Informazione

I colonizzatori

1. Il tirocinio di Ho Chi Minh fra gli Yankees
(di Domenico Losurdo - da Belfagor)

2. Macabro scambio di immagini in Rete: un sito erotico propone a
soldati Usa l'accesso gratuito in cambio di scatti in zone di guerra
(La Repubblica online)


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BELFAGOR anno LX n. 4 - 31 luglio 2005 (n. 358)

http://www.olschki.it/riviste/belfagor/inlibr.htm

Il tirocinio di Ho Chi Minh fra gli Yankees

di Domenico Losurdo

1. Ormai non è più lecito avere dubbi. Lo scatenamento dell'ultima
guerra contro l'Irak potrebbe anche essere stato inopportuno. E' vero,
il casus belli addotto per giustificarla si è rivelato inconsistente:
nel paese per anni sorvegliato e spiato dal cielo, dal mare e dalla
terra, e quindi sistematicamente bombardato, occupato e setacciato,
non c'è traccia di quelle armi di distruzione di massa, la cui
esistenza era stata «dimostrata» dall'allora segretario di Stato Colin
Powell all'ONU e che, a detta di Tony Blair, il regime ora rovesciato
era pronto a impiegare, con furore genocida, «nell'arco di 45 minuti».
Sì, un intero castello di menzogne si è come sbriciolato. E, tuttavia,
le recriminazioni non hanno più senso dinanzi al compito urgente che
si impone all'Occidente di fronteggiare la terribile minaccia
rappresentata dai «tagliatori di teste» islamici.
A lanciare l'allarme non è solo Oriana Fallaci. Anche giornalisti e
quotidiani solitamente lontani dall'islamofobia si sono preoccupati di
fare appello al senso di responsabilità che dovrebbe essere proprio di
ogni occidentale e di ogni persona civile: nello scontro, che oggi in
Irak contrappone marines da un lato e tagliatori di teste ovvero
tagliagole dall'altro, non si può non prendere posizione per i primi.
Balza subito agli occhi il carattere arbitrariamente selettivo della
configurazione del conflitto; altri potrebbero descriverlo come lo
scontro tra i torturatori di Abu Ghraib e le loro vittime, ovvero come
la disperata insurrezione di un popolo già condannato per lunghi anni
all'inedia con un pretesto menzognero e ora sottoposto all'umiliante
occupazione militare di una variegata legione straniera.
Ma non è questo il punto più importante. Assieme alla geopolitica e
alla geoeconomia, l'odierna Crociata in difesa della Civiltà rimuove
anche la memoria storica. Siamo in presenza di un'accusa che prende di
mira i popoli di volta in volta bollati in quanto estranei alla
civiltà. Nel visitare nel 1836 la Spagna, in quel momento immersa in
una sanguinosa guerra civile, piuttosto che prendere posizione per una
delle parti, Richard Cobden giunge ad una conclusione di carattere
generale, in relazioni ai «barbari al di là del golfo di Biscaglia»:
si tratta di «una nazione di bigotti, accattoni e tagliagole, con un
governo di puttane e canaglie».
Ovviamente, il bersaglio privilegiato di questa accusa è costituito
dai popoli coloniali o di origine coloniale. Chi più ricorda che la
decimazione e l'annientamento dei pellerossa nord-americani sono stati
promossi in nome della lotta contro un popolo di tagliateste e
tagliagole? Tra i crimini che la Dichiarazione di indipendenza
addebita a Giorgio III è quello di aver aizzato contro i coloni
ribelli gli «spietati selvaggi indiani». Sì – precisa Thomas Paine
sempre nel 1776 – la monarchia inglese «ha incitato i negri e gli
indiani a distruggerci» ovvero a «tagliare la gola degli uomini liberi
in America».
E' un'accusa confermata da Marx. Il capitale descrive in che modo il
governo di Londra fronteggia la minaccia dei coloni ribelli: «Per
istigazione inglese e al soldo inglese essi furono tomahawked [uccisi
a colpi di tomahawk, la scure di guerra dei pellerossa]. Il parlamento
britannico dichiarò che i cani feroci e lo scalping erano "mezzi che
Dio e la natura avevano posto in sua mano"». Epperò, dopo la vittoria
della rivoluzione americana, il quadro cambia sensibilmente. Già nel
1783 un comandante inglese mette in guardia: imbaldanziti dalla
vittoria, i coloni «si preparano a tagliare la gola agli indiani»; il
comportamento dei vincitori – aggiunge un altro ufficiale – è
«umanamente scioccante». Inizia in effetti il periodo più tragico
della storia dei pellerossa. Andrew Jackson, presidente degli Stati
Uniti negli anni in cui Tocqueville analizza sul campo e celebra la
«democrazia in America», ascende alla più alta magistratura del paese
dopo essersi distinto nella caccia agli indiani, da lui assimilati a
«cani selvaggi». Su questo punto diamo la parola ad uno storico
statunitense dei giorni nostri:
«Vantandosi di "aver sempre conservato lo scalpo di quelli che aveva
uccisi", lo stesso Andrew Jackson […] aveva sovrinteso alla
mutilazione di circa ottocento cadaveri di indiani creek – i corpi di
uomini, donne e bambini che lui e i suoi uomini avevano massacrato –
amputando loro il naso per contarli e conservare una testimonianza
della loro morte, e tagliando lunghe strisce di pelle per conciarle e
trasformarle in briglie».
Nel procedere in occasione della rivoluzione americana allo scambio di
accuse già visto, le due frazioni in cui si è lacerato il partito
liberale della comunità bianca osservano entrambe un rigoroso silenzio
sulla sorte riservata dall'Impero britannico nel suo complesso ai
nativi investiti dall'espansione coloniale. Per saperne qualcosa siamo
di nuovo costretti a far ricorso all'analisi marxiana
dell'«accumulazione originaria»:
«Quei sobri virtuosi che sono i puritani della Nuova Inghilterra
misero nel 1703, con risoluzioni della loro assembly, un premio di 40
sterline su ogni scalp d'indiano e per ogni pellerossa prigioniero;
nel 1720 misero un premio di 100 sterline per ogni scalp, nel 1744,
dopo che Massachusetts-Bay ebbe dichiarata ribelle una certa tribù, i
premi seguenti: per uno scalp di maschio dai dodici anni in su, 100
sterline di valuta nuova, per prigionieri maschi 105 sterline, per
donne e bambini prigionieri 55 sterline, per scalps di donne e bambini
50 sterline!».
Il silenzio su questo capitolo di storia svolge un'importante funzione
ideologica. George Washington può tranquillamente assimilare i
«selvaggi» pellerossa a «bestie selvagge della foresta» (Wild Beasts
of the Forest). E, a quasi un secolo di distanza, nella California
strappata al Messico, «la degradazione e l'annientamento degli
indiani» diventano, per dirla con un altro storico statunintense, «una
sorta di sport popolare».
Se i pellerossa, in quanto ingombrante zavorra, sono destinati ad
essere cancellati dalla faccia della terra, i neri, utili quali
strumenti di lavoro e bestiame umano, subiscono la morte solo allorché
recalcitrano alla loro condizione di schiavi e si ribellano contro i
loro padroni. In tal caso l'esecuzione dei colpevoli deve assumere un
carattere esemplare e pedagogico. Come dimostra, nella Louisiana del
1811, la repressione di una rivolta di schiavi neri: le teste dei
colpevoli sono piantate su paletti e messe in mostra sul luogo del
misfatto.

