Informazione
Attentato a Sarajevo: è solo l’inizio?
Guerra santa, terrorismo di stato e crimine organizzato in Bosnia
di Riccardo M. Ghia (Bright Magazine [http://bit.ly/aoEECd])
L’attentato contro l’ambasciata americana a Sarajevo potrebbe essere stato un test per l’esecuzione di un attacco in grande stile, secondo fonti vicini alle indagini.
Lo scorso 28 ottobre, Mevlid Jašarević esplose 105 colpi di armi da fuoco, ferendo due persone in modo grave e scatenando un’ondata di panico. Poi, per venti minuti, Jašarević passeggiò avanti e indietro di fronte all’ambasciata, fino a quando un tiratore scelto della forze speciali bosniache lo neutralizzò con un proiettile alla gamba.
Le dinamiche dell’attacco sono certamente singolari. L’edificio dell’ambasciata è stato concepito per resistere ad attacchi ben più organizzati di quelli di un militante solitario e del suo kalashnikov [http://bit.ly/uSLAdi]. Inoltre non è chiaro perché Jašarević non abbia utilizzato le due bombe a mano di cui era armato.
L’avvocato di Jašarević, Senad Dupovac, ha descritto il gesto del suo cliente come l’azione di un militante solitario affetto da disturbi mentali: “Il suo obiettivo era quello di essere ucciso dagli ufficiali di guardia dell’ambasciata statunitense per diventare un martire e andare in paradiso.” [http://reut.rs/uHxuuK].
Tuttavia gli investigatori temono che l’azione di Jašarević sia solo l’inizio di una serie di attentati intrapresa da un gruppo di wahabiti, una corrente islamica estremista radicata in Arabia Saudita. La sparatoria, quindi, sarebbe stato il modo per sondare le capacità di reazione delle forze di polizia e del personale dell’ambasciata.
In connessione con l’attentato, la polizia ha arrestato Emrah Fojnica, 20, Dino Pecenkovic, 24 e Munib Ahmetspahic, 21. L’attentatore, Jasarevic, ha 23 anni. Una generazione che ha subito l’influsso - e forse ricevuto gli ordini - di “cattivi maestri”, ancora a piede libero.
Uno dei mandanti, secondo le indiscrezioni del quotidiano serbo-bosniaco Press Rs, sarebbe l’egiziano Imad al Misr. L’uomo ha già scontato una pena detentiva in Egitto dal 2001 al 2009, dopo essere stato estradato dalla Bosnia su pressione degli Stati Uniti. Una volta uscito dal carcere, al Misr è riapparso nei Balcani [http://bit.ly/ukz6rN].
I cattivi maestri: mujahideen, ONG ed estremismo wahabita
L’apertura di un fronte della jihad in Bosnia, nel cuore dell’Europa, era già stato dipinto nel romanzo “Madrasse - Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Europa” di Antonio Evangelista [http://bit.ly/sUDMbd].
L’autore - esperto di terrorismo e crimine organizzato della European Union Police Mission (EUPM) - descrive una generazione di ventenni come Jašarević, allevati e istruiti da ex mujahideen arrivati in Bosnia per combattere serbi e croati a fianco dei fratelli musulmani. Mentre il protagonista di Madrasse, l’orfano di guerra Georgje Kastrati, è personaggio di fantasia, i fatti narrati nel romanzo affondano nelle cronache bosniache degli ultimi 20 anni.
Nel 1992, migliaia di combattenti islamici dal Nord Africa all’Afghanistan si unirono ai gruppi paramilitari bosgnacchi della “Legione Verde” e dei “Cigni Neri”. Quattro anni più tardi queste unità militari vennero sciolte ma 400 mujahideen rimasero in Bosnia. Altri militanti islamici arrivarono nel paese a guerra finita [http://bit.ly/tgbJNZ].
Organizzazioni umanitarie non governative saudite e kuwaitiane operanti in Bosnia sono anche state messe sotto osservazione, in particolare dopo gli attentati dell’11 settembre.
