Informazione
La «guerra mondiale contro il terrorismo» ha ucciso almeno 1,3 milioni di civili. Traduciamo un articolo dal sito del quotidiano comunista francese L’Humanité . Nell’articolo si lamenta giustamente che l’informazione francofona ha ignorato questi dati impressionanti. Si può dire lo stesso per quella italiana.
Un rapporto pubblicato da un gruppo di medici insigniti del premio Nobel della pace rivela che quasi un milione di civili iracheni, 220.000 Afgani e 80.000 Pachistani sono morti, nel nome della battaglia condotta dall’Occidente contro «il terrore».
«Io credo che la percezione causata dalle perdite civili costituisca uno dei più pericolosi nemici con cui ci siamo confrontati», dichiarava nel giugno 2009 il generale statunitense Stanley McCrystal, durante il suo discorso inaugurale come comandate della Forza internazionale d’assistenza e sicurezza in Afghanistan (ISAF). Questa frase, messa in esergo al rapporto appena pubblicato dalla «Associazione internazionale dei medici per la prevenzione dalla guerra nucleare (IP-PNW), insignita del premio Nobel per la pace nel 1985, mostra l’importanza e l’impatto potenziale del lavoro effettuato da questa equipe di scienziati che tenta di stabilire un conto delle vittime civili della «guerra contro il terrorismo» in Iraq, in Afghanistan e in Pakistan.
«I fatti sono cocciuti»
Per introdurre questo lavoro globalmente ignorato dai media francofoni, l’ex-coordinatore umanitario per l’ONU in Irak Hans von Sponeck scrive: «Le forze multinazionali dirette dagli Stati Uniti in Iraq, l’ISAF in Afghanistan (…) hanno metodicamente tenuto i conti delle proprie perdite. (…). Quelli che riguardano i combattenti nemici e i civili sono (al contrario) ufficialmente ignorati. Questo, certamente, non costituisce una sorpresa. Si tratta di un’omissione deliberata.» Contare questi morti avrebbe «distrutto gli argomenti secondo i quali la liberazione di un dittatore in Iraq per mezzo della forza militare, il fatto di cacciare Al Qaida dall’Afghanistan o di eliminare reparti terroristi nelle zone tribali del Pakistan, hanno permesso di impedire che il terrorismo attentasse al suolo statunitense, di migliorare la sicurezza globale, e permesso ai diritti umani di avanzare, il tutto con dei costi “difendibili”».
Ciononostante, «i fatti sono testardi», continua. «I governi e la società civile sanno che tutte queste frasi sono assurdamente false. Le battaglie militari sono state vinte in Iraq e in Afhanistan ma a dei costi enormi per la sicurezza degli uomini e la fiducia tra le nazioni.» Certo, la responsabilità dei morti civili incombe ugualmente sugli «squadroni della morte» e sul «settarismo» che portava i germi dell’attuale guerra sciito-sunnita, sottolinea l’ex segretario della Difesa Donald Rumsfeld nelle sue memorie («Know and Unknown», Penguin Books, 2011). Ma come ricorda il dottor Robert Gould (del Centro medico dell’università della California), uno degli autori del rapporto, «la volontà dei governi di nascondere il quadro completo degli interventi militari e delle guerra non ha nulla di nuovo. Riguarda gli Stati Uniti, la storia della guerra in Vietnam è emblematica. Il costo immenso per l’insieme dell’Asia del Sud-Est, che include la morte stimata di almeno 2 milioni di Vietnamiti non combattenti, e l’impatto a lungo termine sulla salute e l’ambiente degli erbicidi come l’agente arancio, non sono ancora pienamente riconosciuti dalla maggioranza del popolo americano». E Robert Gould stabilisce un altro parallelismo tra la crudeltà dei Khmer rossi, che emergono da una Cambogia devastata dai bombardanti, e la recente destabilizzazione «post-guerra» dell’Iraq e i suoi vicini, che ha reso possibile la crescita di forza del gruppo terroristico detto «Stato islamico».
TOTALE STIMATO A 3 MILIONI
Assai lontano dalle cifre fino a ora ammesse, come le 110000 morti ricordate da uno dei riferimenti in materia, l’«Iraq Body Count» (IBC) che include in un database i morti civili confermati da almeno due fonti giornalistiche, il rapporto conferma la tendenza stabilita dalla rivista medica «Lancet» la quale ha stimato il numero dei morti iracheni a 655.000 tra il 2003 e il 2006. Dopo lo scatenamento della guerra da parte di George W. Bush, lo studio del IPPN ha condotto alla cifra vertiginosa di 1 milione di morti civili in Iraq, 220.000 in Afghanistan e 80.000 in Pakistan. Se si aggiunge, per ciò che riguarda l’antica Mesopotamia, il bilancio della prima guerra del Golfo (200.000 morti) e quello del crudele embargo inflitto dagli Stati Uniti (tra i 500.000 e 1,7 milioni di morti), sono circa 3 milioni di morti che sono direttamente imputabili alle politiche occidentali, il tutto in nome dei diritti dell’uomo e della democrazia.
In conclusione al rapporto, gli autori citano il relatore speciale delle Nazioni Unite dal 2004 al 2010 sulle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrali: secondo Philip Alston, che si esprimeva nell’ottobre 2009, le indagini sulla realtà degli attacchi dei droni erano quasi impossibili da condurre, a causa dell’assenza totale di trasparenza e il rifiuto delle autorità statunitensi di cooperare. Poi, aggiungeva, dopo aver insistito sul carattere illegale in rapporto al diritto internazionale di questi omicidi mirati, che «la posizione degli Stati Uniti era insostenibile». Tre settimane più tardi, Barack Obama riceveva il premio Nobel alla pace…
DURANTE QUESTO TEMPO, IN IRAQ, IN AFGHANISTAN, IN PAKISTAN … Il 20 aprile scorso, la «coalizione antidjihadista» diretta dagli Stati Uniti indicava in un comunicato di aver condotto in 24 ore 36 raids aerei contro le posizioni del gruppo «Stato islamico», di cui 13 nella provicincia di Al-Anbar, a ovest di Bagdad. Quanti sono i «danni collaterali» civili in questa regione, una delle più colpite dalle violenze dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003? I comunicati militari restano sistematicamente muti su questa questione, quando più di 3200 «azioni» aeree, secondo la neolingua moderna, sono stati effettuate dal mese di agosto 2014 e la presa di Mossoul da parte dello «Stato islamico». Il 18 aprile, è un attentato suicida, «tecnica» di combattimento sconosciuta in Afghanistam prima del 11 settembre 2001, a fare 33 morti presso le frontiere pachistane. Alla fine del mese di marzo, le forze di sicurezza pachistane menzionavano 13 «jihadisti» legati ai talebani uccisi durante un attacco di droni statunitensi. Quasi 10.000 soldati americani sono ancora di stanza in Afghanistan.
traduzione di Stefano Acerbo
Un paio di anni fa, percorrendo il corteo alla ricerca della mia collocazione sotto le bandiere dell’Anpi, mi imbattei nel gruppo che rappresentava i combattenti della “brigata ebraica”, aggregata nel corso della seconda guerra mondiale alle truppe alleate del generale Alexander e impegnata nel conflitto contro le forze nazifasciste. Qualcuno dei componenti di quel drappello mi riconobbe e mi salutò cordialmente, ma uno di loro mi rivolse un invito sgradevole, mi disse: «Vieni qui con la tua gente». Io con un gesto gli feci capire che andavo più avanti a cercare le bandiere dell’Anpi che il 25 aprile è «la mia gente» perché io sono iscritto all’Anpi con il titolo di antifascista. Lui per tutta risposta mi apostrofò con queste parole: «Sì, sì, vai con i tuoi amici palestinesi».