2. E' una pratica cui l'Occidente fa ricorso forse con particolare
frequenza nell'ambito del suo rapporto coi popoli arabi e islamici,
oggi accusati di essere i tagliatori di teste per eccellenza. Nel
corso della sua spedizione in Egitto, dinanzi al rifiuto di un
notabile egiziano di cedere agli invasori una parte consistente del
suo ricco patrimonio, «Bonaparte ordinò che gli fosse mozzato il capo
e che lo si portasse in giro per tutte le vie del Cairo con il
cartello: "Così saranno puniti tutti i traditori e gli spergiuri"». E,
tuttavia, il tentativo di terrorizzare la popolazione non consegue il
suo obbiettivo. Qua e là scoppiano rivolte. Ebbene – prosegue lo
storico sovietico qui citato – Bonaparte
«inviò sul luogo il suo aiutante Crouazier perché assediasse la
popolazione ribelle, sterminasse tutti gli abitanti di sesso maschile
senza eccezione e portasse al Cairo le donne e i bambini, dando alle
fiamme il villaggio. L'ordine fu eseguito alla lettera. Molte donne e
bambini perirono durante la lunga marcia fino al Cairo. Alcune ore
dopo la spedizione punitiva, la piazza principale del Cairo mostrava
lo strano spettacolo di lunghe file di asini carichi di sacchi: i
sacchi furono aperti e sulla piazza rotolavano le teste degli uomini
della tribù insorta, giustiziati».
La pratica del mozzamento delle teste dei colpevoli e della loro
esibizione a fini pedagico-terroristici non cessa con la sconfitta di
Napoleone. Nel corso del suo viaggio in Algeria – siamo negli anni
della Francia liberale della monarchia di luglio – a Philippeville,
Tocqueville è ospite a pranzo di un colonnello dell'esercito di
occupazione, il quale traccia un quadro eloquente della situazione:
«Signori, solo con la forza e il terrore si può riuscire a trattare
con questa gente […] L'altro giorno sulla strada è stato commesso un
assassinio. Mi è stato condotto un arabo che era sospettato. L'ho
interrogato e poi gli ho fatto tagliare la testa. Vedrete la sua testa
alla porta di Costantina».
Tocqueville non prende le distanze da questo comportamento, che ai
suoi occhi sembra rientrare tra le «necessità spiacevoli» di cui
occorre farsi carico allorché ci si impegna in una «guerra agli
arabi». Nella lotta contro di essi, è necessario «distruggere tutto
ciò che rassomiglia ad un'aggregazione permanente di popolazione o, in
altre parole, ad una città»; è «della più alta importanza non lasciar
sussistere o sorgere alcuna città nelle regioni controllate da
Abd-el-Kader», il leader della resistenza. Non bisogna lasciarsi
inceppare dagli scrupoli morali:
«Ho spesso udito in Francia uomini che rispetto ma che non appoggio
considerare riprovevole il fatto che si brucino i raccolti, che si
svuotino i silos e che infine ci si impadronisca degli uomini
disarmati, delle donne e dei bambini.
Si tratta, secondo me, di necessità spiacevoli, ma alle quali sarà
costretto a sottomettersi ogni popolo che vorrà fare la guerra agli
arabi».
Quando si ha a che fare con gli islamici, la pratica del mozzamento
della testa può infierire persino su cadaveri ormai putrefatti. Nel
1898, con la battaglia di Omdurman, la Gran Bretagna riesce a
riassoggettare il Sudan, che in precedenza aveva sconfitto gli inglesi
e conquistato l'indipendenza. Ora i bianchi superuomini avvertono il
bisogno di riscattare l'umiliazione subita: non si limitano a finire i
nemici orribilmente feriti dalle pallottole dum-dum. Devastano la
tomba del Mahdi, l'ispiratore e protagonista della resistenza
anticoloniale: il suo cadavere è decapitato; mentre il resto del corpo
è gettato nel Nilo, la testa viene portata in giro come trofeo.

3. Esibite a scopo pedagogico-terroristico, le teste mozzate si
configurano talvolta come una sorta di trofeo di caccia. Nel 1890
Joseph Conrad compie il suo viaggio in Africa e nel Congo,
raccogliendo le informazioni e suggestioni che poi confluiscono in
Cuore di tenebra e nella descrizione qui contenuta degli orrori
dell'espansione e del dominio coloniali: si pensi alle «teste [dei
ribelli] lasciate a seccare sui paletti sotto le finestre del signor
Kurtz», lo schiavista che è il personaggio-chiave del romanzo.
Può infine accadere che il trofeo di caccia si trasformi in souvenir.
Abbiamo visto Jackson infierire sul corpo degli indiani uccisi e
scotennati. Questo non gli impedisce di coltivare pensieri in qualche
modo gentili: egli amava verificare di persona «che i souvenirs
provenienti dai cadaveri fossero distribuiti "alle signore del
Tennessee"».
A un trattamento analogo sono sottoposti, nel sud degli Stati Uniti, i
neri che osano mettere in discussione il regime di white supremacy.
Vediamo in che modo si conclude un linciaggio nell'Arkansas del 1921.
Una folla di cinquecento persone, fra cui non poche donne, si gode il
prolungato spettacolo di un nero che i suoi carnefici mettono a
bruciare a fuoco lento e che invano cerca di affrettare la propria
morte. Quando questa finalmente arriva, ecco intervenire la gara per
contendersi «quali souvenirs» le ossa della vittima.
Tre anni dopo, un giovane indocinese (Nguyen Sinh Cung), approdato
negli Stati Uniti in cerca di lavoro, assiste inorridito ad un linciaggio:
«Il nero viene messo a cuocere, è abbrustolito, bruciato. Ma egli
merita di morire due volte piuttosto che una sola volta. Pertanto egli
viene impiccato, più esattamente è sottoposto a impiccagione ciò che
resta del suo cadavere… Quando tutti sono sazi, il cadavere viene
tirato giù».
Di nuovo interviene il momento giulivo dell'acquisizione dei
souvenirs. Gli spettatori e le spettatrici più fini o più modesti si
accontentano di un pezzo della corda utilizzata nel corso del
supplizio. «A terra, circonfusa da un puzzo di grasso e di fumo, una
testa nera, mutilata, arrostita, deformata, fa una smorfia orribile e
sembra chiedere al sole che tramonta. "E' questa la civiltà?"».
L'infausta tradizione qui sommariamente evocata si fa sentire ancora
nel corso della seconda guerra mondiale. Mentre da un lato, nel
desiderio anche di scimmiottare la bianca e occidentale razza dei
signori, si macchiano dei crimini più orrendi in primo luogo contro i
cinesi e i popoli dell'Asia orientale, i giapponesi sono a loro volta
assimilati a barbari ed anzi a veri e propri animali, ad opera dei
loro nemici che pretendono di incarnare l'Occidente autentico: «Che
male c'era, allora, se alcuni pulivano, lustravano e mandavano a casa
i loro teschi di animali come souvenir?» Ritornano in auge le pratiche
che già conosciamo:
«Una comune istantanea raffigura un soldato o un marine che esibisce
orgogliosamnte un cranio giapponese ben lustrato, mentre una poesia di
quel periodo, di Winfiled Townley Scott, riflette, senza alcun
commento morale, su The U. S. Sailor with the Japanese Skull (Il
marinaio statunitense con il teschio giapponese): " … il nostro/
Marinaio, cioè, ventenne, vagabondava in agosto/ Tra i piccoli corpi
sulla sabbia e andava in caccia / Di ricordi: denti, piastrine, diari,
stivali; ma ancor più ardito / Tagliava una testa e la scuoiava sotto
un albero di ginkgo biloba". Poi il marinaio la trascina per molti
giorni dietro la nave e finalmente la netta accuratamente con la
lisciva e ottiene così un perfetto ricordino».
A guerra appena finita, nel febbraio 1946 l'Atlantic Monthly riconosce:
«Sparammo ai prigionieri a sangue freddo, distruggemmo gli ospedali,
mitragliammo a bassa quota le scialuppe di salvataggio, uccidemmo e
maltrattammo i civili nemici, finimmo i feriti, gettammo i moribondi
in una fossa con i morti, e nel Pacifico bollimmo i teschi dei nemici
per eliminare la carne intorno e farne soprammobili per le fidanzate o
intagliammo le ossa fino a ottenere dei tagliacarte».

4. Possiamo almeno considerare conclusa con la seconda guerra mondiale
l'infausta tradizione di cui qui si tratta? Torniamo a Nguyen Sinh
Cung, al giovane indocinese già incontrato. Egli denuncia l'infamia
del regime di supremazia bianca e del Ku Klux Klan, da lui paragonato
al fascismo, su Correspondance Internationale (la versione francese
dell'organo dell'Internazionale Comunista). Dieci anni dopo egli fa
ritorno in patria e assume il nome, col quale ancora più tardi
diventerà noto in tutto il mondo, di Ho Chi Minh. C'è un nesso tra
l'orrore da lui provato per la sorte nella democratica America
riservata agli infelici neri e la determinazione con cui egli guida la
lotta di liberazione nazionale prima contro la Francia e poi contro
gli Stati Uniti? Certo è che anche in Indocina, a decenni di distanza
dal crollo del Terzo Reich, la razza dei signori conserva le sue
abitudini. Il protagonista del romanzo di Conrad, il signor Kurtz
sembra ancora fare scuola, a giudicare almeno da quello che riferisce
un docente americano su una rivista americana, a proposito di un
agente della Cia, che visse nel Laos «in una casa decorata con una
corona di orecchie strappate dalle teste di comunisti [indocinesi]
morti». Neppure dopo la morte meritano rispetto la testa e il corpo
dei barbari. E' di questi giorni la notizia, proveniente da Baghdad,
di un video «che mostra una pattuglia [statunitense] mentre ride e
scherza con il corpo di un irakeno freddato all'interno del suo
camioncino». Tutto lascia presumere che la vittima abbia perso la vita
per errore. Ma ciò non incrina il buon umore delle truppe di
occupazione. Come chiarisce la didascalia apposta alle foto pubblicate
dal Corriere della Sera, «il peggio deve ancora cominciare. Un soldato
Usa si avvicina al corpo, lo scuote. "Fagli fare ciao con la manina"
gli dice un compagno. E lui prende la mano del morto per l'ultimo
oltraggio». Ma questo oltraggio e gli altri consumati ad Abu Ghraib e
che continuano a consumarsi quotidianamente in Irak non impediscono ai
colpevoli di bollare come «tagliateste» e «tagliagole» i nemici che
l'Impero e la razza dei signori via via incontrano sulla loro strada.


