf beiden Seiten mit ausgebrannten Häusern gesäumt. »Vor vier Jahren wollte uns der Mob über diese Straße angreifen«, berichtet die Englischlehrerin der Enklave. »Die haben alle Häuser angesteckt und sind über jeden hergefallen, der nicht rechtzeitig fliehen konnte. Sie wurden erst durch UN-Soldaten gestoppt.« Seitdem liegen am Straßenrand etwa alle 30 Meter Stacheldrahtrollen, mit denen der Weg versperrt werden kann. 

Die Serben wagen sich kaum noch aus ihrer Stacheldrahtfestung heraus. In die kleinen Fabriken unten in der Stadt, wo früher viele von ihnen gearbeitet hatten, wagt sich niemand mehr. »Hin und wieder kommen aber Albaner zu uns, wenn es dunkel ist«, sagt die Lehrerin. »Sie wollen mal wieder Schweinefleisch essen und ein Bier trinken.«





www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 06-04-07 


 
Inganno storico, ovvero la storia di un inganno

 

Aleksandar Vuksanovic

 

10 marzo 2007

 

Non appena è stata resa nota la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che discolpava la Serbia (vedremo se definitivamente) dall’accusa di genocidio presumibilmente commesso durante la guerra civile bosniaca, sono subito apparsi articoli, anche in “Rebelion”, che senza rigore e con poca conoscenza dei fatti, tentano di gettare luce sui punti più oscuri della tragedia balcanica. In maggioranza, certamente essi mantengono una linea che non mi sembra errata. Accusano (e anch’io sottoscrivo tale accusa) l’aggressivo paternalismo occidentale con il proprio profilo politico, economico, culturale e naturalmente militare.

 

Ciononostante, nelle affermazioni che fanno riferimento alla Jugoslavia, o, in questo caso, alla Bosnia, si è soliti ripetere accuse (fino alla sazietà) che io considero molto discutibili.

 

In breve:

 

1. Io non credo che ci sia stata un’aggressione serba in Bosnia, ma che piuttosto ci siamo trovati di fronte ad una tipica guerra civile. Serbi (e croati) non sono venuti ad aggredire un paese straniero, dal momento che da secoli vivono in Bosnia. Nel caso dei serbi, è arcinoto che prima della guerra, rappresentando la popolazione maggioritaria nelle campagne, possedevano circa il 60% del suolo bosniaco. Questa guerra civile è stata estremamente crudele, perché vi partecipavano tre fazioni, che hanno creato un conflitto che, letteralmente, è stato di tutti contro tutti. A seconda della zona e degli interessi locali, possiamo distinguere tutte le possibili alleanze e inimicizie. Anche se al lettore poco informato sui particolari, potrebbe risultare difficile capire, è certo comunque che in Bosnia hanno lottato anche musulmani contro musulmani, nel nord-est del paese (a Velika, Bihac e Cazin). Serbi contro croati, croati contro musulmani, serbi contro musulmani, serbi e croati alleati contro musulmani, questi a loro volta alleati con i serbi contro i croati, musulmani con croati contro serbi… La confusione di conflitti e lotte di fazione potrebbe risultare comica, se non fosse così tragica. Si è trattato, pertanto, di un’autentica guerra civile, e non di “un’aggressione serba”, come hanno ripetuto i media, ignorando intenzionalmente che i serbi vivevano in Bosnia da molti secoli, e che perciò non erano aggressori esterni.

 

2. Il numero dei morti, indubbiamente elevatissimo, è oggetto di stime molto discordanti. Si è soliti parlare di 250 mila. Il dolore di tutte le vittime civili, qualsiasi sia stata la loro nazionalità, è anche il mio e non posso ignorarlo. Sono anche sostenitore della massima severità penale nei confronti dei colpevoli. Ma allo stesso tempo, devo dire anche che, alla stessa stregua del Kosovo, il numero di corpi che si sono ritrovati è estremamente inferiore e che, come ho già detto molte volte, non esiste un censimento della popolazione. In Bosnia non ci sono combattimenti dalla metà dell’anno 1995. Dalla fine di quello stesso anno il controllo politico, militare e, se si vuole, poliziesco, lo esercita “la comunità internazionale”. D’altro canto, la Bosnia è un paese piccolo, con circa 4 milioni di abitanti. Tutto ciò lo menziono perché nutro dubbi molto seri sul fatto che sia stato impossibile organizzare un censimento. Non lo si è fatto perché continui il balletto delle cifre e perché le vittime siano usate da ciascuno a proprio uso e consumo; una vergogna per tutti noi che ci consideriamo mediamente civilizzati e che desideriamo conoscere la verità sui morti.