Il tono sprezzante con cui pronunciò la parola palestinesi sottintendeva chiaramente «con i nemici del tuo popolo». Io gli risposi dandogli istintivamente del coglione e affrettai il passo lasciando che la sua risposta, sicuramente becera si disperdesse nell’allegro vociare dei manifestanti.
Questo episodio, apparentemente innocuo, mi fece scontrare con una realtà assai triste che si è insediata nelle comunità ebraiche.
I grandi valori universali dell’ebraismo sono stati progressivamente accantonati a favore di un nazionalismo israeliano acritico ed estremo. Un nazionalismo che identifica stato con governo.
Naturalmente non tutti gli ebrei delle comunità hanno imboccato questa deriva sciovinista, ma la parte maggioritaria, quella che alle elezioni conquista sempre il “governo” comunitario, fa dell’identificazione di ebrei e Israele il punto più qualificante del proprio programma al quale dedica la prevalenza delle sue energie.
Io ritengo inaccettabile questa ideologia nazionalista, in primis come essere umano perché il nazionalismo devasta il valore integro e universale della persona, poi come ebreo, perché nessun altro flagello ha provocato tanti lutti agli ebrei e alle minoranze in generale e da ultimo perché, come insegna il lascito morale di Vittorio Arrigoni, io non riconosco altra patria che non sia quella dei diseredati e dei giusti di tutta la terra.
L’ideologia nazionalista israeliana negli ultimi giorni ha fatto maturare uno dei suoi frutti tossici: la decisione presa dalla comunità ebraica di Roma, per il tramite del suo presidente Riccardo Pacifici, di non partecipare al corteo e alla manifestazione del prossimo 25 aprile. La ragione ufficiale è che nel corteo sfileranno bandiere palestinesi, vulnus inaccettabile per il presidente Pacifici, in quanto nel tempo della seconda guerra mondiale, il gran muftì di Gerusalemme Amin al Husseini, massima autorità religiosa sunnita in terra di Palestina fu alleato di Hitler, favorì la formazione di corpi paramilitari musulmani a fianco della Germania nazista e fu fiero oppositore dell’instaurazione di uno stato Ebraico nel territorio del mandato britannico. Mentre la brigata ebraica combatteva con gli alleati contro i nazifascisti. Tutto vero, ma il muftì nel 1948 venne destituito e arrestato: oggi vedendo una bandiera palestinese a chi viene in mente il gran muftì di allora? Praticamente a nessuno, se si eccettua qualche ultrà del sionismo più isterico o qualche fanatico modello Isis.
Oggi la bandiera palestinese parla a tutti i democratici di un popolo colonizzato, occupato, che subisce continue e incessanti vessazioni, che chiede di essere riconosciuto nella sua identità nazionale, che si batte per esistere contro la politica repressiva del governo di uno stato armato fino ai denti che lo opprime e gli nega i diritti più elementari ed essenziali. Un governo che lo umilia escogitando uno stillicidio di violenze psicologiche e fisiche e pseudo legali per rendere esausta e irrilevante la sua stessa esistenza.
Quella bandiera ha pieno diritto di sfilare il 25 aprile — com’è accaduto per decenni e senza polemica alcuna — e glielo garantisce il fatto di essere la bandiera di un popolo che chiede di essere riconosciuto, un popolo che lotta contro l’apartheid, contro l’oppressione, per liberarsi da un occupante, da una colonizzazione delle proprie legittime terre, legittime secondo la legalità internazionale, un popolo che vuole uscire di prigione o da una gabbia per garantire futuro ai propri figli e dignità alle proprie donne e ai propri vecchi, un popolo la cui gente muore combattendo armi alla mano contro i fanatici del sedicente Califfato islamico nel campo profughi di Yarmouk, nella martoriata Damasco.
E degli ebrei che si vogliono rappresentanti di quella brigata ebraica che combatté contro la barbarie nazifascista hanno problemi ad essere un corteo con quella bandiera? Allora siamo alla perversione del senso ultimo della Resistenza.
La verità è che quella del gran muftì di allora è solo un pretesto capzioso e strumentale. Il vero scopo del presidente Pacifici e di coloro che lo seguono — e addolora sapere che l’Aned condivide questa scelta -, è quello di servire pedissequamente la politica di Netanyahu, che consiste nello screditare chiunque sostenga le sacrosante rivendicazioni del popolo palestinese.
Per dare forza a questa propaganda è dunque necessario staccare la memoria della persecuzione antisemita dalle altre persecuzioni del nazifascismo e soprattutto dalla Resistenza espressa dalle forze della sinistra. È necessario discriminare fra vittima e vittima israelianizzando la Shoah e cortocircuitando la differenza fra ebreo d’Israele ed ebreo della Diaspora per proporre l’idea di un solo popolo non più tale per il suo legame libero e dialettico con la Torah, il Talmud e il pensiero ebraico, bensì un popolo tribalmente legato da una terra, da un governo e dalla forza militare.
Se come temo, questo è lo scopo ultimo dell’abbandono del fronte antifascista con il pretesto che accoglie la bandiera palestinese, la scelta non potrà che portare lacerazioni e sciagure, come è vocazione di ogni nazionalismo che non riconosce più il valore dell’altro, del tu, dello straniero come figura costitutiva dell’etica monoteista ma vede solo nemici da sottomettere con la forza.
Angelo d'Orsi
(10 aprile 2015)
Ad Auschwitz, uno dei monumenti più notevoli tra quelli dedicati alle varie comunità degli internati è il cosiddetto «Memoriale Italiano». Un paio di anni or sono le autorità polacche decisero di chiuderlo al pubblico, nel silenzio del governo italiano, e dell’Aned, in teoria proprietaria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrintendenza del campo, ormai museo, ha deciso di procedere alla rimozione del Memoriale. La sua colpa? Quella di ricordare che nei lager non furono soltanto deportati e sterminati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comunisti insieme a socialdemocratici e cattolici, gli omosessuali, i disabili. Quel Memoriale opera egregia, alla cui ideazione, su progetto dello studio BBPR (Banfi Belgiojoso Perussutti Rogers, il prestigioso collettivo milanese di cui faceva parte Ludovico Belgiojoso, già internato a Buchenwald) collaborarono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiuntivi, come l’accogliere fra le sue tante decorazioni e simbologie anche una falce e martello, e una immagine di Antonio Gramsci, icona di tutte le vittime del fascismo.