L’Arabia Saudita ha sempre negato di aver fornito supporto logistico e finanziario a gruppi di militanti islamici anti-occidentali. Tuttavia, un ex comandante di Al-Qaeda, Ali Ahmed Ali Hamad, ha testimoniato davanti a un tribunale ONU di aver ricevuto denaro dalla Alta Commissione Saudita per gli Aiuti alla Bosnia-Erzegovina. Le ONG islamiche avrebbero anche permesso ai mujahideen di entrare in Bosnia, fornendo documenti falsi e mezzi di trasporto [http://bit.ly/vFow8E].
Forse non è un caso che proprio Antonio Evangelista, l’autore di Madrasse, abbia ricordato le parole di Ali Ahmed Ali Hamad durante un forum internazionale sul crimine organizzato a Pechino, celebratosi il giorno successivo all’attentato all’ambasciata americana a Sarajevo [http://bit.ly/rIpor7].
Novi Pazar: la città di Jašarević
Jašarević è nato a Novi Pazar, il centro culturale dei bosgnacchi nella regione di Sandzak, in Serbia, nel 1988.
La città è stata teatro di importanti operazioni di polizia contro l’estremismo islamico. Nel marzo 2007 le forze dell’ordine irruppero in un campo di addestramento di militanti islamici arrestando cinque wahabiti provenienti proprio da Novi Pazar. Un mese più tardi, durante una sparatoria, la polizia serba uccise il leader della cellula locale, Ismail Prentic.
Da dove arrivavano le armi di Prentic e dei suoi seguaci? Gli investigatori serbi ne rintracciarono la provenienza in Kosovo, dalle città di Pec/Peja e Vucitrn. Le autorità di Belgrado trovarono prove di un’alleanza strategica tra gruppi ultranazionalisti albanesi kosovari e wahabiti serbi e bosniaci.
Gli investigatori hanno anche trovato collegamenti tra elementi del crimine organizzato e combattenti islamici. Infatti la polizia serba arrestò, tra gli altri, Senad Ramovic, già noto in Italia per traffico internazionale di armi e di esseri umani, stupro e sfruttamento della prostituzione [http://bit.ly/rLAjIr].
Ramovic si convertì successivamente alla dottrina wahabita. Secondo le fonti investigative, avrebbe utilizzato le sue conoscenze per rifornire di armi i mujahideen nei Balcani.
Jašarević a Vienna
Ai tempi dell’uccisione di Prentic e dell’arresto di Ramovic, Jašarević stava scontando una pena di tre anni di reclusione in Austria. Il giovane era stato condannato per una rapina a Vienna. Quando fu rilasciato nel 2008, le autorità austriache lo espulsero dal paese.
L’Austria ricoprì un ruolo fondamentale nei rifornimenti di uomini e mezzi durante le guerre nell’ex Jugoslavia che hanno segnato i Balcani negli anni ’90 con il supporto logistico dei servizi segreti americani ed europei.
“Vienna era, all’inizio, il centro di controllo per le operazioni di contrabbando d’armi per sostenere la jihad. L’esercito musulmano bosniaco fu creato con finanziamenti e volontari del mondo islamico; Bin Laden in persona ne discusse i dettagli con il presidente Alija Izetbegovic,” ha scritto il giornalista tedesco Jürgen Elsässer [http://bit.ly/vs6Glo].
A Vienna, dove risiedono 35.000 bosniaci, è anche presente l’importante cellula wahabita guidata dall’imam Muhammed Porca [http://bit.ly/sIVRvA]. Il predicatore esercita una forte influenza anche sulle comunità della diaspora bosniaca in Europa.
Inizialmente membro della Comunità Islamica (Islamska Zajednica) guidata da Reis Mustafa Ceric, massima autorità religiosa in Bosnia, Porca ne prese le distanze e fondò un gruppo autonomo in seguito a conflitti interni.