 

L’espressione “campi di concentramento” è ormai abusata e fa parte della strategia che si propone di demonizzare noi serbi, paragonandoci ai nazisti. Non dico che non sono esistiti, semmai il contrario, ma sarebbe più serio chiamarli campi di detenzione. Ad esempio, Emilio de Diego (professore della UCM, della Scuola Diplomatica e membro di FAES!) nei suoi libri afferma che i serbi avevano lo stesso numero di simili campi (certamente nefasti) dei croati. Di questi ultimi non si è mai sentito pronunciare una sola parola. E ci sono anche stati campi comuni croato-musulmani e campi musulmani. Ripeto, i campi sono un fatto ripugnante e intollerabile, ma hanno forse diritto i musulmani bosniaci di denunciare qualcosa che anch’essi hanno commesso in ugual misura, con l’unica differenza che ciò non è arrivato alla stampa? E l’hanno fatto dopo aver diviso violentemente un paese internazionalmente riconosciuto come la Jugoslavia, per reclamare quel diritto all’autodeterminazione che ora negano alla Repubblica Srpska e ai croati di Herzeg Bosna. Ho citato in questa occasione Emilio de Diego in primo luogo per i suoi ottimi lavori sui Balcani, ma anche perché non è certo sospettabile di simpatie per i serbi. Ci sono altri testi che spiegano ancora meglio questa situazione. A partire dall’eccellente analisi “L’illusione jugoslava” di Josep Palau, questi libri sono purtroppo stati messi all’indice in quanto “filo-serbi”.

 

Sarebbe opportuno dire che ci sono momenti della guerra di Bosnia, la cui strumentalizzazione da parte dei media non ha alcuna relazione con quanto è successo realmente. E’ il caso della fotografia tristemente famosa dei musulmani detenuti in quello che fu definito un “campo di concentramento” dei serbi. Con il passare del tempo, il montaggio realizzato è stato abbondantemente screditato, ma come accade quasi sempre, la verità si è saputa tardi ed è stata ignorata dagli stessi media che si erano dilettati con la montatura. Direi che con moltissimo ritardo e quasi senza alcun effetto nel panorama dell’informazione, era apparso l’articolo pubblicato in El Pais del 17 agosto 1997 dal titolo “Una foto con due versioni”, di Phillip Knightley; o l’articolo del proibito Egin dal titolo “La falsa conquista del campo di Trnopolje”, apparso il 6 aprile 1997. A proposito del campo di Trnopolje, esiste un curioso documentario intitolato “The picture that fooled the world” (facilmente reperibile in internet, della durata di appena mezz’ora), molto raccomandabile per tutti coloro che vogliono vedere il lavoro sporco dei mezzi di comunicazione in tutto il suo splendore.

 

Disgraziatamente, ho la sensazione che la maggioranza di coloro che parlano spagnolo, mi azzarderei a dire persino la maggioranza di coloro che si autodefiniscono di sinistra, considerano quei testi che senza alcun criterio rovesciano insulti e calunnie sui serbi, come completamente corretti, e ne salutano l’apparizione. Ma, se vogliamo essere imparziali e conseguenti, se la sinistra spagnola realmente “combatte il Neoliberalismo da una posizione anticapitalista e antimperialista”, come proclamano alcuni portavoce dell’istrionismo antiserbo nelle loro pagine, mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse perché, ad esempio, durante le manifestazioni, quando si chiede il ritiro delle truppe della NATO dall’Iraq, dal Libano, dall’Afghanistan, non si chieda allo stesso tempo il ritiro della NATO dal Kosovo e dalla Repubblica Serba di Bosnia? Persino loro, i “sinistri” europei, in nome del diritto dei popoli balcanici a formare propri stati nazionali, preferiscono chiudere gli occhi per non riconoscere che noi serbi dovremmo godere dello stesso diritto. Dicono di difendere l’autodeterminazione, ma, al contrario, dimenticano che nella Bosnia così vezzeggiata, la metà dei suoi cittadini (serbi e croati di Bosnia) vogliono vivere in un proprio paese. Dimenticano che la Serbia è l’unico paese nato dalle ceneri dell’ex Jugoslavia etnicamente mista, dal quale nessuno è stato espulso per ragioni etniche o religiose. Senza andare più lontano, nella stessa Belgrado vivono varie decine di migliaia di albanesi. Quanti serbi vivono a Sarajevo, Pristina o Zagabria? Dimenticano anche di non aver fatto nulla per esigere il ritorno in condizioni di sicurezza dei serbi cacciati dalle loro case in Croazia e, soprattutto, nel Kosovo, che entrambe assommano più di mezzo milione di persone abbandonate in tutto il mondo.

 

Non dimenticano unicamente, ripetendole instancabilmente, le grida di guerra contro i serbi, che possiamo leggere in quegli stessi media capitalisti e imperialisti che sostengono di continuare a combattere.

 

Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare


( srpskohrvatski.

Una presentazione in lingua italiana di NOVI PLAMEN si può leggere alla pagina:

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NOVI PLAMEN
za slobodu, mir i socijalnu pravdu

godina I - broj I - ozujak/mart 2007.