Ora, ai governanti polacchi, desiderosi di rimuovere il passato, disturbano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monumento metta in crisi «l’esclusiva» ebraica relativa ad Auschwitz. Ed è grave che una città italiana, Firenze, si sia detta pronta ad accoglierlo. Contro questa scellerata iniziativa si sta tentando da tempo una mobilitazione culturale, che si spera possa avere un riscontro politico forte e oggi su questo si svolgerà nel Senato italiano una iniziativa di denuncia promossa da Gherush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spostare quel monumento dalla sua sede naturale, equivale a trasformarlo in mero oggetto decorativo, mentre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pensato, a ricordare, proprio là, dietro i cancelli del campo di sterminio, cosa fu il nazismo e il suo lucido progetto di annientamento, che, appunto, non concerneva solo gli ebrei, collocati in fondo alla gerarchia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giudicati essere «razze inferiori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comunisti in testa, o ancora gli «scarti» di umanità, secondo le oscene teorie degli «scienziati» di Hitler.
Insomma, la rimozione del Memoriale, è una rimozione della memoria e un’offesa alla storia. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comunità israelitiche italiane, che o hanno taciuto, o hanno approvato la rimozione del Memoriale (in attesa della sua sostituzione con un bel manufatto politicamente adattato ai tempi nuovi), appare grave.
E in qualche modo richiama le polemiche di questi giorni relative alla manifestazione romana del 25 aprile.
Premesso che la cosa «si svolgerà di sabato», e dunque, come ha pretestuosamente precisato il presidente della Comunità israelitica romana, gli ebrei non avrebbero comunque partecipato, la denuncia che «non si vogliono gli ebrei», è un rovesciamento della verità: non si vogliono i palestinesi. Ed è grave l’assenza annunciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è scatenata sull’assenza della «Brigata Ebraica». La quale ha le sue origini remote niente meno in Vladimir Jabotinsky, sionista estremista di destra con legami negli anni ’30 mai smentiti con Mussolini, che convinse le autorità britanniche, nella I guerra mondiale, a dar vita a una Legione ebraica.
Nel II conflitto mondiale, fu Churchill a lasciarsi convincere a organizzare un Jewish Brigade Group, inquadrato nell’esercito britannico: 5000 uomini che operarono in particolare nell’Italia centrale, contribuendo alla liberazione di Ravenna e di altri borghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glorie. Bene dunque celebrarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo eminente, come sembrerebbe a leggere certe dichiarazioni. Ma il fuoco mediatico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come storico ho il dovere di ricordarlo. Quei soldati divennero il nucleo iniziale delle milizie dell’Irgun e del Haganah — quelle che cacciarono i palestinesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neonato Stato di Israele, al quale offrirono anche la bandiera.
Si capisce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il martello. Ma quando leggo che il suo presidente afferma che «i palestinesi non c’entrano con lo spirito della manifestazione», mi vien voglia di chiedergli se gli amici di Netanyahu c’entrino di più. Altri hanno dichiarato in questi giorni che bisogna lasciar parlare solo chi ha fatto la guerra di liberazione; ma se così intanto andrebbero cacciati dai palchi tanti tromboni in cerca di applausi; e soprattutto se si adotta questa logica è evidente che tra poco non ci sarà più modo di festeggiare il 25 aprile, perché, ahimè, i partigiani saranno tutti scomparsi.
E allora — visto l’articolo 2 dello Statuto dell’Anpi che rivendica un profondo legame con i movimenti di liberazione nel mondo — come non dare spazio a chi oggi lotta per liberarsi da un regime oppressivo, discriminatorio come quello israeliano, rappresentato ora dal governo di destra di Netanyahu? Chi più dei palestinesi ha diritto oggi a reclamare la «liberazione»? E invece temo si vada verso questo (addirittura in queste ore in forse a Roma) e i prossimi 25 Aprile ingessati e reistituzionalizzati.
Andiamo per ordine.
Iniziamo col distinguere gli ebrei italiani che hanno partecipato alla guerra di liberazione nelle diverse formazioni partigiane sotto il Comitato di liberazione nazionale dagli ebrei arruolati nella brigata facente parte della 8° Armata britannica. Costoro provenivano tutti dalla Palestina mandataria britannica.
Un libro recente (La brigata ebraica, Soldiershop, novembre 2012) ripercorre nel dettaglio tutta la storia della brigata; uno degli autori, Samuel Rocca, ha prestato servizio nell’esercito israeliano. Il libro ricorda che nell’esercito britannico vi erano compagnie di arabi e di ebrei: miste nei Pionieri, divise nella Fanteria. Nel 1943 le compagnie formate da soli ebrei ottengono di potere usare la bandiera sionista, oltre quella della Palestina mandataria raffigurante al suo interno anche la bandiera inglese. La brigata ebraica che opera in Italia è costituita verso la fine della guerra, fine settembre 1944, e sino al marzo 1945 la sua attività si limita alla acquisizione di addestramento. Combatte tra marzo e aprile 1945 nelle zone di Ravenna e Brisighella. Viene smantellata nel 1946. Dal libro non emerge con chiarezza quale sia la sua bandiera ufficiale ed in particolare se la stella di Davide sia gialla come raffigurata in copertina o azzurra come sembrerebbe da un passo a pag. 50 ove si legge che : “ è l’attuale bandiera di Israele”.
A me sembra che poco importi il colore della stella e possiamo attenerci, per quel che qui interessa, alla definizione del libro che parla di “ bandiera sionista”.
In conclusione: la brigata ebraica usava la bandiera sionista e ha combattuto negli ultimi due mesi di guerra. Queste circostanze di fatto rendono plausibile una valutazione fatta in un altro libro ( “Relazioni pericolose”, di Faris Yahia, Città del sole), libro sui rapporti tra l’Agenzia ebraica, il nazismo e il fascismo. Afferma l’autore, pag. 84, che la brigata più che per combattere il nazifascismo fu costituita per supportare l’idea della entità nazionale ebraica ( quindi una operazione di propaganda) e per acquisire esperienza militare ( questo spiegherebbe la lunga fase di addestramento). Significativamente, finita la guerra e prima di essere smantellata, la brigata si occupò della organizzazione di flussi migratori verso la Palestina.
I membri della brigata andarono a formare il futuro esercito di Israele, unendosi ai colleghi provenienti dall’Haganà e dalle sue emanazioni: l’Irgun di Jabotinsky e poi di Begin e la banda Stern. Emanazioni queste piuttosto imbarazzanti: come è noto, le due organizzazioni sono responsabili di attacchi terroristici a obiettivi britannici, arabi ed…ebraici. Ricordiamo solo i più noti: l’esplosione sulla nave Patria nel 1940 ad opera dell’Haganà ( 202 ebrei uccisi); l’attentato all’hotel King David di Gerusalemme, sede del governo mandatario inglese, nel 1946 ad opera dell’Irgun con vittime inglesi, arabe ed ebree.