Non è chiaro perché Jašarević si trovasse in Austria e quando fosse iniziato il suo processo di radicalizzazione: a Novi Pazar o a Vienna?
L’ex ambasciatore statunitense alla NATO, Kurt Volker, ha recentemente affermato davanti alla Commissione Affari Esteri del Congresso che Jašarević fu avvicinato dai wahabiti a Vienna [http://bit.ly/vKFqgX].
Secondo gli investigatori, Jašarević sarebbe stato convertito alla causa estremista proprio durante la sua permanenza in carcere a Vienna. Se questa circostanza fosse confermata, solleverebbe inquietanti interrogativi sulla vigilanza delle autorità penitenziaria austriaca.
Gornja Maoca
Qualunque sia la risposta, Jašarević era già un soldato di Allah quando ritornò in Serbia. Nel novembre 2010 venne fermato proprio a Novi Pazar insieme a un altro militante. I due si trovavano nei pressi di un palazzo dove era in corso una riunone di ambasciatori, tra cui quello statunitense. La polizia serba gli trovò addosso un coltello da guerra, ma venne presto rilasciato.
Lo scorso maggio, uno dei leader wahabiti, Bilal Bosnic, giurò di vendicare la morte di Bin Laden [http://bit.ly/rDjGAm]. Forse, come osserva il giornalista italiano Stefano Giantin [http://bit.ly/uZGYDY], Jašarević lo ha preso in parola.
Bilal Bosnic è strettamente legato a un altro predicatore finito nel mirino degli inquirenti: si tratta di Nusret Imamovic di Gornja Maoca, comunità bosniaca dominata dai wahabiti. Imamovic era stato arrestato in connessione con un attacco contro un serbo nel 2006. Quattro anni più tardi, erano scattate nuovamente le manette ai polsi di Imamovic durante “Operation Light” [http://bit.ly/sUDMbd], un’azione di antiterrorismo che aveva ... dato ben pochi risultati, forse perché i wahabiti erano stati avvertiti in anticipo” [http://bit.ly/uSLAdi].
Imamovic fu presto rilasciato.
Nel luglio 2010, la stazione di Bugojno, città a 80 km da Sarajevo, fu oggetto di un attacco bomba. Bilancio: un morto e sei feriti. La responsabilità è stata attribuita, ancora una volta, a gruppi wahabiti [http://bit.ly/tnkM3d].
Quando Jasarevic attaccò l’ambasciata americana, i sospetti della polizia tornarono su Gornja Maoca. Ed è proprio là che agenti ritrovarono i suoi documenti.
Il giorno dell’attentato, Jašarević lasciò Novi Pazar in Serbia per dirigersi a Gornja Maoca, e di lì a Sarajevo, dove ebbe luogo la sparatoria.
Un’intrigante coincidenza per gli investigatori, che pare escludere la pista del militante solitario. Nel frattempo, Imamovic ha preso ufficialmente le distanze dall’attacco.
Chi protegge gli estremisti islamici?
Jašarević era già noto agli investigatori: tuttavia, è stato in grado di compiere l’attentato all’ambasciata quasi indisturbato per circa mezz’ora. Come ciò è potuto accadere?
IL PIANO GRAZIANI.
Nel 1985 il giornalista Gaetano Contini pubblicò un “documento inedito” [1] redatto presumibilmente verso la fine del 1945 e firmato in calce da Aldo Gamba, all’epoca comandante del 1° Squadrone autonomo, un reparto della Polizia militare segreta sottoposto agli ordini del servizio segreto britannico FSS (Field Security section), con sede a Brescia [2].
Tale documento sarebbe stato scritto da un “informatore” di Gamba, che evidentemente lo ritenne attendibile se decise di inoltrarlo con la propria firma, ed è intitolato “Il piano Graziani per la resurrezione del fascismo”.