Članci broja: 
Goran Marković, 'Socijalizam i demokratija'
Filip Erceg, 'Presjek plamena iz 1919'
Mladen Jakopović, 'Humanisti o smrtnoj kazni'
Miloš Ranković, 'Izbori u Srbiji'
Goran Marković, 'Konstituisanje vlasti u Bosni i Hercegovini'
Intervju, 'Projekt za socijalizaciju Hrvatske'
Drago Pilsel, 'Kršćanin na ljevici'
Inoslav Bešker, 'A kog će vraga Hrvatska u NATO?'
Filip Erceg, 'Petnaest godina hrvatske državnosti'
Uvodnik, 'Novi glas naroda'
NP, 'Alternativni abecedarij'
Intervju, 'Radnik ne smije biti rob(a)'
Srećko Pulig, 'Da li je marksizam danas značajan?'
Mladen Jakopović, 'Svjetski rat protiv djece'
Jasna Tkalec, 'Gasi li se crveni plamen'
Nikola Vukobratović / Goran Marković, 'Izborne pobjede latinoameričke ljevice'
Mladen Jakopović, 'Europa kao kultura promicanja vrijednosti'
josip Pejaković, 'Bila jednom jedna zemlja'
Todor Kuljić, 'Jugoslavenstvo 21. veka'
Vladimir Unkovski - Korica, 'Udar na neoliberalizam'

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I M P R E S S U M

"Novi Plamen", list za politička, društvena i kulturna pitanja


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(italiano / english)

German Revanchism against Serbia


L'ambasciatore della Germania a Belgrado dichiara: o rinunciate al Kosovo, oppure faremo in modo da strapparvi anche Sangiaccato e Vojvodina. È la riformulazione esplicita del progetto nazista di squartamento della Serbia, riaffermato con l'arroganza neocoloniale "europeista" del XXI secolo. 


=== ITALIANO ===

KOSOVO: AMBASCIATORE TEDESCO SI SCUSA,AFFERMAZIONI PERSONALI

BELGRADO - L'ambasciatore tedesco in Serbia, Andreas Zobel, si e' scusato per le sue dichiarazioni sul Kosovo - all'origine oggi di una tempesta di polemiche da parte di Belgrado - precisando che si e' trattato di affermazioni in parte fraintese, ma comunque rilasciate ''a titolo personale'', senza alcun coinvolgimento del governo di Berlino o dell'Ue. ''Mi scuso per quelle che forse sono state dichiarazioni non chiare e soprattutto se si e' creata l'impressione che io non abbia abbastanza comprensione per il Paese che mi ospita'', ha detto Zobel in una conferenza stampa-lampo, dopo le proteste dell'intero mondo politico serbo seguite a un suo intervento nel quale egli aveva criticato il 'no' di Belgrado ai piani di indipendenza sorvegliata delineati per la provincia albanofona del Kosovo, evocando per di piu' rischi di allargamento del contagio secessionista al Sangiaccato e alla Vojvodina. ''Tutte le dichiarazioni, che siano state diffuse in modo fedele o sbagliato, appartengono solo a me'', ha sottolineato Zobel, il quale ha poi smentito almeno un punto del discorso attribuitogli: quello in cui era parso ipotizzare - di fronte alla rigidita' di Belgrado sul dossier kosovaro - una rinascita di pretese ungheresi su un'altra provincia autonoma serba come la Vojvodina. Ipotesi che peraltro gia' l'ambasciata ungherese si era affrettata nelle ore precedenti a escludere seccamente, negando qualsiasi pretesa territoriale verso la Serbia. Le precisazioni dell'ambasciatore non sembrano tuttavia bastare al governo serbo del primo ministro conservatore Vojislav Kostunica, che ha annunciato una dura protesta formale e una richiesta di spiegazioni verso la Germania. E neppure al presidente della repubblica, il liberale e filo-europeo Boris Tadic, il quale ha a sua volta promesso una nota di protesa al suo omologo tedesco e ha sollecitato il governo di Berlino a ''dissociarsi ufficialmente'' dal suo ambasciatore. RED
12/04/2007 18:07 