Testi citati

Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci, Corriere della Sera, Milano,
2004 (p. 126); Wendy HINDE, Richard Cobden. A Victorian Outsider, New
Haven and London, Yale University Press, 1987 (pp. 25-6); Thomas
PAINE, Collected Writings, a cura di Eric Foner, New York, The Library
of America, 1995 (pp. 35 e 137); Karl MARX, Das Kapital (1867-1894),
tr. it., di Delio Cantimori, Il capitale, Torino, Einaudi (vol. I, p.
925, cap. 25); Colin G. CALLOWAY, The American Revolution in Indian
Country. Crisis and Diversity in Native American Communities,
Cambridge, University Press, 1995 (pp. 278 e 272, per quanto riguarda
il comportamento dei coloni vittoriosi); David E. STANNARD, American
Holocaust. The Conquest of the New World (1992), tr. it., di Carla
Malerba, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, Torino,
Bollati Boringhieri, 2001 (pp. 202-3, per Jackson e p. 252, per le
modalità della guerra tra Stati Uniti e Giappone); Richard Maxwell
BROWN, Strain of Violence. Historical Studies of American Violence and
Vigilantism, Oxford University Press, New York-Oxford, 1975 (p. 193,
per la Louisiana del 1811); E. V. TARLE, Napoleone (1942), tr. it. di
G. Benco e G. Garritano, Editori Riuniti, IV ed., 1975 (pp. 73-4);
Byron FARWELL, Prisoners of the Mahdi (1967), New York-London, Norton
Company, 1989 (pp. 303 sgg.) e Wladimir G. TRUCHANOWSKI, Winston
Churchill. Eine politische Biographie (1968), tr. ted. dal russo di
Gisela Lehmann e Eberhard Wolfgramm, Köln, Pahl-Rugenstein, 1987 (pp.
46-8, per quanto riguarda il Sudan); Joseph CONRAD, Heart of Darkness
(1899), tr. it., di Ettore Capriolo, Cuore di tenebra, Milano,
Feltrinelli, Universale Economica, II ed., 1996 (p. 85); Paul FUSSEL,
Wartime (1989); tr. it., di Mario Spinella, Tempo di guerra, Milano,
Mondadori, 1991 (pp. 178 e 152-3, per le modalità della guerra tra
Stati Uniti e Giappone); Thomas F. GOSSET, Race. The History of an
Idea in America (1963), New York, Schocken Books, 1965 (p. 270, per
l'efferatezza dei linciaggi); Wyn Craig WADE, The Fiery Cross. The Ku
Klux Klan in America, New York-Oxford, Oxford University Press, 1997
(pp. 203-4, per Ho Chi Minh); Domenico LOSURDO, Controstoria del
liberalismo, Roma-Bari, Laterza, in libreria a partire dal settembre
2005 (cap. 1, § 5, per Washington e gli indiani; cap. 9, § 2, per lo
«sport popolare» in California e cap. 7. § 6, per Tocqueville e
l'Algeria); Daniel WIKLER, The Dalai Lama and the Cia, in The New York
Review of Books, 23 settembre 1999, (p. 81, per la «corona di
orecchie»); Fabrizia SARZANINI, Il dossier italiano: manomesse le
prove, in Corriere della Sera del 1 maggio 2005, p. 6,

(pubblicato in «Belfagor. Rassegna di varia umanità», 31 luglio 2005)

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5086


=== 2 ===

http://www.repubblica.it/2005/h/sezioni/esteri/iraq64/fotohorror/fotohorror.html

Macabro scambio di immagini in Rete: un sito erotico propone
a soldati Usa l'accesso gratuito in cambio di scatti in zone di guerra

Iraq, foto agghiaccianti in cambio di materiale porno

Il sito degli orrori segnalato da un blogger italiano


MILANO - Foto pornografiche in cambio di terrificanti immagini di
cadaveri. Il macabro scambio avviene su Internet tra un sito ad alto
tasso erotico e i soldati statunitensi in Afghanistan e in Iraq. I
militari vengono invitati a spedire i loro terribili scatti di corpi
mutilati, carbonizzati, smembrati dalle esplosioni, promettendo in
cambio l'accesso gratuito a diverse sezioni "proibite". Il risultato è
una galleria degli orrori, segnalato da un blogger italiano, il cui
nickname è Staib, che ne ha parlato diffusamente sul suo blog e su
diversi portali di controinformazione.

Lo rivela l'Ansa, che riporta l'annuncio che appare sulla homepage del
sito: "Se sei un soldato americano di stanza in Iraq, Afghanistan, o
un altro teatro di guerra e vorresti accesso libero al sito, puoi
pubblicare le foto che tu e i tuoi compagni avete fatto durante il
vostro servizio".

Il sito, prettamente pornografico, è strutturato come un forum, dove
gli utenti scambiano materiale amatoriale, non coperto da copyright,
che va dal "voyeur" alle foto e ai video hard di presunte fidanzate e
mogli. Due le chiavi per accedere ai contenuti porno: i frequentatori
possono pagare, oppure inviare del materiale "interessante". E qui
scatta la "riduzione per i militari".

In due sezioni apposite, i soldati possono guadagnarsi l'accesso
gratuito alle immagini più piccanti pubblicando foto e video
realizzati durante il loro servizio. Una parte ha un tema generale,
con foto di militari, anche improntate a un certo umorismo bellico,
mentre l'altra sezione si presenta come un vero e proprio museo degli
orrori, con foto per lo più di iracheni morti e cadaveri smembrati.
Infatti, appena vi si entra, si viene avvisati che "questa sezione è
tra quelle più cruente, quindi le persone che non vogliono vedere
questo tipo di materiale non dovrebbero accedervi".

A scorrere gli allegati inviati sembra di entrare in un girone
infernale: ogni messaggio contiene infatti immagini raccapriccianti,
in una escalation di barbarie e crudezza, accentuata dai messaggi
lasciati dai frequentatori del sito. Messaggi esaltati, non certo
inorriditi, alla vista di quelle terribili istantanee prese sul teatro
di guerra. Si vedono corpi carbonizzati, senza testa, senza arti, una
faccia in una scodella, i resti di un kamikaze, un braccio, gambe,
accompagnati da commenti disumani, prossimi all'esultanza per quegli
scempi.

All'orrore di membra riverse tra la polvere e teste spappolate, si
aggiungono sottolineature come "l'unico iracheno buono è l'iracheno
morto" o riferimenti ironici come "poveraccio, immaginatevi se le 72
vergini che lo aspettano sono tutte delle ciccione".

Stupiscono, per il loro cinismo, persino i titoli dei vari post: i
pragmatici "qualche foto in cambio dell'accesso" o "uomini morti per
ingresso", ma anche il barbaro quiz "date un nome a questa parte del
corpo umano", che prelude alla visione di un brandello di carne
insanguinata, carbonizzata e spappolata. Tra le immagini, nella
sezione più generale, anche alcune foto di militari americani feriti,
che loro stessi hanno inviato.