Per non dire della banda Stern, guidata dal fondatore Stern e poi da Shamir, banda che non ha disdegnato rapporti e accordi con i nazisti sino a giungere alla proposta di alleanza militare fatta all’Asse nel 1940/41.
La bandiera sionista ha quindi sempre sventolato senza soluzione di continuità dalla repressione ad opera di Haganà e britannici della rivolta araba del 1936/39, alla Nakba del 1947/48, alle guerre successive di Israele sino alle stragi di Gaza dei nostri giorni. Sventola sui carri armati mentre distruggono gli olivi, abbattono le case, occupano i campi profughi, affiancano i coloni; sventola sul muro di separazione e sui tetti delle colonie. Insomma, ha accompagnato e accompagna tutti i crimini sionisti.
Come possa, con queste credenziali, questa bandiera sventolare in un corteo antifascista col pretesto di un paio di mesi di operatività a fianco degli alleati non è dato capire.
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Restiamo nell’ambito della ricostruzione storica per parlare del Gran Muftì di Gerusalemme, evocato a pretesa dimostrazione della alleanza degli arabi con i nazisti.
Che cosa c’entra il Muftì ? all’evidenza nulla ma, si sa, quando scarseggiano gli argomenti ci si attacca a tutto. Come ha detto Moni Ovadia (Manifesto, 11/4): “ Richiamare il Gran Muftì è un pretesto capzioso e strumentale”. La propaganda e la mistificazione storica sionista ci hanno però abituato a tutto.
Il Muftì Amin Husseini cercava, comprensibilmente vista la situazione in Palestina, alleati contro i sionisti e i britannici. Scrive lo storico francese Henry Laurens, riportato da “Palestina”, AA.VV., Zambon ed.,pag.44: ” Husseini era convinto che il fine ( dei sionisti, NDR) fosse quello di espellere gli arabi dalla Palestina e impadronirsi della Spianata delle moschee per costruirvi il Terzo Tempio”. Non fu antisemita ma antisionista. Disse a Hitler che gli parlava del complotto giudaico mondiale e della necessità di combattere gli ebrei: “ Noi arabi pensiamo che è il sionismo all’origine di tutti questi sabotaggi e non gli ebrei”.
Col senno di poi, non si può dire che Husseini si sia sbagliato, né sulla volontà sionista di espellere tutti gli arabi né sui progetti per la Spianata. Certo, la frequentazione di Hitler non è commendevole ma da quale pulpito viene la predica, dopo quello che si è detto sulla banda Stern, con quello che si sa sulle simpatie di Jabotinsky e tutto quello che rivela il libro “ Relazioni pericolose”?
Vogliamo parlare dell’accordo della Ha’avarah per il trasferimento di capitali ebraici in Palestina nel 1933 o dell’accordo del 1938 sulla emigrazione ( ispirato a criteri non propriamente umanitari visto che l’Agenzia ebraica sceglieva gli ebrei da mandare in Palestina in base a censo, età e affidabilità ideologica)? O anche dello sterminio di migliaia di ebrei ungheresi nel 1944 in cambio della salvezza di 600 notabili sionisti ( accordo tra l’ebreo Kastner e il sig. Eichmann). O, per restare in casa nostra, che dire del gruppo fascista ebraico di Ettore Ovazza “ La nostra bandiera” nel 1935? ( per un approfondimento di questi temi, Yahia, op.cit.).
Almeno il Gran Muftì aveva le sue motivazioni politiche e religiose e seguiva la regola per cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, regola discutibile ma ampiamente osservata soprattutto in quegli anni: si pensi ai Finlandesi pro-nazisti in funzione antisovietica o alle condoglianze espresse dal primo ministro irlandese all’ambasciata tedesca il giorno dopo la morte di Hitler in funzione antiinglese.
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Coloro che vorrebbero screditare i Palestinesi usando il Gran Muftì si guardano bene dal ricordare l’ampia partecipazione dei Palestinesi alla lotta al nazifascismo, arruolati anche loro come volontari nell’esercito inglese. Il Dossier del Colonial Office n.537/1819, in 34 pagine fornisce i dati relativi al reclutamento dei Palestinesi nelle Forze britanniche in Medio Oriente. Nelle pagine 13 e 14 si legge che l’epoca di arruolamento va dal 1° settembre 1939 al 31/12/1945; in questo periodo furono aggregati all’esercito inglese 12.446 Palestinesi di cui 148 donne; per l’esattezza 83 nella marina e gli altri nell’esercito. A pag. 16 si riportano le perdite: 701.
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Per quanto riguarda le bandiere palestinesi e la legittimazione della loro presenza nel corteo non occorrono molte parole. Basta rileggersi, come giustamente ricordato da Angelo D’Orsi ( Manifesto, 9/4), l’art. 2 dello Statuto dell’ANPI che prevede l’obbligo di appoggiare tutti coloro che si battono per la libertà e la democrazia. E quale movimento di liberazione e di resistenza ha oggi più legittimazione di quello palestinese sul piano giuridico, politico, storico ed etico?
E’ un caso che protagonisti della rivolta del ghetto di Varsavia si siano pronunciati contro l’occupazione ( ad esempio Chavka Fulman Raban) o addirittura abbiano espresso solidarietà ai combattenti palestinesi, come il vicecomandante Marek Edelman nella lettera alla Resistenza palestinese del 10/8/2002? Debbo ricordare che Stephane Hessel nel suo “Indignatevi” ha dedicato un intero capitolo proprio alla sua principale indignazione: l’occupazione della Palestina?
Non da ultimo, è anche il caso di ricordare il contributo di sangue palestinese versato nella guerra contro il nazifascismo, nonostante l’oppressione subita ad opera degli Inglesi nella fase mandataria.
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Ed allora? Sembra che il PD offra ospitalità alla brigata. Qualcuno si stupisce? Le simpatie sioniste del partito sono dichiarate. Ed è in buona compagnia: nel 2013 fu la destra a sfilare dietro la bandiera della brigata, si veda il “lamento” di Gad Lerner in “ Gli abusatori della brigata ebraica”. Chi oggi, in campo sionista, continua a parlare della soluzione “Due popoli due Stati” sa di essere favorevole in realtà alla soluzione di un unico Stato, non quello democratico binazionale, auspicato da una parte del movimento di solidarietà con la Palestina, ma quello di Israele, etnico, confessionale e razzista. Netanyahu ha detto chiaro ai primi di marzo: “ Non ci sarà mai uno stato palestinese”. Chi è così ingenuo da credere che la sua sia stata solo una boutade elettorale?
Che dire dell’ANED? A Roma ha chiesto l’allontanamento delle bandiere palestinesi e questo dopo avere assistito passivamente allo smantellamento del proprio memoriale ad Auschwitz, colpevole di raffigurare Gramsci e di ricordare anche le vittime diverse dagli ebrei.