KOSOVO: BUFERA SU AMBASCIATORE TEDESCO, SERBIA PROTESTA/ANSA

(di Alessandro Logroscino) (ANSA) - BELGRADO, 12 APR - E' bufera nella relazioni tra Serbia e Germania dopo l'inattesa 'lezione anti-serba' impartita a domicilio sul delicato dossier kosovaro dall'ambasciatore tedesco nel Paese ex jugoslavo, Andreas Zobel. Parole, quelle di Zobel, che hanno suscitato reazioni indignate a Belgrado, con l'annuncio di una ''ferma nota di protesta'' verso Berlino, e che minacciano di trasformarsi in un boomerang capace di rendere ancor piu' rigido il muro contro muro sul Kosovo. Tutto e' cominciato con un intervento del diplomatico a un forum - teoricamente a porte chiuse - promosso da un movimento europeista serbo. Intervento nel quale Zobel, a quanto pare, ha messo in un cantuccio la diplomazia non lesinando critiche e ironie contro la politica del Paese presso cui e' accreditato. Ai vertici di Belgrado l'ambasciatore ha rimproverato una posizione ''perdente'' sul Kosovo, irridendo la leadership serba e i suoi ''intelligenti consiglieri'' per non essere capaci di ammettere ''la volonta' d'indipendenza'' della maggioranza albanese della provincia contesa. Non solo: Zobel ha aggiunto che la Serbia meriterebbe ''una elite politica migliore'' e ha avvertito i governanti del Paese balcanico che insistere nel loro strenuo rifiuto del piano di ''indipendenza sorvegliata'' delineato per la regione dal mediatore Onu Martti Ahtisaari (con il sostegno di Usa e Ue) potra' solo spostare questo approdo ''di due mesi''. Mentre rischia - a suo dire - di provocare contraccolpi irredentisti in altre province autonome serbe oggi relativamente quiete, come la Vojvodina (abitata da una forte minoranza ungherese) o il Sangiaccato (per il 40% musulmano). Come se non bastasse, l'ambasciatore si e' avventurato poi sul terreno della memoria storica, andando a toccare una delle corde piu' sensibili - anche in termini di retorica politica - per l'opinione pubblica serba. E ha messo in questione i legami secolari tra Serbia e Kosovo, testimoniati dai monasteri ortodossi del 1100 e 1200, sottolineando come in fondo la provincia fu inclusa come tale nel moderno Stato serbo ''solo nel 1912'', cosi' come la Vojvodina vi fu annessa ''nel '18''. Richiami che sono esplosi come una bomba sui giornali e nel mondo politico belgradese, travolgendo il disperato tentativo della sede diplomatica di circoscriverle come frasi ''mal riportate ed estrapolate dal contesto''. Fino alla conferenza stampa lampo in cui Zobel in persona si e' piegato stasera a chiedere scusa per quelle che ha definito ''dichiarazioni forse non chiare'', espresse comunque ''a titolo personale'' e senza alcun coinvolgimento del governo di Berlino o dell'Ue. Una marcia indietro condita dalla smentita esplicita almeno su un punto del discorso attribuitogli: quello in cui era parso ipotizzare - di fronte alla rigidita' di Belgrado sul Kosovo - una rinascita di pretese ungheresi a tutela della minoranza magiara della Vojvodina. Costringendo cosi' anche l'ambasciata di Budapest a entrare nella disputa, con un secco comunicato in cui si negava qualsiasi rivendicazione territoriale anti-serba. Le mezze scuse non bastano tuttavia a placare il governo del premier conservatore Vojislav Kostunica, fermo sulla richiesta di ''spiegazioni'' rivolta a Berlino e sull'annuncio di una protesta formale contro ''le grossolane interferenze dell'ambasciatore Zobel negli affari interni della Serbia''. Sulla stessa lunghezza d'onda il presidente della Repubblica, il filo-europeo Boris Tadic, il quale ha a sua volta promesso una nota di protesta all'omologo tedesco Horst Koheler ed e' giunto a sollecitare la cancelleria di Berlino a ''dissociarsi ufficialmente'' dal suo plenipotenziario a Belgrado. Deplorazioni a cui si sono associati un po' tutti, dai serbi del Kosovo alla Chiesa ortodossa. Fino ai partiti liberal piu' convintamente vicini all'Occidente, amareggiati da una polemica destinata a portare fieno in cascina ai revanscisti. Come ha subito confermato il leader della opposizione ultranazionalista serba, Tomislav Nikolic, pronto a cogliere la palla al balzo per ricordare i precedenti storici della Germania nazista nei Balcani e a invocare addirittura il richiamo dell'ambasciatore serbo da Berlino e l'espulsione come ''persona non grata'' di Zobel. O il vetero-socialista Ivica Dacic, secondo il quale tutto questo significa una cosa sola: ''Che la Germania e l'Occidente pianificano da almeno 15 anni una strategia di totale disintegrazione della Serbia. E che quindi Slobodan Milosevic aveva ragione''. (ANSA). LR
12/04/2007 19:23 


=== ENGLISH ===

Source: Rick Rozoff 

through Stop NATO - http://groups.yahoo.com/group/stopnato

and Yugoslaviainfo - http://groups.yahoo.com/group/yugoslaviainfo

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http://www.iht.com/articles/ap/2007/04/12/europe/EU-GEN-Serbia-Germany.php

Associated Press
April 12, 2007

Serbia demands explanation of German ambassador's
comments on Kosovo

-Zobel's comments were "not so much result of
ignorance but his intention ... to redraw borders" in
the Balkans, said Ivica Dacic, the president of the
Socialists.
The...opposition Radical Party went even further,
demanding that Germany recall Zobel from his post.

BELGRADE, Serbia - The government accused Germany's
ambassador Thursday of meddling in Serbia's internal
affairs and demanded an explanation of the diplomat's
comments urging Belgrade to accept a U.N. plan that
envisages independence for Kosovo.

In remarks during a panel discussion in Belgrade on
Tuesday, Ambassador Andreas Zobel warned that if
Serbia continues to oppose the U.N. plan for the
southern Serbian province, it risks seeing questions
raised about other parts of its territory.

He mentioned the semiautonomous province of Vojvodina,
as well as Sandzak, a southern region that is home to
a sizable Muslim minority.

"Despite Serbia's hospitality, the ambassador ...
showed disrespect to the dignity of state institutions
of Serbia," the government said in a statement.

It said it expected an "explanation from the
government of Germany ... if the ambassador expressed
the official position."

The German Embassy issued a statement saying that the
ambassador's remarks were "misunderstood" and had been
taken out of context.