L’informatore parte da una serie di circostanze: i documenti rinvenuti nell’archivio di Barracu (sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri della RSI, fucilato il 28/4/45 a Dongo) che fanno riferimento ad una organizzazione segreta costituita “per la salvezza del fascismo”; un considerevole deposito di armi trovato nello stabile di piazza San Sepolcro dove aveva avuto sede il Partito fascista; un altro arsenale scoperto pochi giorni prima a Trezzo d’Adda e quanto risultava da un processo svoltosi a Pavia “per documenti falsi” dove veniva confermata la “strabiliante offerta” avanzata dal maresciallo Rodolfo Graziani (allora ministro della guerra della RSI, già macchiatosi di crimini di guerra in Libia e in Africa Orientale) nel dicembre 1944 ai Comitati di liberazione (qui l’informatore non entra nei particolari ma si presume intenda parlare dei tentativi di collaborazione che delineeremo nell’esposizione successiva).
L’informatore sostiene che questi dati “non hanno aperto che un sottile spiraglio di luce su un vasto diabolico progetto da lungo tempo predisposto e in esecuzione anche in tutto il periodo di lotta clandestino” ed a questo punto parla di una “riunione segreta” che si sarebbe svolta nell’ottobre del 1944 presso la sede della Legione Muti a Milano, riunione tenuta dal maresciallo Rodolfo Graziani alla quale presero parte “elementi politici” della RSI, che non erano “prefetti, gerarchi e pubblicisti”, ma i comandanti della legione Muti, delle Brigate nere, della GNR e due questori (uno dei due era il questore di Milano Larice, colui al quale Mussolini avrebbe consegnato una borsa prima di fuggire verso la Svizzera, con l’incarico di darla al comando della Brigata Garibaldi [3]), oltre ai capi dei servizi di spionaggio, i “torturatori e gli aguzzini”.
Graziani avrebbe loro delineato il progetto che intendeva realizzare, data ormai per sicura la sconfitta militare del fascismo, per la sopravvivenza politica del medesimo: le truppe germaniche si sarebbero ritirate, seguite dal grosso dell’esercito italiano, ma i “politici” (cioè i partecipanti alla riunione) sarebbero rimasti, “celandosi e camuffandosi per fare azione di sabotaggio nelle retrovie, opera di disgregazione all’interno dell’Italia” (sostanzialmente un progetto stay behind, ovvero la resistenza dietro le linee “nemiche”) perché (e qui l’informatore dice di riferire le parole di Graziani, da lui definito “iena”) “non è necessario vincere la guerra perché il fascismo e i fascisti possano, sia pure dietro altre bandiere, salvarsi”.
“Immettere il maggior numero di strumenti fascisti entro le nostre organizzazioni clandestine, mandando in galera gli antifascisti veri, scompigliando le loro trame, creare fino da allora forti posizioni fasciste entro le fila dell’antifascismo, preparare ingenti quantitativi di armi e denaro e poi, dopo il crollo del fascismo iscriversi in massa ai partiti antifascisti, sabotare ogni opera di ricostruzione, diffondere il malcontento, fomentare moti insurrezionali e preparare sotto qualsiasi insegna la resurrezione degli uomini e dei loro metodi fascisti”, scrive l’informatore. E poi riferisce le “particolareggiate, minutissime disposizioni” di Graziani: “organizzare delle bande armate che funzionino segretamente e che aggiungano altre distruzioni a quelle che prima di andarsene effettueranno i tedeschi, che esercitino in tutto il Paese il brigantaggio, che si mescolino alle manifestazioni popolari per suscitare torbidi. Ma soprattutto mimetizzati, penetrare nei partiti antifascisti e introdurvi fascisti a valanga, propugnare le tesi più paradossalmente radicali ed il più insano rivoluzionarismo, sabotare e screditare l’opera del governo e soffiare a più non posso in tutto il malcontento inevitabile”, in modo da suscitare “il rimpianto del fascismo” e permetterne il ritorno al potere.