Mi interessa di più l’ANPI. Nel 2006 l’ANPI ha aperto le iscrizioni agli antifascisti: forti della memoria, ci si apriva all’attualità, in linea col motto “Ora e sempre Resistenza”. Il Presidente Smuraglia nel 2012, rispondendo all’ennesimo appello di iscritti ANPI per una presa di posizione chiara sulla Palestina ha scritto:” La manifestazione del 25 Aprile non può che essere aperta a tutti e dunque non accoglie questo o quello ma si limita a prendere atto delle presenze, spesso assai variegate, ma che devono condividere i temi fondamentali del 25 Aprile.
Questo è il punto!! La condivisione dei valori della Resistenza. Quali?
- La pace e il ripudio della guerra, valore contraddetto dalla storia di Israele, dalle stragi periodiche a Gaza e dallo stillicidio di uccisi quotidiani nella West Bank
- La libertà, valore contraddetto dai milioni di profughi palestinesi, dalle migliaia di prigionieri, dal muro, dalle centinaia di check points, dalla realtà di Gaza
- L’uguaglianza, valore contraddetto dalla pretesa di Israele di essere uno stato etnico/confessionale riservato ai solo ebrei e dalle discriminazioni ai danni dei Palestinesi con cittadinanza israeliana
- La giustizia, valore contraddetto dalle continue violazioni delle risoluzioni dell’ONU, dalla indifferenza dinanzi alle denunce di crimini di guerra e crimini contro l’umanità della Corte di giustizia de L’Aja e della Commissione per i diritti umani dell’ONU; per non dire, a livello interno, dei processi farsa contro i Palestinesi e della impunità dei crimini di soldati e coloni
- Il valore della resistenza e della autodifesa, riconosciuto dallo Statuto dell’ONU e negato dalla pulizia etnica in corso.
Chi non riconosce questi valori non può stare nel corteo.
Per questi motivi noi nel corteo ci saremo, con le bandiere palestinesi e con lo striscione con la frase di Nelson Mandela che ricorda che non c’è libertà senza la libertà della Palestina; grideremo forte il nostro “NO” alla bandiera sionista che mortifica la manifestazione e i valori che il 25 Aprile rappresenta.
16 Aprile 2015
Ugo Giannangeli
di Andrea Catone – Editoriale per il nuovo numero della rivista MarxVentuno
http://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-italia/25451-a-70-anni-dalla-liberazione.html
MicroMega 3/2015 - Almanacco di storia: "Ora e sempre Resistenza" - Dal 23 aprile in edicola, libreria, ebook e iPad
Sergio Mattarella - La Resistenza rivolta morale, rivolta in armi contro il fascismo contro il conformismo
Il saluto e l’augurio del Presidente della Repubblica alla rivista e ai lettori per questo numero monografico dedicato a ‘Ora e sempre Resistenza’.
SAGGIO 1
Angelo d’Orsi - Mito e antimito della Resistenza
Dalle riletture storiografiche di De Felice al revisionismo più compiuto dei giorni d’oggi, assistiamo nel giudizio egemone corrente ad un vero e proprio rovesciamento della realtà a proposito della Resistenza, additata come un insieme di azioni inutili e controproducenti, e alla contemporanea riabilitazione del fascismo. Ma soltanto rispolverando lo spirito della Resistenza antifascista – come elemento basilare e irrinunciabile della identità italiana – possiamo difendere i diritti sociali e il valore della Costituzione repubblicana.
A PIÙ VOCI - Dieci risposte sulla Resistenza
card. Gualtiero Bassetti / Lorenza Carlassare / Gianroberto Casaleggio / Sandrone Dazieri / Giancarlo De Cataldo / Maurizio de Giovanni / Erri De Luca / Loriano Macchiavelli / Ezio Mauro / Moni Ovadia / Giovanni Ricciardi / Corrado Stajano / Valerio Varesi / Marco Vichi / Gustavo Zagrebelsky
Perché la Resistenza non è diventata l’unica possibile ‘memoria condivisa’ su cui costruire l’identità italiana? Come è possibile che la storiografia revisionista abbia avuto da noi tale diffusione? Qual è il lascito della Resistenza? Ha senso parlare di ‘tradimento’ della Resistenza? Sono alcune delle domande che a settant’anni dalla Liberazione MicroMega ha rivolto ad alcuni esponenti del mondo della cultura, della letteratura, della filosofia, del diritto, della religione.
ICEBERG 1 - storia e interpretazione
Franco Cordero - Etica d’una guerra partigiana
Fascismo e Resistenza non rappresentano solo due momenti storici, ma costituiscono due ‘antropologie’ radicalmente agli antipodi, divise da un’alterità incolmabile. Purtroppo, però, mentre l’antropologia fascista sembra parte integrante del corredo ‘genetico’ degli italiani, lo ‘spirito della Resistenza’ – che impone capacità critica, libertà di pensiero, autonomia – è stato un’anomalia per il nostro paese. Che non a caso, infatti, l’ha sostanzialmente lasciato cadere nell’oblio.
Luciano Canfora - Per una storia scientifica della ‘guerra di liberazione’
A partire almeno dal 1990 – quando Bobbio rilancia in un famoso articolo la tesi di Pavone sulle ‘tre guerre’ della Resistenza – si fa strada una vulgata secondo la quale durante la Resistenza i comunisti combattevano, oltre alla guerra di liberazione, anche una ‘guerra di classe’. Ma basta scorrere gli organi della stampa clandestina comunista di allora per rendersi conto che le cose stavano esattamente al contrario. Come dimostrano del resto anche gli aspri rapporti tra il Pci e alcune frange più estremiste, che quella ‘guerra di classe’ (che, se combattuta, avrebbe portato a una tragica soluzione ‘alla greca’) invece volevano scatenarla per davvero.
Marco Albeltaro - Resistenza e normalizzazione
Il processo di normalizzazione – teso a quietare sul nascere le spinte innovatrici incubate nella Resistenza – inizia subito dopo la Liberazione. Con la caduta del governo Parri, cade anche la speranza di un cambiamento profondo dell’Italia e inizia la retorica dell’unità nazionale, sfruttata per far passare in secondo piano le differenze non tanto politiche, ma esistenziali, fra fascismo e antifascismo.
Paolo Borgna - La ‘meglio gioventù’: la Resistenza degli ‘azionisti’
Leggendo i loro diari, le loro lettere, colpisce soprattutto la lucidità del loro sguardo, la capacità di vedere in anticipo le conseguenze della storia che si stava consumando davanti ai loro occhi. La lotta armata, alla quale molti aderenti al Partito d’Azione prendono poi parte, è l’esito di una preparazione morale, intellettuale, politica maturata negli anni, che attendeva solo il momento propizio per liberare l’Italia. Il futuro di minoritarismo a cui è destinato il Pd’A è inversamente proporzionale al prezioso contributo – di idee e di sangue – che i suoi aderenti diedero alla Resistenza italiana.
Valerio Romitelli - Partigiani e qualunquisti
La storia dell’Italia repubblicana è stata possibile esclusivamente grazie alla Resistenza. Questo semplice fatto dovrebbe bastare a fare dell’esperienza partigiana una premessa indiscussa e indiscutibile dell’attuale identità italiana. E invece fin dai primi anni del dopoguerra – con il successo del movimento qualunquista di Giannini – comincia a serpeggiare un atteggiamento scettico, quando non di aperta condanna. Atteggiamento che ha sempre trovato una sponda in quella ‘maggioranza silenziosa’ desiderosa solo di tornare al quieto vivere dopo le devastazioni della guerra.