Kosovo is an emotional issue in Serbia, where the
province is considered the birthplace of Serb
nationhood. Kosovo has been under U.N. administration
and patrolled by NATO peacekeepers since a 78-day,
NATO-led air war halted a Serb crackdown on ethnic
Albanian separatists in 1999.

More than a dozen Serb officials, party leaders and
academics reacted to Zobel's remarks, particularly to
his warning that Serbia's invoking of history on the
Kosovo issue could encourage neighboring Hungary to do
the same about Vojvodina, the northern province that
was part of the Austro-Hungarian Empire until 1918.

The German Embassy stressed that Zobel "at no point"
said Hungary would raise an issue over Vojvodina.

Zobel's comments were "careless and undiplomatic,"
said Zarko Korac, the head of the liberal Social
Democrats. "Reopening of the issue of Serbia's borders
is really not advisable at this moment."

A representative of the Muslim minority in Sandzak,
Rasim Ljajic, said Zobel's comments were
"inappropriate" but also called for calm "because it
would be wrong to respond now with strong rhetoric"
against the German diplomat.

The uproar, however, continued, with condemnation
coming from...Socialists....

Zobel's comments were "not so much result of ignorance
but his intention ... to redraw borders" in the
Balkans, said Ivica Dacic, the president of the
Socialists.

The...opposition Radical Party went even further,
demanding that Germany recall Zobel from his post.

---

http://www.srbija.sr.gov.yu/vesti/vest.php?id=33167

[As to the German ambassador to Serbia's recent
pronouncement - to wit, that if Serbia didn't agree to
its province of Kosovo being wrenched from it by the
West that it would be thoroughly torn apart with
Vojvodina being ceded to Hungary and Sandzak to Bosnia
- in essence a variant of Germany's policy toward
Serbia in the years 1941-1944, see former German
foreign minister Joschka Fischer's comments in today's
Zaman of Turkey:
http://www.todayszaman.com/tz-web/detaylar.do?load=detay&link=108071]

Government of Serbia
April 12, 2007

Serbian government sends most severe protest to German
government regarding Ambassador Zobel’s statement

Belgrade – The Serbian government decided at its
session today to send a most severe protest to the
German government because of the statements of German
Ambassador to Belgrade Andreas Zobel in which he most
impertinently meddles in Serbia’s internal affairs.

Ambassador Zobel has in many ways brought up the issue
of Serbia’s territorial integrity and sovereignty, as
well as the issue of the inviolability of its
internationally recognised borders, reads the Serbian
government statement and adds that despite the
hospitality he was shown in Serbia, Ambassador Zobel
has demonstrated disrespect for the dignity of state
institutions in this country.

The Serbian government rightfully awaits an
explanation from the German government on whether
Ambassador Zobel stated the German government’s
official position and points out that in all previous
contacts between Serbia and Germany at the highest
state level the countries showed and confirmed
willingness to maintain satisfactory relations.

We hope to receive a clear explanation from the German
government on Ambassador Zobel’s statements as soon as
possible, concludes the statement.

---

http://www.srbija.sr.gov.yu/vesti/vest.php?id=33185

Government of Serbia
April 12, 2007

Serbian government reacts in appropriate manner to
foreign affairs activities of other countries

Belgrade - Serbian Minister of Science and
Environmental Protection Aleksandar Popovic said that
the Serbian government defends the country's interests
in an appropriate way and reacts to foreign affairs
activities of other countries.

That is why it decided today to send a most severe
protest to the German government because of the
statements of the German Ambassador to Belgrade
Andreas Zobel in which he most impertinently meddles
in Serbia’s internal affairs.

Speaking at a press conference held after the
government's 193rd session, Popovic explained that the
government addressed the public with a statement
clearly setting out the measures it had taken on that
issue and that it will not make any more statements
until it receives a response from the German
government.

The Minister said that at its session today, the
government decided to set up an interim organ of the
Leskovac municipality and to appoint the president and
members of that organ.
....




( Il manifesto di questa iniziativa, in formato PDF, è visualizzabile alla pagina:
Sulla mostra "Jasenovac - Erano solo bambini" si veda anche: 


Comune di Napoli
Assessorato alla Memoria della Città

Archivio Storico del Movimento Operaio
Con la collaborazione dell’A.N.P.I. – sez. di Napoli
Comune di Napoli
Assessorato alla Cultura

Giovedi 12 aprile ore 13.00/19.00 – Venerdi 13 aprile ore 10.00/19.00

Chiesa di San Severo al Pendino
Via Duomo, 286 (accanto al Museo Filangieri)


I CRIMINI NAZIFASCISTI IN JUGOSLAVIA 
TRA MEMORIA E MEMORIA NEGATA

Presentazione della mostra realizzata dal Museo delle vittime del genocidio di Belgrado e curata dall’Associazione Most za Beograd:
Jasenovac - Erano solo bambini
Serbi, ebrei e rom nella "Auschwitz dei Balcani"


Giovedi 12 aprile ore 16.00
Conferenza e dibattito

Introduce e modera

Alexander Hoebel (Archivio Storico del Movimento Operaio)

Saluti di 
Dolores Feleppa Madaro (Assessore alla Memoria della Città del Comune di Napoli)
Nicola Oddati (Assessore alla Cultura del Comune di Napoli)