Graziani avrebbe parlato anche delle “trattative che taluni elementi della corrente più moderata del fascismo, ed altri in malafede, cercavano di allacciare con gli esponenti della lotta clandestina, per addivenire ad un modus vivendi” che ponesse “tregua alla cruenta lotta fratricida”. Tali trattative, disse Graziani “vanno benissimo”, perché “dobbiamo avvicinare gli antifascisti, illudendoli con vaghi progetti di pace separata, di ritorno alla legalità ed alla libertà, di rivendicazioni socialiste, stabilire così molti contatti , scoprire le loro file ed i loro covi”, per poi arrivare ad una “notte di San Bartolomeo, con il preventivo sterminio dei preconizzati nostri successori” precisando però che “i tribuni” e “gli agitatori” andavano lasciati in pace perché “possono servire pure a noi”, ma per “decapitare il nemico” bisognava colpire “gli intellettuali veri, le competenze tecniche, le reali capacità politiche ed amministrative”.
Nel febbraio successivo, conclude l’informatore, si svolsero altre riunioni durante le quali Graziani avrebbe impartito gli stessi ordini a tutti gli iscritti, “raccomandando soprattutto la più vasta penetrazione entro i partiti antifascisti”. Di queste “tenebrose manovre”, aggiunge, sarebbe stato “tempestivamente” informato il SIM, invitato inoltre ad avvisare i partiti per sventare questo “tranello che si tendeva loro”. Ma i partiti invece “spalancarono senza alcuna precauzione le porte” ed il 25 aprile si videro “frotte di squadristi e di ex militari repubblichini tra i volontari della libertà”.
Fin qui il testo riportato nell’articolo di Contini. Altri dati in merito comparirebbero in un rapporto inviato a Mussolini dal Ministero dell’Interno (della RSI) il 21/3/45, con oggetto “costituzione di centri di spionaggio e di operazioni”, dove sarebbe scritto [4]:
“il servizio politico della GNR ha creato nel suo seno un organismo speciale che funziona già e la cui potenza sarà accresciuta”. Questo servizio sarebbe composto da un ufficiale superiore (…) 16 osservatori corrieri, 18 agenti informatori per il territorio della RSI e 43 per “l’Italia invasa” (altri avrebbero detto “liberata”, ndr). “Ognuno di essi vive sotto una falsa identità scelta in modo da non destare alcun sospetto”. Il lavoro in atto al momento della redazione del rapporto sarebbe stato “l’insediamento di un gruppo incaricato della fabbricazione di carte e documenti falsi e alla creazione a Padova di un ufficio commerciale che assicuri la copertura ai nostri agenti”.
Gli autori di questo ultimo articolo commentano che Padova e il Veneto “venticinque anni dopo saranno al centro della strategia della tensione e dei suoi complotti, ed aggiungono che il rapporto avrebbe raccomandato, come coperture, “l’infiltrazione nel Partito comunista e nel CLN”.
Sarebbe a questo punto necessario rileggere, tenendo presenti queste relazioni, tutta la storia della Resistenza e di quei fatti “strani” che accaddero a lato di essa, ma ci riserviamo di farlo in altra sede, più articolata. Ricordiamo soltanto che nell’Italia liberata dagli Alleati operarono da subito con attentati ed altre azioni armate, per destabilizzarne l’ancora precario equilibrio raggiunto, gli NP (Nuotatori Paracadutisti) della Decima Mas di Nino Buttazzoni, che nel dopoguerra fu contattato da agenti dei servizi statunitensi che gli offrirono una copertura (era ricercato per crimini di guerra) se avesse collaborato in funzione anticomunista.
Tornando alle infiltrazioni, ricordiamo la vicenda del “conte rosso”, Pietro Loredan, “partigiano” della zona di Treviso, i cui “occasionali rapporti con i partigiani erano guidati direttamente dai servizi segreti di Salò in piena applicazione, dunque, delle direttive contenute nel Piano Graziani” [5].