Pierfranco Pellizzetti - La grande dissipazione del ’45
Di ‘Resistenza tradita’ si parla spesso in riferimento alla cosiddetta Prima repubblica. Ma è già con la ‘svolta di Salerno’ – aprile 1944 – che quel tradimento si consuma. Tradimento ai danni dei giovanissimi partigiani che combattevano sulle montagne – di molti dei quali non conosciamo neanche i nomi – che la nomenklatura dei partiti (Pci in testa) ha voluto subito normalizzare. Un tradimento dell’ethos resistenziale che costituisce il peccato originale su cui si costruirà la futura Repubblica.
Alberto Asor Rosa - Lo spirito della Resistenza nella Costituzione
La Resistenza fu in Italia allo stesso tempo lotta di liberazione nazionale contro l’occupante tedesco e lotta contro il regime fascista. Questa doppia natura la carica di valori fondativi della successiva Repubblica, aspetto che è difficile trovare altrove. Si tratta pertanto di un colossale spartiacque per la storia italiana. Purtroppo questa consapevolezza non è ancora diventata patrimonio universale. E di strada ne abbiamo ancora parecchia.
Alessandro Portelli - L’eroismo e l’eccidio
Una contronarrazione revisionista cerca da tempo di trasformare un atto eroico dei partigiani in un agguato terroristico, responsabile tra l’altro della successiva strage delle Fosse Ardeatine. Questo testo esamina le tante menzogne su via Rasella, ribadendo alcune inconfutabili verità storiche su quel che è stato un gesto compiuto per la libertà. Un attacco gappista che la stessa Cassazione ha considerato ‘legittima azione di guerra” contro gli occupanti nazisti.
SAGGIO 2
Roberto Scarpinato - Resistenza, Costituzione e identità nazionale: una storia di minoranze?
“La lezione della storia dimostra come le minoranze progressiste in Italia abbiano sempre avuto vita difficile. Condannate nel corso dei secoli al rogo, al carcere, all’abiura, all’esilio e, nel migliore dei casi, al silenzio e all’irrilevanza sociale, hanno svolto un ruolo spesso determinante per l’evoluzione del paese, ma solo grazie a temporanee crisi di potere delle maggioranze e a contingenti circostanze favorevoli”. Così è stato anche per la Resistenza, che ci ha lasciato una preziosissima eredità, la Costituzione, oggi più che mai sotto assedio.
ICEBERG 2 - storie resistenti
Andrea Martocchia - Il Territorio Libero di Cascia
Nella pubblicistica del partigianato e nella storiografia resistenziale viene generalmente omesso. Eppure il Territorio Libero di Cascia – esperienza sorta nella Valnerina umbra tra il febbraio e il marzo 1944 – merita un approfondimento. Oltre al fatto di essere precedente a molte altre esperienze di autogoverno dei partigiani, quella di Cascia ebbe infatti una rilevanza politico-sociale irripetibile, trattandosi di uno dei pochi casi in cui l’Italia rurale si incontrava con la componente operaia e quella straniera, rappresentata dai partigiani jugoslavi.
David Broder - I partigiani che volevano fare la rivoluzione
Nato a Roma nel 1942 come ‘La Scintilla’, il Movimento comunista d’Italia, meglio conosciuto col nome del suo giornale Bandiera Rossa, sarebbe diventato nei mesi dell’occupazione nazista della capitale la principale spina nel fianco di tedeschi e fascisti, militarmente superiore anche alle formazioni partigiane animate dal Pci. Proprio con quest’ultimo e con la sua linea politica di unità nazionale, tuttavia, il gruppo si sarebbe infine scontrato, dovendo rinunciare al proprio obiettivo di trasformare la Resistenza in rivoluzione sociale.
Mirco Dondi - Regolamenti di conti e violenze nel dopo Liberazione
I giorni successivi alla Liberazione sono caratterizzati, ovunque in Europa, da un desiderio di giustizia che si traduce spesso in violenze fuori controllo, perpetrate sia dalle formazioni partigiane sia, soprattutto, dai civili, la cui ira è più imprevedibile e difficilmente arginabile. Se non ci fosse stata la guerra fredda, la violenza successiva alla Liberazione sarebbe entrata nell’ordinaria tragicità di una guerra che si sconta, anche, nel dopoguerra. Con la guerra fredda invece cambia la percezione del fenomeno, che assume nuovi e distorti significati, tesi a delegittimare il nuovo nemico comunista.
Francesco Giliani - Cgl rossa e lotta di classe al Sud (1943-44)
La ‘Cgl rossa’, rinata a Napoli nell’ottobre del 1943 e diretta, fra gli altri, da comunisti ‘dissidenti’ come Enrico Russo e Nicola Di Bartolomeo, fu per alcuni mesi e fino allo scioglimento avvenuto nell’agosto del 1944 la principale confederazione sindacale nel Sud Italia liberato dagli alleati. Attestandosi però su una linea ‘classe contro classe’ ansiosa di trasformare la lotta partigiana in rivoluzione sociale, essa sarebbe presto entrata in rotta di collisione con il Pci togliattiano e con l’‘unità nazionale’ sancita dalla svolta di Salerno, perdendo infine la lotta per l’egemonia ingaggiata con la Cgil unitaria creata dal Patto di Roma.
Guido Caldiron - La mancata Norimberga italiana
Dopo il 25 aprile 1945 la gran parte dei criminali di guerra del nostro paese non pagò per le proprie responsabilità, mentre il fallimento dell’epurazione e le amnistie restituirono rapidamente potere e libertà ai protagonisti del Ventennio e ai repubblichini, aprendo la strada alla riorganizzazione politica degli sconfitti della seconda guerra mondiale. I casi emblematici di Graziani e Borghese.
MEMORIE
Boris Pahor - Il contributo della Resistenza slovena
Il regime fascista – odioso in ogni sua manifestazione – nelle regioni dell’Istria e della Dalmazia ha assunto anche il volto della violenta occupazione straniera che pretendeva di cancellare ogni traccia di culture e lingue con grandi tradizioni. Per questo in quei territori la liberazione dal nazifascismo è stata anche guerra di liberazione nazionale. Uno dei suoi protagonisti, esponente di spicco della cultura slovena, oggi alla soglia dei 102 anni, ricorda i momenti più significativi di quel periodo.
Tina Costa - Io, giovane staffetta partigiana
“Fin da piccola mi avevano abituato a non chinare la testa e a 7 anni feci la mia prima azione di rivolta contro il fascismo quando mi rifiutai di indossare la divisa da ‘figlie della Lupa’. A neanche 18 diventai una staffetta partigiana: con la mia bicicletta dovevo attraversare la Linea Gotica e consegnare delle borse ai combattenti che si trovavano nel territorio occupato dai nazisti. Rischiai anche la vita ma rifarei tutto”.