Presentano 
Alessandra Kersevan (Coordinatrice “resistenza Storica”)
Giuseppe Aragno (Direttore dell’Archivio Storico del Movimento Operaio)
Partecipa
Luigi Cortesi
Prof. emerito di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”




Balkan Express
March 29, 2007

Forfeiting Nothing 

Main Argument for Kosovo's Secession Bogus
by Nebojsa Malic

Despite fierce opposition from Belgrade and Moscow, the UN-designated "mediator" for Kosovo, former Finnish president and ICG board member Martti Ahtisaari submitted his proposal this week to the UN Security Council. Ahtisaari told Secretary-General Ban Ki-moon that "supervised independence" was the "only viable option" for the Serbian province, occupied since June 1999 by NATO and administered by a UN mission and a "provisional" ethnic Albanian government.

Washington has declared its ironclad support to Ahtisaari's proposal, rejecting out of hand any further negotiations. According to NATO Secretary-General Jaap de Hoop Scheffer, the Alliance also fully supports Ahtisaari.

After a 78-day illegal war, followed by almost eight years of violent occupation, the Empire is finally making a move to separate Kosovo from Serbia. The decision is in line with its systematic violations of international law, NATO and UN charter, the U.S. Constitution, and even the very UN resolution that created a precarious legal cover for the occupation.

What is even worse, the reasoning invoked to justify this criminal act is cynical and duplicitous, bearing no relationship to truth or logic.

Simply Illegal

Jurist, a well-known publication of the University of Pittsburgh School of Law, carried a guest column this week, in which Prof. Anthony D'Amato of Northwestern University claimed an independent Kosovo would be a "humanitarian disaster" for the remaining Serbs. D'Amato described Kosovo as having a "Serb-hating majority," and wrote that "a Kosovar-dominated (sic) independent government will lose no time in confiscating the property and rights of the Serbian minority. Some 200,000 Serbs in Kosovo could lose everything they own and maybe their lives."

Of particular interest is this observation, concerning the legality of Ahtisaari's proposal:

"If we remove the diplomatic euphemisms from Mr. Ahtisaari's report, we find that he is essentially arguing that UNMIK has conquered Kosovo! Territory-grabbing by conquest has been illegal since the Kellogg-Briand Pact of 1928, yet somehow the United Nations has done it, according to Mr. Ahtisaari. However, there is nothing in the UN Charter that gives the UN the power to oust an existing government by force, replace it with a United Nations mission created especially for the occasion, and then dissolve the mission and hand sovereignty over the territory to someone else. Acquisition of territory by conquest is simply illegal, whether a state does it or an international organization does it."

Sounds clear enough.

However, D'Amato continues the article by claiming that partition would be a preferred solution, and explains why; to establish at least some legitimacy for the Albanian (or "Kosovar," as he erroneously puts it) cause, he turns to a "human rights argument." Since, he claims, the Albanians were victims of an "unremitting campaign of suppression" by Milosevic, and "crimes against humanity" by the Yugoslav army and police, "the brutality of the Milosevic incursions into Kosovo may be argued as disqualifying Serbia from ever again governing the Kosovars."

Argumentum Ad Atrocitas

This "victim argument" has long been used as justification for NATO's bombing, the subsequent expulsion and persecution of Serbs ("revenge attacks") and others by Albanians, and indeed for claiming the "right" to independence. Supporters of independence have repeatedly claimed that Serbia has somehow "forfeited" its sovereignty through actions in Kosovo in 1999 and before.

As NATO bombs began raining on Serbia and Montenegro in March of 1999, media in NATO countries began manufacturing atrocity stories from the mold perfected just a few years earlier in Bosnia. Refugees, ethnic cleansing, genocide, massacres, rape camps – everything was there. In addition to propaganda injected into the mainstream media by U.S. and other NATO governments, there was also KLA propaganda directly fed to gullible reporters.

Even today, veteran propagandists dutifully repeat the claim that Serb "ethnic cleansing" of Albanians led to the NATO attack. Nothing can be further from the truth. NATO launched the attack in March 1999 after failing to coerce Serbia into accepting an occupation force, during the false negotiations in France. The official justification for the bombing was to force Belgrade to sign the "agreement" presented by the U.S. envoys in Rambouillet. Alleged atrocities are all said to have happened subsequent to the start of the bombing. Indeed, the ICTY indictment against Slobodan Milosevic included only one alleged crime dated prior to March 23, and that was the faux massacre at Racak.

By late 1999, it was obvious that the death toll in Kosovo was much less than the alleged 100,000 – or even the more commonly used 10,000, often falsely qualified as Albanian civilians (That number was actually a wild claim by UK Foreign Minister Geoff Hoon, who sought to justify the bombing.) The total number of bodies exhumed by ICTY's investigators was 2,108, of all ethnicities and with varying causes of death. It is unclear whether that death toll included the numerous Albanians killed by the KLA, the KLA's own substantial casualties, or those of the Yugoslav Army. In any case, horror stories presented as facts in a State Department "report" were later proven false. For example, the "Trepca mines" story was debunked by Wall Street Journal's Daniel Pearl. True, several other mass graves were discovered in the province since 1999. However, the victims buried there were Serbs, so the discoveries quickly faded from memory.