(21 agosto 2005)

KOSMET (deutsch / 1: Kosovo soll EU-Kolonie werden)

1. Kosovo soll EU-Kolonie werden
(jw 29.04.2005 - Jürgen Elsässer - "Il Kosovo deve diventare una colonia")

2. Massenabschiebungen. Afghanistan und Kosovo angeblich sicher
(jw 23.05.2005 - Ulla Jelpke - "Deportazioni: L'Afghanistan ed il
Kosovo sarebbero sicuri")

3. Pilot verweigerte Deportation
(jw 02.07.2005 - Inland - Nick Brauns - Esponenti della comunità
askhali del Kosovo, rifugiati in Germania, si oppongono alla deportazione)

4. Deutsche Truppen bleiben im Kosovo
(jw 03.06.2005 - Ulla Jelpke - Prolungata la missione "di pace" delle
truppe tedesche in Kosovo)

5 . Sechs Jahrhunderte in Flammen
Mit der Zerstörung serbischer Kirchen und Klöster im Kosovo
verschwindet ein Weltkulturerbe
(jw 22.03.2005 - Peter Urban - Sulla distruzione dei monumenti
bizantini del Kosovo da parte dei nazionalisti pan-albanesi, alleati
della NATO)


LINKS:

Politische Anreize

BERLIN/PRISTINA/PRIZREN - Die westlichen Besatzungsmächte im Kosovo
bereiten sich auf bevorstehende Machtkämpfe vor und verstärken ihre
Truppen in dem UN-Protektorat. Hintergrund ist die geplante Sezession
der serbischen Provinz, die insbesondere von Deutschland forciert
wird. Berlin will ungehinderten Zugriff auf die Wirtschaftsressourcen
des Gebiets und wünscht daher ein Ende der Belgrader Hoheit über den
Kosovo. Zugleich verlangen deutsche Politiker die Unterordnung der
gesamten Region unter die EU. Dies gilt als Voraussetzung, um den
Einfluss der USA zurückzudrängen...

http://www.german-foreign-policy.com/de/news/article/1111539080.php

Der Bundeswehr das Beste
Kanzlerkandidatin der Union verspricht deutschen Soldaten mehr
Sicherheit im Ausland und Einsatzmöglichkeiten im Innern

16.07.2005 - Wera Richter - Am Freitag führte der angelaufene
Bundestagswahlkampf die Unionskanzlerkandidatin Angela Merkel zu den
deutschen Soldaten ins Kosovo. Auf dem Beobachtungspunkt »Auge«, hoch
über Prizren, ließ sich die CDU-Chefin das Protektorat zeigen. Mit 2
600 Soldaten ist Deutschland der größte Truppensteller der
internationalen Kosovostreitkräfte (KFOR). Die Kanzlerin in spe war
voll des Lobes: Die Leistungen der Bundeswehrsoldaten im Ausland seien
»alles andere als selbstverständlich, und wir sollten ihnen dafür sehr
dankbar sein«. Die Gefährdung der Soldaten müsse »so gering wie irgend
möglich gehalten werden«, so Merkel, daher seien Einsparungen bei der
Truppe ausgeschlossen. »Unsere Soldaten müssen trotz allgemeinen
Sparzwanges das Beste an Ausrüstung und Material zur Verfügung
gestellt bekommen.«...

http://www.jungewelt.de/2005/07-16/001.php

Mutmaßlicher Abschluss

20.07.2005 - Berlin und die NATO bereiten sich auf neue Unruhen im
Kosovo vor. Ein entsprechendes Militärabkommen unterzeichnete der
NATO-Generalsekretär am Montag in Belgrad. Beobachter rechnen mit
gezielten Provokationen nationalistischer Albaner, die auf die im
Herbst beginnenden Statusverhandlungen Einfluss nehmen wollen. Ziel
ist die Sezession des Kosovo. Auch maßgebliche Vertreter der deutschen
Außenpolitik befürworten die Loslösung von Serbien. Strittig sind
Methoden und Zeithorizont. Während die Kosovo-Eliten einen schnellen
Machttransfer verlangen, befürchten Berlin und die NATO verlustreiche
Kämpfe bei der Austreibung der letzten serbischen Bewohner. Um das
Tempo zu drosseln, hält die NATO Truppen bereit und plant Einsätze auf
dem Gebiet Serbiens. Von dort sollen westliche Streitkräfte vorstoßen,
sobald das Sezessionsgeschehen unübersichtlich wird. Die erwarteten
Unruhen könnten auf die Nachbarstaaten übergreifen, meint der
ehemalige jugoslawische Generalkonsul Vlado Nadazdin im Gespräch mit
german-foreign-policy.com. Albanische Politiker propagieren u.a. in
Mazedonien und Griechenland eine ethnische Landnahme ("Groß-Kosovo")...

http://www.german-foreign-policy.com/de/news/art/2005/54814.php

Interview mit Vlado Nadazdin - aus German-Foreign-Policy.com

20.07.2005 - Über die Entwicklung im Kosovo sprach
german-foreign-policy.com mit Vlado Nadazdin. Nadazdin trat nach
Studien in Jugoslawien und Deutschland in den Auswärtigen Dienst
seines Landes ein und arbeitete u.a. sieben Jahre als Kabinettschef
des jugoslawischen Außenministers. Im März 1999 wurde er zum
Generalkonsul der Bundesrepublik Jugoslawien in Düsseldorf ernannt.
Nach dem Umsturz im Jahr 2000 verlor er sämtliche diplomatischen Ämter...

http://www.artel.co.yu/de/izbor/jugoslavija/2005-07-27.html

Keine "Standards vor Status"

24.08.2005 - Die internationalen Auseinandersetzungen um die
Abtrennung des Kosovo von Serbien verschärfen sich. Entsprechende
Verhandlungen unter starkem deutschem Druck sind für diesen Herbst
angesetzt. Beobachter halten sowohl eine Verschiebung der Gespräche
als auch eine "Fluchtstrategie" der Vereinten Nationen für möglich. Im
Ergebnis könnte auf die Durchsetzung humanitärer Standards im Kosovo
verzichtet werden. Während die deutsche Bertelsmann-Stiftung die
Abtrennung der südserbischen Provinz und die Errichtung eines
EU-Protektorats vorschlägt, sucht Belgrad die Volksrepublik China zu
gewinnen. Durch ein Veto im UN-Sicherheitsrat könnte Beijing die
territoriale Integrität Serbiens wahren, sollte sich die deutsche
Sezessionsstrategie durchsetzen. Die aktuellen Auseinandersetzungen
leiten die letzte Phase der Zerschlagung des früheren Jugoslawien ein,
die zu Beginn der 1990er Jahre unter maßgeblicher Beteiligung
Deutschlands ihren Anfang genommen ha
t. Die publizistische Rechtfertigung der Angriffe auf Belgrad ist
Gegenstand einer kürzlich erschienenen Studie über die deutsche
Presse. Darin wird die Bedeutung der medialen Interpretationen für den
Zerstörungsprozess analysiert...

http://www.german-foreign-policy.com/de/news/art/2005/55653.php


=== 1 ===

http://www.jungewelt.de/2005/04-29/007.php

29.04.2005

Ausland
Jürgen Elsässer

Kosovo soll EU-Kolonie werden

Balkan-Kommission legt Stufenplan für die Abtrennung von Serbien vor.
Im Hintergrund droht sofortige Unabhängigkeit

Nunmehr ist amtlich, was bisher nur Kriegsgegner behauptet haben: Die
sogenannte humanitäre Intervention der NATO in Jugoslawien im Jahre
1999 hat der Humanität in der angeblich befreiten Provinz Kosovo
nichts genützt. »Unser Bericht stellt fest, daß die Lösungen, die
nötig waren, um Frieden zu schaffen, nicht mehr sinnvoll sind«, sagte
der frühere italienische Premier Giuliano Amato vergangene Woche bei
der Vorstellung des Berichts einer von der EU eingesetzten
Balkan-Kommission. Ihr hatten eine Reihe ehemaliger europäischer
Spitzenpolitiker angehört, darunter auch Exbundespräsident Richard von
Weizsäcker, der Schwede Carl Bildt und der Exaußenminister von
Serbien-Montenegro, Goran Svilanovic.

Nach dem Kommissionsbericht könne der gegenwärtige Status quo des
Kosovo in eine »neue Phase der Instabilität« führen. Damit ist leider
nicht die Tatsache gemeint, daß in den vergangenen sechs Jahren unter
den Augen von zunächst 40 000 und derzeit 20 000 NATO-Soldaten die
Provinz von allen nichtalbanischen Minderheiten weitgehend gesäubert
wurde. Sondern unter dem unbefriedigenden Status quo verstehen die
Kommissionäre die im Waffenstillstandsvertrag zwischen NATO und
Belgrad niedergelegte und dann vom UN-Sicherheitsrat in der Resolution
1244 bekräftigte Festlegung, daß das Amselfeld auch künftig ein Teil
Jugoslawiens (mittlerweile in Serbien-Montenegro umbenannt) bleiben müsse.

Entsprechend des Kommissionsberichts soll das Kosovo statt dessen in
etwa zehn Jahren EU-Mitglied werden, ohne vorher die volle
Unabhängigkeit erlangt zu haben. In einer ersten Phase gehe die
UN-Verwaltungshoheit der Provinz auf die Europäische Union über
(eingeschränkte Unabhängigkeit). In einer zweiten Phase gebe die
EU-Administration immer mehr Kompetenzen an die lokalen Behörden ab.
In einer dritten Phase begännen Beitrittsverhandlungen zwischen dem
Kosovo und der EU (gelenkte Souveränität), an deren Abschluß
schließlich die volle EU-Mitgliedschaft stehen soll.