Bruno Segre - Io, avvocato, partigiano di ‘Giustizia e libertà’
Gli anni del carcere, le rocambolesche fughe, le amicizie, i due fortuiti incontri con Umberto di Savoia, le battaglie. Il ricordo degli anni dal ’42 al ’44 di un antifascista della prima ora, partigiano di Giustizia e libertà, e successivamente protagonista di tante battaglie per i diritti civili nell’Italia repubblicana – dall’obiezione di coscienza al servizio militare al divorzio. Che si dice convinto: “Lo spirito della Resistenza vive e vivrà sempre”.
Massimo Ottolenghi - Ricordi di un ‘gagno’ di ‘Giustizia e Libertà’
L’antifascismo di Massimo Ottolenghi, nato nel 1915, comincia in realtà ben prima della guerra. Dalla distribuzione dei volantini fatti pervenire a casa della nonna come involucri per il miele, passando per la diffusione della stampa proibita fra i professori universitari torinesi sul tram numero 1 di Torino, fino alla lotta partigiana vera e propria condotta nella Valle di Lanzo, un unico filo lega diverse avventure ed esperienze: il filo dell’impegno per la giustizia e la libertà. Raccontando qui quella esperienza, Ottolenghi considera la mancata epurazione incubatrice dell’evoluzione che ancora perdura.
Luigi Fiori - Fra Diavolo, partigiano borghese
Cresciuto nella bambagia, in una famiglia dell’alta borghesia, voleva fare lo scultore e mai si sarebbe sognato che sarebbe diventato uno dei simboli della Resistenza. È stato l’incontro con gli altri soldati al fronte che ha iniziato ad aprirgli gli occhi su un regime che fino ad allora aveva accettato, un po’ per inerzia e un po’ per ignoranza. E dopo l’8 settembre diventa il famoso Fra Diavolo, giungendo al comando di una brigata.
Giorgio Mori - Storia di un partigiano migrante. Dalle cave di Carrara alle miniere del Belgio alla delusione per l’Italia di oggi
Da soldato in Africa, dove ha incontrato per la prima volta la ferocia della guerra, a partigiano nelle cave di Carrara, dove ha sperimentato la durezza della Resistenza. E non meno difficile è stato per Giorgio Mori il dopoguerra: rimasto senza lavoro per via della sua attività sindacale, dovette emigrare in Belgio dove lavorò nelle miniere. Oggi la sua vita è dedicata a diffondere tra i giovani la conoscenza della guerra di liberazione e i valori a cui essa si ispirava.
Laura Seghettini - La maestra col fucile
Il ruolo delle donne nella Resistenza è stato spesso sottovalutato. Eppure le partigiane furono tante: molte facevano le staffette, portando viveri, armi e messaggi ai combattenti, altre hanno anche imbracciato il fucile, come racconta qui Laura Seghettini che si unì al battaglione Picelli. Un’esperienza che l’ha segnata profondamente e che le ha insegnato i valori della democrazia e della socialità, ai quali ha improntato il resto della sua vita.
Giuliano Montaldo - Il mio cinema partigiano
Da "Achtung! Banditi!" con Carlo Lizzani a "L’Agnese va a morire" e "Il tiro al piccione", un grande Maestro del cinema italiano – che coi suoi film ha trasmesso quello “spirito della Resistenza che ancora mi appartiene” – racconta aneddoti e storie della sua vita: “La Dc osteggiò i miei lavori e l’egemonia della leadership nella Resistenza, tutta nordica, escluse il Sud”.
Enzo Pellegrin
16/04/2015
"Quanto compiuto dalle forze dell' ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 «deve essere qualificato come tortura». Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura. In particolare è stato violato l'articolo 3 su «divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti». Il dispositivo è impietoso: «Tenuto conto della gravità dei fatti avvenuti alla Diaz la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata». E ancora: «La polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura» (Corriere della Sera, cronache, 15 aprile 2007, www.corriere.it)
Nel pur drogato mondo dell'informazione italiana, col passare del tempo e dei processi, il massacro della Scuola Diaz a Genova 2001 è assurto a simbolo dell'abuso delle Forze dell'Ordine. Diaz in Italia come Rodney King negli USA. Sebbene la burocratica ed autoreferenziale giustizia italiana abbia irrogato nei confronti del potere pene tutt'altro che adeguate alla gravità dei fatti, condanne ce ne sono state. Tuttavia, da ultimo ci si è messa anche la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, la quale ha sciorinato il tagliente, ma adeguato, giudizio sopra descritto.
Di diversa opinione il Sig. Fabio Tortosa, polizotto, dipendente del Ministero degli Interni, il quale ha commentato la pronuncia di Strasburgo sul social network Facebook affermando in un "post" di essere stato un componente dell'80mo nucleo attivo quella notte nella scuola genovese e che alla Diaz ancora oggi "ci rientrerebbe mille e mille volte". Nelle diverse pagine di conversazioni e commenti, il poliziotto si esprime definendo i manifestanti "zecche" e chiarendo la sua opinione su Carlo Giuliani, manifestante ucciso durante gli scontri di Piazza Alimonda: "Non ci sono mezze misure. O si sta con quella merda di Giuliani, o si sta con quelli che a Giuliani gli fanno saltare la testa..."
Di fronte alle gravi accuse di aver permesso fatti di tortura e di aver ostacolato l'identificazione dei responsabili, un governo che in qualche modo debba fronteggiare il consenso dell'opnione pubblica non può non avere un nervo scoperto su questo tema. Se un dipendente del Ministero degli Interni come Fabio Tortosa commette l'errore di scoprire le carte e rivendicare pubblicamente con orgoglio le malefatte della Scuola Diaz, non possono non fioccare provvedimenti, quantomeno per l'imbarazzo che il maldestro dipendente ha creato.
Purtuttavia, un serio esecutivo che si volesse ispirato dai minimi valori democratici dimenticati nel sepolcro cartaceo della Costituzione, non si sarebbe limitato ad un banale provvedimento di sospensione, ma avrebbe recapitato l'immediato e meritato licenziamento in tronco al Sig. Fabio Tortosa, spiegandogli che nelle forze dell'ordine non può aver cittadinanza chi pensa che l'oppositore è un nemico da uccidere, una "zecca" da eliminare.
Un governo con la serietà di cui sopra avrebbe commissionato una seria inchiesta interna per scoprire quanti Fabio Tortosa albergano nelle questure, nei commissariati e nelle caserme italiane. A volte basta farsi un giro negli uffici e notare se sulle pareti sono appesi quei calendarietti con l'immagine del maestro di Predappio.
Un governo serio e costituzionale non ammette nelle forze dello stato soggetti ispirati dalla violazione dei principi costituzionali ed in particolare dal fare carta straccia della XII disposizione transitoria.