Although many Kosovo Albanians suffered terribly during the KLA insurrection and the NATO bombing, their claim that "Serb atrocities" have earned them the right to independence holds very little water.

Goose and Gander

However, neither the Albanians nor their Western sponsors actually believe the "atrocity argument" on principle. For if they did, and it was universally applicable, they would have forfeited all right to Kosovo themselves!

We could start from the beginning: NATO's war itself was illegal and illegitimate. In the course of the war, NATO pilots targeted civilians and civilian infrastructure. The Alliance naturally claims those were "unfortunate mistakes" and that bombs were dropped "in good faith," yet Gen. Michael Short publicly stated that the campaign was designed to force Belgrade to surrender by terrorizing civilians.

Korisa, Grdelica, Aleksinac, Surdulica – these were just some of the NATO atrocities during the "humanitarian" war of 1999.

Once the government in Belgrade agreed to withdraw from Kosovo and allow the UN to occupy the province (in practice, it was NATO occupation), Albanian separatists began terrorizing Kosovo. Violence against Serbs has been amply documented, in photographs, in print, and on film. It is important to note that Serbs were not the sole victims of Albanian attacks; Roma and other communities in Kosovo have also been exposed to violence, intimidation, extortion and murder.

Here are just some of the more gruesome incidents of anti-Serb violence:

- July 1999: fourteen Serb farmers massacred in the fields near Staro Gracko (graphic photos);

- October 1999: Valentin Krumov, UN official from Bulgaria, slain for "speaking Serbian";

- February 2000: bus carrying Serbs to a cemetery service hit by a missile;

- February 2001: roadside bomb blows up another bus;

- June 2003: brutal slaying of a Serb family in Obilic;

- August 2003: Serb children swimming in the river near Gorazdevac machine-gunned down;

- March 2004: massive pogrom throughout the province targets Serbs; 8 dead, 4500 expelled, several villages razed.

All this was accompanied by systematic destruction of Serbian Orthodox churches, chapels, monasteries and cemeteries.

Albanian separatists and NATO leaders claim that Serbia's violent suppression of the terrorist KLA in 1998-99 merited not only an illegal aggression in response, but also forfeited Serbia's sovereignty over Kosovo. Yet the Albanians have not "forfeited" their right to Kosovo because of systematic terrorism under NATO occupation – they are being rewarded for it by independence!

The Croatian Precedent

Further proof that the "atrocity argument" was made up for the specific purpose of fabricating a reason to separate the occupied province from Serbia and make it into an Albanian state is the absolute absence of any such argument in the case of Croatia, which once had a considerable Serb population.

No "humanitarian" interventionist has ever claimed that atrocities of the Ustasha regime between 1941-1945, in which hundreds of thousands of Serbs perished (Croat and Nazi estimates were over half a million!), somehow disqualified Croatia from sovereignty over territories with majority Serb population that rebelled in 1991? Nor have any of them claimed that Croatia "forfeited" its sovereignty after the ethnic cleansing of Serbs in 1995, following a brutal Croat military incursion that ended the Serb rebellion and "reintegrated" the disputed territories. So how is Kosovo different?

When Croatia engaged in suppression of a Serb rebellion, it was an ally of the United States and NATO, enjoying their full support – military, political, intelligence and diplomatic. When Serbia tried to suppress the Albanian rebellion three years later, the U.S./NATO support was there again – on the side of the Albanians! This is why the same logic does not apply to Krajina and Kosovo, Croatia and Serbia, or even the Serbs and the Albanians. There is no logic here, no principle, no coherent concept of right or wrong – beyond the naked argument of force: whomsoever the Empire supports is a righteous victim, and its enemy an irredeemable villain.

The Final Leap

Empire's pattern of aggression has by now torn the fragile tapestry of international law to shreds. The UN has already lost so much credibility and respect in the world, unable to stop the abuses by the Washington-run "international community," the Ahtisaari Show is but a final nail in its coffin. Over the past fifteen years, many lines have been crossed. Appeasement of NATO and Albanian aggression in Kosovo might just be that last step over the edge, and into the abyss from which what remains of Western civilization may never return.



From:   rick rozoff
Subject: Serbia Marks Anniversary Of Beginning Of WWII, Warns Of New Danger Signs
Date: April 6, 2007 6:11:45 PM GMT+02:00
To:   stopnato  @yahoogroups.com


1) Serbia Commemorates Anniversary Of Beginning Of
World War II, Nazi Bombing Onslaught
2) Threat To Tear Kosovo From Serbia Reminiscent Of
Events On Eve Of World War II

-“Should that [Kosovo being torn from Serbia] indeed
happen, it would be a U-turn reminiscent of the
situation on the eve of the World War II, at the time
when certain oversights led to grave consequences. We
are not talking only of Kosovo and Serbia. Kosovo’s
independence would trigger an endless and
uncontrollable chain of events. That’s why
independence is ruled put.”