Mit diesem Vorschlag könnte die EU in den Kosovo-Endstatus-Gesprächen,
die wohl in der zweiten Jahreshälfte beginnen werden, Punkte sammeln.
Denn es wird eine Art Junktim in Aussicht gestellt: Nicht nur das
Kosovo soll EU-Mitglied werden, sondern gleichzeitig auch Serbien und
alle anderen Länder des westlichen Balkan. Belgrad würde auf diese
Weise zwar das Kosovo verlieren, aber andererseits zum selbsternannten
demokratischen Europa gehören dürfen. Kosovo wiederum würde, um die
Serben zu besänftigen, praktisch nur eine einzige Sekunde lang
unabhängig sein, nämlich im Augenblick der Unterzeichnung der
EU-Beitrittsurkunde. Danach müßte es einen Teil seiner Souveränität
schon wieder an Brüssel abgeben, ebenso wie Neumitglied Serbien
natürlich auch.

Damit diese schlaue Idee Wirklichkeit werden kann, muß freilich nicht
nur die serbische Regierung zustimmen, die man schon gut weichgekocht
hat, sondern auch der UN-Sicherheitsrat. Dort dürften Moskau und
Peking ihr Veto einlegen, denn wenn die EU es sich angewöhnt, nicht
mehr nur Staaten den Anschluß anzubieten, sondern auch Regionen in
Staaten, könnte sie mit dem Kosovo-Trick künftig auch Transnistrien
(heute noch Moldawien), Nagorny-Karabach (Armenien) oder
Tschetschenien (Rußland) als Provinz annektieren.

Wird der EU-Vorstoß also im Sicherheitsrat blockiert werden? »Einige
albanische Politiker hoffen, daß am Ende von erfolglosen Verhandlungen
die Vereinigten Staaten zunächst einseitig das Kosovo als unabhängig
anerkennen werden«, berichtete die FAZ Anfang April von einer Tagung
der Friedrich-Ebert-Stiftung. Soll heißen: Entweder die Serben, Russen
und Chinesen nicken den EU-Stufenplan ab – oder Kosovo wird mit Hilfe
der USA und ohne UN-Zustimmung sofort und ganz stufenlos souverän.


=== 2 ===

http://www.jungewelt.de/2005/05-23/002.php

jw 23.05.2005 - Kommentar
Ulla Jelpke

Massenabschiebungen

Afghanistan und Kosovo angeblich sicher

23.05.2005

Kommentar
Ulla Jelpke

Massenabschiebungen

Afghanistan und Kosovo angeblich sicher

Nachdem es der weltumspannenden Allianz der Verlogenheit
offensichtlich nicht gelungen ist, Afghanistan in die angeblich
zivilisierte Wertegemeinschaft der neuen Weltordnung zurückzubomben,
soll nun das KSK der Bundeswehr in Kürze einen neuen Kriegseinsatz
durchführen. Gleichzeitig sollen Tausende Afghanen in ihr
Herkunftsland abgeschoben werden, weil die Lage dort angeblich sicher
sei. Dies haben einige Länderinnenminister vereinbart. Was für eine
Logik! Die Bundesregierung setzt Kriegselitetruppen ein, und die
Innenpolitiker beschließen Massenabschiebungen.

Für die Rückkehrer nach Afghanistan besteht höchste Lebensgefahr. Der
bekannte Frankfurter Rechtsanwalt Viktor Pfaff hat nach einer Reise
mit unabhängigen Experten soeben einen schockierenden Bericht
vorgelegt. Vor allem für Frauen und Kinder ist das Risiko groß, Opfer
staatlicher Willkür und Kriminalität zu werden. Auch diejenigen, die
freiwillig zurückgegangen sind, »wagen es nicht, ihre Familien
nachzuholen«. Während deutsche Hilfsorganisationen ihre Mitarbeiter
wegen der zunehmenden Unsicherheit aus Afghanistan zurückrufen,
demonstrieren in Hamburg betroffene Afghanen für »laßt uns leben«.

Nicht besser ist die Situation im Kosovo. Anfang April beschloß die
Bundesregierung eine Fortsetzung des KFOR-Einsatzes der Bundeswehr, da
die Lebensbedingungen für Minderheiten in der UN-verwalteten Provinz
nach wie vor ungesichert seien. Zugleich wurde trotz zahlreicher
Proteste letzten Donnerstag mit der Abschiebung von Flüchtlingen
begonnen. Insgesamt sollen rund 10000 zwangsweise in die von
Kosovo-Albanern dominierte südserbische Provinz zurückkehren,
insbesondere Minderheitenangehörige wie Ashkali und Kosovo-Ägypter. Je
nach Entwicklung der Lage könnten auch die rund 24000 in Deutschland
lebenden Roma aus dem Kosovo, für die aufgrund ihrer besonderen
Gefährdung bislang ein Abschiebeverbot gilt, künftig ausgewiesen
werden. Der Hohe UN-Flüchtlingskommissar hat noch im März 2005 die
Gefahrenlage betont.

Doch die UN-Zivilverwaltung im Kosovo erklärte sich –
unbegreiflicherweise – mit den Abschiebungen einverstanden. Denn als
es im März 2004 zu blutigen Unruhen kam, bei denen albanische
Kosovaren Angehörige von Minderheiten angriffen, wurden die
Abschiebungen ausgesetzt. Seither hat sich nichts zum Besseren verändert.

Ein schäbiges Motiv ist die Einsparung von Sozialleistungen. Die
finanzschwachen Kommunen sind froh über jede »Entlastung« ihrer
Sozialkassen. Es ist eben einfacher, Militär zu schicken – denn dafür
hat die BRD immer Geld –, als humanitäre Verpflichtungen zu erfüllen.


=== 3 ===

http://www.jungewelt.de/2005/07-02/017.php

02.07.2005 - Inland
Nick Brauns, München

Pilot verweigerte Deportation

Bayerische Behörde wollte selbstmordgefährdete Frau direkt aus der
Psychiatrie abschieben

Die selbst für bayerische Verhältnisse außergewöhnlich gnadenlose
Abschiebung einer Flüchtlingsfamilie scheiterte Freitag früh in
letzter Minute am Widerstand des Piloten. Wie der Sozialdienst des
Münchner Flughafens angab, weigerte sich der Pilot der Adria Airways,
Familie Avdija mit ihren vier Kindern mitzunehmen.

Um vier Uhr nachts hatten Polizeibeamte die schwer suizidgefährdete
Eljheme Avdija aus der psychiatrischen Klinik in Erlangen geholt. Auf
Anraten der behandelnden Ärztin wurde ihr verschwiegen, daß sie zum
Flughafen gebracht wurde. Zeitgleich wurden ihr Mann Aziz Avdija und
die vier Kinder im Alter von neun bis 16 Jahren aus der Zentralen
Rückführstelle (ZRS) für Oberbayern in Zirndorf vom Schubdienst
abgeholt und nach München transportiert.

Familie Avdija gehört der Ashkali-Minderheit im Kosovo an. Von dort
floh die Familie zuerst nach Slowenien. Als der heute sechzehnjährigen
Tochter dort die Verschleppung in die Zwangsprostitution drohte,
beantragten die Avdijas in Deutschland Asyl. Da die Familie erstmals
in Slowenien Asyl beantragt hatte, soll sie nach dem Willen der
deutschen Behörden dorthin deportiert werden.

Gemäß einem aktuellen fachärztlichen Gutachten des
Bezirkskrankenhauses Erlangen leidet Frau Avdija unter einer
posttraumatischen Belastungsstörung. Nachdem ihr Mann Mitte Juni als
»Pfand« für die geplante Abschiebung der ganzen Familie in Haft
genommen wurde, hatte Frau Avdija vor den Augen ihrer Kinder einen
Suizidversuch unternommen. Nur durch das schnelle Eingreifen von
Nachbarn konnte sie gerettet werden. Am Donnerstag unternahm Frau
Avdija einen erneuten Selbstmordversuch, nachdem eine Petition beim
Bayerischen Landtag abgelehnt worden war. Eine Überprüfung der
Reisefähigkeit von Frau Avdija wurde von der ZRS abgelehnt, nachdem
ein Attest der behandelnden Ärztin eine Abschiebung unter hohen
Sicherheitsvorkehrungen für möglich erklärte. Eine Zusage der
slowenischen Behörden, daß Frau Avdija bei ihrer Ankunft in Slowenien
ärztliche Hilfe erhält, lag nicht vor. Das Bezirkskrankenhaus Erlangen
stehe in der Pflicht, sich nicht den Abschiebeinteressen einer
offensichtlich rücksichtslosen Behörde anzupassen, sondern alles zu
tun, was zur Gesundung von Frau Avdija beitrage, kritisierte Stephan
Dünnwald vom Bayerischen Flüchtlingsrat. »Die Abschiebung einer nach
der Einschätzung der Klinik psychisch stark angegriffenen Frau zu
gestatten, ist in unseren Augen mit medizinethischen Grundsätzen nicht
vereinbar.« Auch der Deutsche Ärztetag habe beschlossen, daß eine
reine Prüfung der Flugtauglichkeit ärztlich nicht vertretbar sei.