Pietro Loredan, militante dell’ANPI e del PCI, risultò, in un appunto del SID del 1974, avere fatto parte di Ordine Nuovo nel periodo 1960-62 ed essersi iscritto nel 1968 al Partito comunista marxista leninista d’Italia, ed assieme al suo amico conte Giorgio Guarnieri (altro ex partigiano membro di una missione militare americana durante la guerra di liberazione) ebbe dei rapporti di affari con Giovanni Ventura ed i due “partigiani” utilizzarono le loro qualifiche per accreditare Ventura nell’ambiente della sinistra e favorirne la sua opera di infiltrazione (Ventura si iscrisse proprio al PC m-l per darsi una copertura a sinistra) [6]. Inoltre alcune “voci” dissero che la villa di Loredan presso Treviso fosse servita come punto di ritrovo in preparazione del poi rientrato “golpe” di Borghese, ed in essa nel 1997, nel corso di lavori di restauro commissionati dal nuovo proprietario (l’industriale Benetton), fu trovato un deposito di armi.
Anche il ricercatore Giuseppe Casarrubea ha parlato del Piano Graziani, in relazione però alla vicenda di Salvatore Giuliano. Prima di essere ucciso, il “bandito” Gaspare Pisciotta aveva accennato ad un religioso, il frate benedettino Giuseppe Cornelio Biondi, che si sarebbe fatto pagare dalle autorità per la cattura di Giuliano ma “li avrebbe utilizzati per una colossale truffa a danno di un commerciante siciliano”. Biondi dipendeva da un monastero di Parma ma per un periodo aveva vissuto a Padova e Casarrubea scrive “Padova, ambiente frequentato dal monaco benedettino, era un centro di eversione anticomunista. Qui, il 21 marzo del 1945, in attuazione del piano Graziani, si era costituito il coordinamento della rete clandestina destinata ad operare dopo la sconfitta (…)” [7].
Facciamo ora un passo indietro, all’epoca in cui operava in Italia, come capo delle operazioni dell’OSS, il ventiduenne italo americano Max Biagio Corvo, che già dalla fine del 1942 aveva pianificato, con un dettagliato piano d’intelligence, l’occupazione della Sicilia dell’estate del ‘43 e la successiva liberazione dell’Italia. Corvo aveva arruolato i suoi più stretti collaboratori tra la cerchia di amici della propria città, Middletown, nel Connecticut, e tra essi vi era “Emilio Q. Daddario, atleta di eccezionali capacità della Wesleyan University” [8]. L’università “wesleyana” fa riferimento alla chiesa metodista, all’interno della quale vi era una forte presenza massonica [9].
Daddario, nome in codice “Mim”, arrivò a Palermo nel dicembre del 1943 ma rimase poco tempo negli uffici siciliani dell’Oss, dopo alcune settimane venne trasferito nel nuovo comando operativo di Brindisi con l’incarico di vice di Corvo. Nell’aprile del 1945 si trovava in Svizzera alle dirette dipendente di Allen Dulles, direttore dell’Oss per l’Europa e futuro capo della Cia. Corvo però lo richiamò in Italia per affidargli un compito assai delicato: la cattura di Mussolini e di alcuni ministri della Repubblica sociale di Salò in fuga sulle montagne piemontesi [10].
Lo storico Franco Fucci scrive che Daddario era stato reclutato “probabilmente per partecipare alle trattative di resa dei tedeschi in Italia” (e qui si inserisce l’Operazione Sunrise, cioè la trattativa condotta da Dulles, i servizi segreti svizzeri ed il comandante della SS Karl Wolff, che servì a mettere in salvo moltissimi criminali di guerra in cambio della rinuncia tedesca alla resistenza nel ridotto alpino); infatti il 27/4/45 fu tra coloro che presero in consegna a Como “tre importanti prigionieri di guerra il maresciallo Graziani, il generale Bonomi, dell’aviazione e il generale Sorrentino dell’esercito” e li portarono a Milano [11].