1)
http://www.srbija.sr.gov.yu/vesti/vest.php?id=33073

Government of Serbia
April 6, 2007

Observation of 66 years from beginning of Second World
War

-In massive bombings which lasted several days,
several thousands of housing and other facilities
across Serbia were destroyed, while bombing of
Belgrade included the destruction of hospitals,
densely populated neighbourhoods and the complete
destruction of the building of the Serbian National
Library. [Compare eight years ago]

Belgrade - The 66th anniversary of the beginning of
the Second World War and the bombing of Serbian cities
is being observed today with a series of commemorative
events paying tribute to killed civilians and members
of the army of the Kingdom of Yugoslavia.

Representatives of the Serbian Ministry of Labour,
Employment and Social Policy, the city of Belgrade,
the survivors and descendants of those killed during
the April 6 bombing laid wreaths at localities in
Belgrade, at the port of Vaznesenjska Crkva, at the
monument to the victims at the shelter in Karadjordjev
park and at the Lane of the victims at the New
Cemetery.

Also, they laid wreaths to the monument of the victims
on Zemunski kej near the hotel "Jugoslavija" and at
the locality on Kosancicev venac, where airplanes of
Nazi Germany destroyed the then National Library of
Serbia on today's day in 1941.

A large number of civilians died in the so-called
April war, which started on April 6, 1941 with a
sudden bombing of Serbian towns and ended with the
signing of capitulation of the Yugoslav army on April
17 the same year.

In massive bombings which lasted several days, several
thousands of housing and other facilities across
Serbia were destroyed, while the bombing of Belgrade
included the destruction of hospitals, densely
populated neighbourhoods and the complete destruction
of the building of the Serbian National Library.

Although three days before the bombing, the army was
withdrawn from Belgrade, which the government declared
an open city, under which, according to the
international war law, should have been exempted the
capital from all war destructions, but almost 440 tons
of bombs were dropped on the Serbian capital.

The majority of Belgraders were at their homes since
it was Easter on that day. The city was bombed three
more times - on April 7, 11 and 12.

Representatives of the Ministry of Labour, Employment
and Social Policy will lay wreaths during the
afternoon at the monumental area in Jajinci.

This locality is the largest execution site from the
Second World War in Serbia and a commemorative
ceremony will be held there.
------------------------------------------------------
2)
http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2007&mm=04&dd=06&nav_category=90&nav_id=40556

Beta (Serbia)
April 6, 2007

“UN won’t take Kosovo away”

SARAJEVO, BELGRADE - Outgoing Prime Minister Vojislav
Koštunica has said that the UN Security Council will
never take Kosovo away from Serbia.

“Should that indeed happen, it would be a U-turn
reminiscent of the situation on the eve of the World
War II, at the time when certain oversights led to
grave consequences,” Koštunica told the daily Veèernje
Novosti.

“We are not talking only of Kosovo and Serbia.
Kosovo’s independence would trigger an endless and
uncontrollable chain of events. That’s why
independence is ruled put,” he argued.

Koštunica claimed that there were states “with
sufficient power not to let the international order
plunge into chaos.”

“I believe it is now obvious that Serbia and many
other states, including Russia and China, gave
irrefutable arguments as to why a UN member state
cannot be deprived of its territory,” Koštunica
concluded.

Ceku: Independence by end of May

Kosovo prime minister Agim Ceku says Kosovo will gain
independence by the end of May.

In an interview with the Sarajevo daily Dnevni Avaz,
Ceku said there was no room for disappointment and
worry following the first UN Security Council session
on Kosovo.

“The session showed that Kosovo status settlement
process goes at projected pace. It’s the first time UN
Security Council ever discussed the independence of
Kosovo, which as a great achievement,” Ceku said.

According to him, it was important that the majority
of the Council member states unequivocally backed
Martti Ahtisaari’s plan, adding that objections hat
could have been heard were already expected.

Ceku voiced hope that Russia would change its position
and “accept Ahtisaari’s plan as the only sensible and
realistic option for Kosovo.”

Commenting on Serbian prime minister Vojislav
Koštunica’s statements following the UN Security
Council session, Ceku said that “Serbia and its
leaders proved over the years they suffered from
inability to understand reality.”

When asked whether he expected the remaining Serbs in
Kosovo to emigrate in case Kosovo attained statehood,
he said it wouldn’t happen.

“Independence for the province could only signal to
Kosovo Serbs they should stay and call others to
return,” Ceku concluded.

“Serbia to seek legal protection”

Justice minister Zoran Stojkoviæ says Serbia might
seek legal protection in case of bilateral recognition
of Kosovo’s independence.

“If certain states recognized Kosovo’s independence,
Serbia might seek legal protection from the
International Court of Justice in the Hague, since
bilateral recognition of Kosovo’s statehood as such
violates fundamental principles of sovereignty and
territorial integrity,” Stojkoviæ said.

He added it was dangerous to connect Kosovo’s status
issue with Serbia’s future in the European Union.

“Is someone promised you the EU membership, and you
gave up a part of your territory, you can’t no longer
tell whether the rest of your land is secured,”
Stojkoviæ added.

“In that sense, we have already received a request for
autonomy from three municipalities in southern Serbia”
Stojkoviæ concluded.


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