Nach der gescheiterten Abschiebung wurde die Familie wieder getrennt.
Aziz Avdija und seine Kinder sind jetzt wieder im Lager Zirndorf,
während seine Frau zurück in die psychiatrische Klinik nach Erlangen
gebracht wurde.


=== 4 ===

http://www.jungewelt.de/2005/06-03/012.php

03.06.2005 - Inland
Ulla Jelpke

Deutsche Truppen bleiben im Kosovo

Bundestag beschloß mit großer Mehrheit Fortsetzung des
Bundeswehreinsatzes in Südserbien

Der vor sechs Jahren gestartete Kosovo-Einsatz der Bundeswehr wird um
zwölf Monate bis Juni 2006 verlängert. Das beschloß der Bundestag am
Donnerstag in Berlin bei nur sieben Gegenstimmen.
Verteidigungsminister Peter Struck (SPD) bezeichnete den Einsatz als
alternativlos und betonte zugleich, die friedliche Zukunft der
serbischen Provinz könne nur in Europa liegen. Die Bundeswehr ist mit
derzeit 2 500 Soldaten der größte Truppensteller. Die Kosten für die
zwölfmonatige Mandatsverlängerung werden auf 202 Millionen Euro beziffert.

Außenminister Joseph Fischer (Grüne) sagte, die Frage des Status der
Provinz sei nur in einer europäischen Perspektive zu lösen. Es dürfe
keine Teilung des Kosovo und keine «unkonditionierte Unabhängigkeit»
geben. Damit schloß er indirekt eine weitere Zugehörigkeit zu
Serbien-Montenegro, wie bisher in der UN-Resolution 1244 garantiert,
ebenso aus wie eine von Belgrad angebotene Aufteilung in einen
serbischen und einen albanischen Sektor. Vertreter aller vier
Fraktionen stellten sich hinter die Einschätzung von Struck, daß eine
Fortsetzung der militärischen Unterstützung für die politische
Normalisierung des Kosovo »unerläßlich« sei. Doch mahnten Union und
FDP die Vorlage eines politischen Konzepts für die Zukunft des Kosovo
an, damit es nicht nur zu einer ständig wiederkehrenden Verlängerung
des Bundeswehr-Mandats komme. In namentlicher Abstimmung votierten 575
von 582 Abgeordneten für den Regierungsantrag. Mit sieben
Gegenstimmen, darunter drei von der CDU, die zwei PDS Abgeordneten und
Hans Christian Ströbele von den Grünen. Enthaltungen gab es nicht.

Insgesamt befinden sich gegenwärtig rund 16 000 Soldaten aus 34
Ländern in der von der UNO verwalteten Provinz. Mitte März vergangenen
Jahres war es hier zu Pogromen gegen nicht-albanische Minderheiten
gekommen, bei denen nach UN-Angaben 19 Menschen getötet, 3 000 vor
allem Serben vertrieben und 500 Häuser in serbischen Enklaven zerstört
wurden.


=== 5 ===

http://www.jungewelt.de/2005/03-22/008.php

22.03.2005

Ausland
Peter Urban

Sechs Jahrhunderte in Flammen

Mit der Zerstörung serbischer Kirchen und Klöster im Kosovo
verschwindet ein Weltkulturerbe

Kosovo. 17. bis 19. März 2004: Im Verlaufe eines Pogroms albanischer
Terroristen gegen Serben sterben mindestens 19 Menschen, über 4 000
müssen fliehen – und 37 Sakralbauten der orthodoxen Kirche werden
verwüstet.

»Sechs Jahrhunderte in Flammen« betitelt die seriöse Belgrader
Tageszeitung Vecernje Novosti ihre Sonderbeilage vom 5. April 2004.
»Gold, reiche Stickereien, Glocken, altes Geld, handschriftliche
Evangelien, mittelalterliche Miniaturen, Fresken aus der
Frührenaissance, Klöster und Kirchen von einmaliger Architektur«,
alles ein Raub des Feuers. Allein in Prizren sind es sieben Kirchen,
zum Teil aus dem 14. Jahrhundert, mit unersetzlichen Wandmalereien.

Die Osmanen überdauert

In der Provinz Kosovo und Metohija, dem Landstrich mit der größten
Dichte an christlichen Kirchen und Klöstern in ganz Europa, waren vor
dem Krieg 1999 über 1 300 Kulturdenkmäler registriert, 372 davon waren
1977 unter den Schutz des Gesetzes gestellt worden: elf
prähistorische, sieben aus illyrischer Zeit, 17 römische, 29
byzantinische, 179 serbische und, man höre und staune, 78 türkische
und 38 albanische. Die wertvollsten Baudenkmäler sind die Kirchen und
Klöster des serbischen Mittelalters, das Patriarchatskloster von Pec
und Kloster Gracanica gehören zum Weltkulturerbe der UNESCO.

Diese Denkmäler haben 500 Jahre Türkenherrschaft überlebt, wenn auch
nicht alle unbeschadet: Die im März 2004 in Prizren geschändete
Kathedrale der Gottesmutter von Ljeviska wird 1756 erstmals als
Moschee erwähnt. In ihr hat ein namenloser Türke in arabischer Sprache
eine Inschrift hinterlassen, in der er die Schönheit der Fresken mit
der Iris seiner Augen verglich, woraufhin er mit Hammer und Meißel den
abgebildeten orthodoxen Heiligen, unter anderen König Milutin die
Augen ausstach, ohne im übrigen die Gesichter zu beschädigen.

Landser fotografieren

Von solch subtilem Umgang mit dem immerhin gemeinsamen Erbe kann bei
den moslemischen Nachfahren der Türken keine Rede mehr sein. Seit
Beginn des NATO-Krieges sind im Kosovo an die 150 orthodoxen Kirchen
und Klöster zerstört worden, insgesamt 40 von ihnen wurden dem Schutz
der KFOR unterstellt. Wie effizient dieser Schutz gehandhabt wird,
könnte am Beispiel des Prizrener Erzengelklosters aus dem 14.
Jahrhundert erzählt werden. Vecernje Novosti merkte lakonisch an, daß
der Bau »geplündert und angezündet wurde in Gegenwart deutscher
Soldaten, die ihn nicht geschützt haben, im Gegenteil: Die beiden
Bundeswehrhelden haben von dem Pogrom Erinnerungsfotos gemacht«.

Die Kirche des Hl.Erlösers in Prizren, 1332 mit Fresken bemalt, ist
abgebrannt, die Fresken sind so gut wie verloren. Von der Kathedrale
des Großmärtyrers Georgije stehen, laut Angaben eines Augenzeugen,
nurmehr drei Mauern, Dach und Kuppel sind abgebrannt, den Torbogen am
Eingang in den Vorhof ziert, in roter Ölfarbe, die albanische Parole
»Morto i Serbi!«

Die KFOR war ganz offenkundig nicht in der Lage, diese Akte der
Barbarei zu verhindern. Ein weiterer Skandal ist, daß die Besatzer
Denkmalschützer, Restauratoren und Kunsthistoriker, aus Belgrad und
anderswoher, aktiv an der Einreise hindern mit der fadenscheinigen
Begründung, man könne nicht für ihre Sicherheit garantieren. Die
renommierte Kunsthistorikerin Professsor Irina Subotic wie auch der
Direkter der Belgrader Behörde für Denkmalschutz, Marko Omcikus,
beklagen nur zu Recht, daß die schwerstbeschädigten Denkmäler ohne
Dächer schutzlos Wind und Wetter ausgesetzt sind – und der Winter im
Kosovo ist immer noch hart. Und während die zerstörten und
gebrandschatzten orthodoxen Kirchen und Klöster vor sich hinrotten,
entwenden Albaner Steine von Novo Brdo zum Ausbau ihrer Wohnhäuser.
Nota bene: Novo Brdo, die große Ruine einer mittelalterlichen Stadt,
die bis heute nicht erforscht ist, die aber im 14. Jahrhundert als die
reichste Stadt des mittelalterlichen Serbien galt.

Verbrannte Erde im Kosovo, in der Wiege der serbischen Kultur. »Für
uns Serben ist das Kosovo keine imaginäre, mythische Vergangenheit,
sondern die Wirklichkeit eines historischen christlichen Schicksals,
das andauert und das ... nicht einmal heute mit dieser neuesten
Tragödie beendet ist«, heißt es in einem Memorandum der
Bischofskonferenz der serbischen orthodoxen Kirche.