Rodolfo Graziani fu posto in salvo da Daddario, con il consenso del generale Raffaele Cadorna (comandante in capo del CVL), leggiamo, e fu trasferito il 29/4/45 al comando del IV corpo d’armata corazzato americano di stanza a Ghedi [12].
Dopo la guerra Graziani scrisse una lettera direttamente a Daddario dal suo campo di prigionia ad Algeri il 15 giugno 1945, che riportiamo di seguito:
Caro Capitano Daddario,
le scrivo da questo campo. Desidero ringraziarti dal più profondo del cuore per quello che lei fece per me in quei momenti molto rischiosi. Non vi è alcun dubbio che io devo a lei la mia salvezza, durante i giorni del 26, 27, e 28 aprile. Per questo il mio cuore è pieno di ringraziamenti e gratitudine e non la dimenticherò mai per tutto il tempo che mi rimarrà di vivere, io sto bene in questo campo e vengo trattato con molto rispetto. Spero che Iddio mi assista per il futuro e che l’Umana Giustizia consideri il mio caso e lo giudichi con equità. La prego di scrivermi e assicurarmi che quanto le lasciai in consegna venne consegnato a destinazione. Mi faccia anche sapere se ha con lei il mio fedele Embaie [13] che la prego di proteggere e assistere. L’abbraccio caramente e non mi dimentichi.
Vostro molto affettuosamente, Rodolfo Graziani.
A questo punto viene da chiedersi se tra le cose che Graziani “lasciò in consegna” a Daddario ci fossero anche le direttive del suo “piano”.
[1] Documento pubblicato nella rivista “Storia Illustrata”, novembre 1985, dove leggiamo che è conservato nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, fondo Polizia Militare di Sicurezza, busta 2.
[2] Contini scrive che la Fss era “dell’Oss” (la futura CIA), ma è un dato errato.
[3] In http://www.stampalternativa.it/wordpress/2007/06/04/tigre-dal-diario-in-poi-2/ ma si tratta di un dato senza conferma.
[4] Usiamo il condizionale perché il testo che riportiamo è trascritto senza l’indicazione della posizione archivistica del documento in Italia Libera Civile E Laica = Italia Antifascista 21/3/11, “21 marzo 1945 – Salò, importantissimo documento dei servizi segreti della RSI da conoscere e condividere!!!”.
[5] Così scrive Carlo Amabile nel sito www.misteriditalia.com.
[6] “Del conte Guarnieri si era molto parlato durante l’inchiesta sulla cosiddetta pista nera, ed era stato indicato come il finanziatore di Freda e Ventura (…) si era poi accertata l’amicizia con Loredan, un nobile veneto che con i due neofascisti aveva avuto contatti diretti e frequenti”, leggiamo nel “Meridiano di Trieste” del 21/6/72. Guarnieri aveva anche una residenza a Trieste, e “il 14 maggio 1972, tre giorni prima di essere ucciso, il commissario Calabresi andò a Trieste per far visita al conte Guarnieri. L’accompagnava l’ex questore di Milano, Marcello Guida. Subito dopo i funerali, Guida tornò a Trieste da Guarnieri e stavolta si fece accompagnare dal prefetto di Milano, Libero Mazza” (M. Sassano, “La politica della strage”, Marsilio 1972, p. 168). Calabresi si fece accompagnare, oltre che da Guida, anche dal senatore democristiano Giuseppe Caron di Treviso, che era stato segretario del CLN della sua città.
[8] Ezio Costanzo “Uno 007 in Sicilia”, “Repubblica” 20 luglio 2010.
[10] Ezio Costanzo “Uno 007 in Sicilia”, “Repubblica” 20 luglio 2010.
[11] F. Fucci, op. cit. p. 75.
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Hannes Hofbauer
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