Stiamo parlando però del governo che lascia al vertice di Finmeccanica De Gennaro e gli "conferma piena fiducia". Lo stesso De Gennaro - imputato uscito indenne dai processi genovesi, ma comunque capo della polizia ai tempi della Diaz - che in Finmeccanica stipula un lauto contratto di consulente della sicurezza a Gennaro Caldarozzi, ex capo, ai tempi di Genova 2001 - come ricorda il Secolo XIX - dello SCO (Servizio Centrale Operativo), condannato e interdetto per cinque anni dai pubblici uffici dopo il processo sull'irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001.
Questo il governo che avremo in carica il prossimo 25 aprile, i cui rappresentanti vorranno forse intervenire alle commemorazioni della Resistenza.
Eppure, merita ricordare che l'inclusione nelle forze dell'ordine dello Stato di elementi che non hanno mai condiviso nè i valori resistenziali, nè quelli democratici, è iniziata fn dai primissimi giorni dopo la liberazione e si è protratta anche dopo la nascita della Carta Costituzionale Repubblicana.
Sin dai primi momenti successivi all'insurrezione partigiana nel nord Italia e alla liberazione, l'Italia divenne per gli "alleati" americani terra di conquista e di grande attività per i loro servizi segreti, all'epoca denominati OSS (1).
Questa organizzazione "agì in tutti i settori per agglomerare forze anticomuniste"(2), a cominciare da quegli industriali che lucrarono ingenti profitti proprio grazie al regime fascista: il 16 e 17 giugno 1945 si riuniscono a Torino sotto la guida di Piero Pirelli, Rocco, Armando ed Enrico Piaggio, Costa, Falck e Valletta per programmare una "accelerazione della lotta al comunismo" anche con l'organizzazione di gruppi armati (3).
L'OSS si adoperò inoltre per creare una rete di organizzazioni politiche di ispirazione nettamente fascista sotto le sigle più disparate, come Fronte Moderato, Giovine Italia, Partito Nazionale Popolare ed altri, proprio con lo scopo di "arginare la demoralizzazione che la sconfitta aveva generato nei ranghi dei sostenitori del fascismo e di riflesso rincuorare la piccola e media borghesia italiana", fondamentale si rivelava però l'attenzione a "preservare gli ambienti militari italiani da contaminazioni democraticistiche" (4) inglobando all'interno di forze armate, apparati statali, polizia soggetti che avevano avuto ruoli di primo piano all'interno del regime, soprattutto quando la loro futura azione avrebbe potuto tornare utile e conicidere con gli interessi americani.
Per esempio, quando, alla fine del secondo conflitto mondiale, la Jugoslavia venne a trovarsi al centro degli interessi militari e strategici americani, ostili alla rivoluzione di Tito, i servizi USA manovrarono gli apparati nella nascente democrazia italiana nuovamente in funzione e direzione anti-jugoslava. Per far ciò, sentirono la necessità di impiegare quelli che furono attori di primo piano nella politica di conquista del fascismo verso i balcani: "già nel settembre 1945, cinque mesi soltanto dopo la fine della guerra, una circolare del comando italiano raccomandava che gli elementi di «provati sentimenti antislavi», anche se fascisti, fossero mantenuti o riammessi in servizio" (5).
Un esempio fulgido di questa politica fu il ripescaggio del generale Giuseppe Pieche, rimasto in Croazia a fianco di Ante Pavelic fino al crollo del regime il 25 luglio 1943. Alla fine della guerra fu assunto al Ministero degli Interni come "direttore del servizio antincendi". Da quell'ufficio di copertura, in coordinamento con i servizi segreti statunitensi, organizzò clandestinamente gruppi terroristici neofascisti ed altri gruppi armati neri come il Movimento Anticomunista per la Ricostruzione Italiana, il Gruppo d'azione Fascista, il Fronte Antibolscevico, le Squadre d'Azione Mussolini, i Cadetti della Violenza ed altri gruppi similari che ponevano in essere azioni di provocazione secondo le direttive dei servizi segreti americani (6).
Dagli albori del 1945 ad oggi, le strutture dello Stato sono passate attraverso i sentieri dell'organizzazione Gladio, dei vari tentativi di colpo di stato che hanno visto coinvolti appartenenti alle forze armate, delle azioni di depistaggio condotte in relazione ad atti di strage, eventi storici sui quali si sono scritti fiumi di parole.
La questione della democrazia all'interno delle Forze dell'Ordine come degli apparati militari è pertanto dipendente dai rapporti di forza dello scenario geopolitico, più che dal maggiore o minore zelo costituzionale dei governi. De Gennaro saldo in poltrona a fianco del Tortosa sospeso sono la cartina di tornasole degli stessi rapporti. La campagna di ritorsione e pulizia condotta a margine dello sciagurato intervento di Tortosa contro tutti i piccoli pesci dello stagno poliziesco che hanno osato mettere un "mi piace" sulla conversazione "facebook" avrà un'inevitabile argine in quegli stessi rapporti di forza. Quei rapporti di forza che hanno permesso, negli anni repubblicani, di svuotare, procrastinare, cancellare l'applicazione dei principi di progresso contenuti nella Carta Costituzionale della Penisola, sino a farla diventare oggi una vuota crisalide, sino ad imporre il giogo del pareggio di bilancio come diga all'attuazione dei diritti sociali scomodi ai monopoli finanziari ed industriali.
A noi resta il bisogno di macerarci nei fatti del presente, oltre che in quelli del passato. Il prossimo 25 aprile è quindi bene ricordare cosa fa il governo e cosa fanno i rapporti di forza. La Resistenza, attaccata, svillaneggiata e tradita, sopravvive forte lontano dal potere, nei luoghi in cui ogni proletario soffre e subisce sfruttamento, vive nei cuori di migliaia di Giovani e di Lavoratori che mantengono salda e continua la loro lotta, ora, come allora, ed in tutti quei momenti della nostra storia repubblicana, in cui lo stivale borghese o quello dei suoi servi si sono calati sul popolo.
La Resistenza vive nei figli e nipoti della stessa rabbia. E' bene ricordarlo, il 25 aprile.
Note:
1. L'Office of Strategic Services (OSS) era un servizio segreto statunitense operante nel periodo della seconda guerra mondiale. Fu il precursore della Central Intelligence Agency (CIA). Fu istituito nel giugno 1942 con lo scopo di coordinare la gestione della raccolta di intelligence militare a livello centrale, assumendo in ciò un ruolo sovraordinato ad ogni altra analoga struttura già esistente nelle forze armate americane (ogni forza aveva infatti, e tuttora possiede, un proprio servizio di intelligence), in particolare per quanto concerneva le operazioni oltre le linee nemiche, venendo poi sciolto nel 1945 (Wikipedia, voce OSS)
2. F. GAJA, Il secolo corto, la filosofia del bombardamento, la storia da riscrivere, Maquis, Milano, 1994, p. 167.
2. R. FAENZA e M. FINI, Gli americani in Italia, Milano, 1976, p. 147 cit. in F. GAJA, op. cit., p. 167.
3. F. GAJA, op. cit., p. 167.
4. F. GAJA, op. cit., p. 168.
5. R. FAENZA e M. FINI, op cit., p. 168,169.
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