KOSMET (deutsch / 2: Manifest fuer Jugoslawien)

Was Slobodan Milosevic bei seiner berühmten Rede im Kosovo am 28. Juni
1989 wirklich gesagt hat – und wie die FAZ ihn bis heute verfälscht
(jw 28.06.2005 - Jürgen Elsässer / Slobodan Milosevic)

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http://www.jungewelt.de/2005/06-28/004.php

28.06.2005 - Thema
Zusammenstellung: Jürgen Elsässer

Manifest für Jugoslawien

Was Slobodan Milosevic bei seiner berühmten Rede im Kosovo am 28. Juni
1989 wirklich gesagt hat – und wie die FAZ ihn bis heute verfälscht


Mit seiner jüngsten Veröffentlichung hat Peter Handke wieder den
heiligen Zorn der Frankfurter Allgemeinen Zeitung auf sich gezogen. In
seiner vor einigen Tagen publizierten »Reiseerzählung« berichtet der
österreichische Schriftsteller von einem Besuch bei Slobodan
Milosevic, der heute seit genau vier Jahren in einer Zelle des
UN-Tribunals in Den Haag eingesperrt ist. Der ehemalige jugoslawische
Präsident setzte dem Gast bei dieser Gelegenheit unter anderem
auseinander, was er bei seiner Rede vor mittlerweile 16 Jahren auf dem
Kosovo Polje (Amselfeld) wirklich gesagt hat, und wie dies in der
westlichen Öffentlichkeit verzerrt wurde, um Kriegsgründe gegen ihn
und sein Land zu konstruieren. Daß Milosevics Darstellung von Handke
empathisch referiert wird, findet die Mißbilligung des FAZ-Redakteurs
Matthias Rüb. Handke komme es »nicht in den Sinn«, daß sich hinter
dieser Rede »der Vernichtungswille verbergen kann – historische
Vorbilder für diese Sprache und die daraus folgenden Taten gibt es im
zwanzigsten Jahrhundert genug«.

Man muß nicht lange suchen, um den Grund für die Polemik der FAZ zu
entdecken: Sie selbst hat nachträglich in die damalige Rede Milosevics
den »Vernichtungswillen« hineinredigiert und will dies nun verdecken,
indem sie zum Angriff auf die Kritiker ihrer Retuschen bläst. So ließ
die FAZ in ihrer Übersetzung der Ansprache, erschienen im Juni 1999,
wichtige Passagen aus. Außerdem enthielt dieser Text insbesondere im
Schlußteil tendenziöse Manipulationen. Beide Formen der Verzerrung
werden in der folgenden vollständigen Wiedergabe des Textes durch ((
... )) deutlich gemacht. Der Leser kann auf diese Weise auch
Schlußfolgerungen ziehen, was der jugoslawische Staatsmann wirklich
wollte – und warum er heute von den NATO-Mächten als »großserbischer
Nationalist« respektive »Kriegsverbrecher« dargestellt wird. (je)


Milosevics Rede vom 28. Juni 1989

An diesem Ort, im Herzen Serbiens, auf dem Kosovo Polje, hat vor sechs
Jahrhunderten, vor genau 600 Jahren, eine der größten Schlachten
damaliger Zeiten stattgefunden. Fragen und Geheimnisse haben dieses
Geschehen wie viele andere große Ereignisse begleitet, es wurde
Gegenstand ununterbrochener wissenschaftlicher Untersuchungen und
nicht zuletzt auch der Neugier des Volkes.

Durch soziale Umstände bedingt, findet das große sechshundertjährige
Jubiläum der Kosovo-Schlacht in einem Jahr statt, in dem Serbien nach
vielen Jahrzehnten seine staatliche, nationale und geistige Integrität
wiedergefunden hat. So fällt es uns heute nicht schwer, die Frage zu
beantworten: Wie werden wir vor Milos auftreten? (Gemeint: Milos
Obilic – serbischer Held der Kosovo-Schlacht – je)

Wie das Leben und die Geschichte spielen, sieht es so aus, als ob
Serbien gerade 1989 seinen Staat und seine Würde wiedergewonnen hat,
um das historische Ereignis ferner Vergangenheit zu feiern, das für
Serbien sowohl symbolisch als auch geschichtlich eine große Bedeutung
für die Zukunft hat.

Heute ist schwer zu sagen, was bei der Kosovo-Schlacht historische
Fakten sind und was zur Legende gehört. ((Aber das ist auch nicht
wichtig.)) Erfüllt von Schmerzen, aber auch von Hoffnung, ist das Volk
gewöhnt, sich zu erinnern, ganz wie es eigentlich auch bei anderen
Völkern der Fall ist. Das Volk hat sich wegen des Verrates geschämt,
hat aber auch die Tapferkeit gepriesen. Deshalb ist heute schwer zu
sagen, ob die Kosovo-Schlacht eine Niederlage oder ein Sieg für das
serbische Volk war, ob wir als Folge der Niederlage in die Sklaverei
kamen oder ob wir aus dieser Niederlage gelernt haben, die Zeiten der
Sklaverei zu überleben. Die Antworten auf diese Frage werden das Volk
und die Wissenschaft weiterhin suchen müssen. Was aber nach all diesen
Jahrhunderten, die hinter uns liegen, Gewißheit geworden ist, das ist
die Tatsache, daß wir auf dem Kosovo vor 600 Jahren unsere Uneinigkeit
erfahren mußten.

Wenn wir eine Niederlage auf dem Kosovo erlitten haben, dann war das
kein Ergebnis der gesellschaftlichen oder militärischen Überlegenheit
des Osmanischen Reiches, sondern Ergebnis der tragischen Uneinigkeit
an der Spitze des serbischen Staates. Damals, im fernen 1389, war das
Osmanische Reich nicht nur stärker als das serbische Königreich,
sondern auch glücklicher. Uneinigkeit und Verrat auf dem Kosovo werden
das serbische Volk weiter als das Böse durch seine ganze Geschichte
hindurch begleiten. Auch im letzten Krieg haben Uneinigkeit und Verrat
das serbische Volk und Serbien in eine Agonie geführt, deren
geschichtliche und moralische Konsequenzen die der faschistischen
Aggression übertroffen haben.

Auch später, nach der Gründung des sozialistischen Jugoslawiens, war
die Spitze der serbischen Führung in diesem neuen Land uneinig und
neigte zu Kompromissen auf dem Rücken des eigenen Volkes. Die
Zugeständnisse, die viele der serbischen Führer zum Nachteil des
eigenen Volkes machten, wären weder historisch noch ethisch von
irgendeinem Volk auf der Welt akzeptiert worden. Dies gilt um so mehr,
als die Serben während ihrer ganzen Geschichte niemals Eroberer oder
Ausbeuter waren. Das nationale und historische Wesen der Serben in
ihrer ganzen Geschichte, insbesondere auch während der beiden
Weltkriege, war die Befreiung von Knechtschaft und das Leben in
Freiheit, und so bleibt es auch heute. Die Serben haben sich immer
wieder selbst befreit und, wenn es ihnen möglich war, halfen sie auch
anderen, sich zu befreien.

Und die Tatsache, daß sie in dieser Region als ein großes Volk gelten,
ist doch keine Schande und keine Sünde. Es ist ein Vorteil, den sie
niemals gegen andere ausspielten. Aber ich muß sagen, hier auf diesem
legendären Kosovo Polje, daß die Serben diesen Vorteil auch niemals zu
ihrem eigenen Wohl genutzt haben.

Den serbischen Politikern und Führern und deren Vasallenmentalität ist
zu verdanken, daß die Serben Schuldgefühle den anderen und sich selber
gegenüber hatten. Die Uneinigkeit der serbischen Politik hat Serbien
zurückgeworfen, und ihre Inferiorität hat Serbien gedemütigt. Das ging
so über Jahre und Jahrzehnte. Wir sind heute hier auf das Kosovo Polje
gekommen, um zu sagen, daß heute die Dinge anders liegen. ((Es gibt
keinen anderen, keinen geeigneteren Ort als Kosovo Polje, um zu sagen,
daß die Einigkeit in Serbien auch dem serbischen Volk, den Serben und
jedem Bürger Serbiens, unabhängig von seiner nationalen und religiösen
Zugehörigkeit, Wohlstand bringen wird.))

Serbien ist heute geeint und anderen Republiken gleichgestellt. Es ist
bereit, alles zu tun, um das materielle und soziale Leben aller seiner
Bürger zu verbessern. Mit Verständnis füreinander, mit Zusammenarbeit
und Geduld wird Serbien dabei erfolgreich sein. Deshalb ist auch der
Optimismus mit Blick auf die Zukunft, wie er heute allenthalben in
Serbien festzustellen ist, durchaus gerechtfertigt. ((Dieser
Optimismus basiert auf der Freiheit, die allen Menschen ermöglicht,
positive, kreative und humanitäre Fähigkeiten zum Wohl der gesamten
Gesellschaft und auch zum eigenen Wohl zu entfalten.))


»Der Nationalismus ist das schlimmste Problem«

In Serbien haben niemals nur die Serben gelebt. Heute leben in diesem
Lande mehr als jemals zuvor Bürger anderer Völker und Nationalitäten.
Und das ist natürlich kein Nachteil für Serbien. Im Gegenteil: Es ist
ein Vorteil Serbiens. ((In diesem Sinne ändert sich das nationale
System, so wie es heute auch in anderen Ländern, insbesondere in den
hochentwickelten Ländern der Welt, der Fall ist. Immer mehr und immer
erfolgreichere Bürger verschiedener Nationen und verschiedener
Religionen leben in einem gemeinsamen Land zusammen.)) Im besonderen
Maße soll der Sozialismus als eine progressive, demokratische
Gesellschaft die Menschen zusammenführen und dazu beitragen, deren
Trennung nach nationaler oder religiöser Zugehörigkeit zu überbrücken.
Der einzig maßgebende Unterschied zwischen den Menschen im Sozialismus
sollte der Unterschied zwischen denen sein, die arbeiten, und denen,
die nicht arbeiten wollen. Zwischen Menschen, die füreinander da sind
und sich gegenseitig achten, und solchen, die keinen Respekt vor ihren
Mitmenschen haben. Die Bürger Serbiens, die von ihrer eignen Arbeit
leben, verdienen die Achtung aller, sie müssen einander respektieren,
((unabhängig von ihrer nationalen Zugehörigkeit)). Gerade auf solchen
Prinzipien der gegenseitigen Achtung und des gegenseitigen Respekts
basiert unser Land.

((Jugoslawien ist eine multinationale Einheit und kann nur überleben,
wenn völlige Gleichberechtigung zwischen allen im Land lebenden
Nationen hergestellt wird. Die Krise, die Jugoslawien getroffen hat,
hat sowohl nationale als auch soziale, kulturelle und religiöse
Zwietracht hervorgebracht. Dabei ist der Nationalismus das schlimmste
Problem. Ihn zu überwinden ist die Voraussetzung dafür, die anderen
Mißstände zu beseitigen und die Konsequenzen zu mildern, die der
Nationalismus hervorgebracht hat.))

Seit dem Bestehen von multinationalen Gesellschaften war deren
Schwachstelle immer das Verhältnis zwischen den einzelnen Nationen. Es
besteht die Gefahr, daß die Frage der angeblichen Bedrohung einer
Nation durch eine andere aufgeworfen werden kann, was wiederum zu
einer Welle von Verdächtigungen, Anschuldigungen und Intoleranz führen
kann, einer Welle, die unaufhaltsam wächst und sehr schwer zu stoppen
ist. ((Diese Gefahr bedrohte uns die ganze Zeit.))

Innere und äußere Feinde multinationaler Gesellschaften wissen das und
tun alles, sie durch das Anstacheln nationaler Konflikte zu zerstören.
Gegenwärtig wird das in Jugoslawien versucht – nie zuvor hatten wir
solche tragischen nationalen Konflikte zu ertragen, die die Existenz
unserer Gesellschaft in Frage stellten.

Gleichberechtigte und harmonische Beziehungen zwischen den
jugoslawischen Völkern sind die unabdingbare Voraussetzung ((für das
Überleben Jugoslawiens, die einzige Möglichkeit, aus der gegenwärtigen
Krise einen Ausweg zu finden)), vor allem um ökonomische und soziale
Prosperität für das Land zu erreichen. In dieser Hinsicht
unterscheidet sich Jugoslawien nicht von anderen Ländern der Welt, und
insbesondere nicht von den entwickelten Ländern.

Die heutige Welt zeichnet sich immer stärker durch Toleranz,
Kooperation und Gleichberechtigung zwischen den Nationen aus. Die
moderne ökonomische, technologische, aber auch politische und
kulturelle Entwicklung führt die Menschen verschiedener Nationen
zueinander, macht die Völker voneinander abhängig und trägt Zug um Zug
zu ihrer Gleichberechtigung bei. Zur Zivilisation, der die Menschheit
zustrebt, haben vor allem die gleichberechtigten und vereinten Völker
Zutritt. Auch wenn wir nicht an der Spitze dieses Weges in die
Zivilisation sein können, so möchten wir doch auch nicht die letzten sein.

Zur Zeit der großen historischen Schlacht auf dem Kosovo Polje
blickten die Menschen hinauf zu den Sternen, von denen sie sich das
Heil erhofften. Jetzt, sechs Jahrhunderte später, blicken sie wieder
hinauf zu diesen Sternen – um sie zu erobern (FAZ: ... und bitten für
den Sieg). Und auf jeden Fall dürfen sie sich heute nicht mehr
erlauben, uneinig zu sein und sich von Haß und Verrat leiten zu
lassen, leben sie doch nicht mehr in kleinen, schwachen und kaum
miteinander verbundenen Welten. Heute können die Menschen dieses
Planeten nicht einmal ihren eigenen Planeten erobern, wenn sie sich
nicht einig sind, geschweige denn andere Planeten, solange sie nicht
in Harmonie und Solidarität leben.

Gerade deshalb haben, vielleicht wie nirgendwo sonst auf dem Boden
unseres Heimatlandes, die Worte Einigkeit, Solidarität und
Gemeinsamkeit soviel Sinn auf dem Kosovo Polje, dem Symbol der
Uneinigkeit und des Verrates. Diese Uneinigkeit, die für die
Niederlage in der Schlacht verantwortlich war und auch für das
unglückliche Schicksal, das Serbien ganze fünf Jahrhunderte lang
ertragen mußte, ist im Gedächtnis des serbischen Volkes und wird es
bleiben. Auch wenn es mit den historischen Gegebenheiten nicht
unbedingt übereinstimmen mag, so bleibt doch die Gewißheit, daß das
Volk seine Uneinigkeit als seine größte Tragödie erlebt hat. Deshalb
haben wir die unbedingte Verpflichtung, die Uneinigkeit zu überwinden
– das ist die unbedingte Voraussetzung, um künftig Niederlagen,
Mißerfolge und Stagnation durchzustehen.

Das Volk in Serbien ist sich in diesem Jahr bewußt geworden, daß es
seine innere Einheit als unverzichtbare Voraussetzung für das heutige
Leben und seine weitere Entwicklung finden muß. Ich bin überzeugt, daß
Serbien aufgrund dieses Bewußtseins der Einigkeit nicht nur als Staat,
sondern auch als erfolgreicher Staat leben wird. Deshalb, so denke
ich, macht es doch Sinn, gerade hier auf dem Kosovo, wo einmal
Uneinigkeit auf tragische Weise und für Jahrhunderte Serbien
zurückgeworfen hat, zu sagen, daß nur die Einheit uns die Kraft geben
wird, Serbien zu erneuern und die Würde zurückzuerlangen. ((Und dieses
Bewußtsein von der inneren Einigkeit stellt auch für Jugoslawien eine
Notwendigkeit dar, weil das Schicksal Jugoslawiens in den Händen aller
seiner Völker liegt.))

Die Kosovo-Schlacht ist auch ein Symbol für Tapferkeit. Das drückt
sich in Gedichten, Legenden, in der Literatur und in Erzählungen aus.
Die Helden des Kosovos inspirieren seit sechs Jahrhunderten unsere
Kreativität, sie nähren unseren Stolz, sie lehren uns nicht zu
vergessen, daß es einmal eine Armee gegeben hat, die tapfer und stolz
war – eine der wenigen, die trotz der Niederlage nicht verloren hat.

Sechs Jahrhunderte später stehen heute wieder Kämpfe bevor. (FAZ:
Sechs Jahrhunderte später befinden wir uns wieder in Kriegen ...) Es
sind keine bewaffneten Kämpfe (FAZ: Schlachten), die wir auszutragen
haben, obwohl auch solche nicht auszuschließen sind. Aber unabhängig
davon, welche Kämpfe uns bevorstehen, sie können nicht ohne
Entschlossenheit, Tapferkeit und Aufopferung gewonnen werden, also
nicht ohne die guten Eigenschaften, die man auch damals auf dem Kosovo
demonstrierte.

Unser heutiger Kampf zielt auf die Verwirklichung der ökonomischen,
politischen, kulturellen, der umfassenden Prosperität unseres Landes.
Und dieser Kampf wird um so erfolgreicher sein, je mehr wir uns der
Zivilisation nähern, in der die Menschheit im 21. Jahrhundert leben
wird. Auch für einen solchen Kampf brauchen wir Tapferkeit.
((Natürlich eine andere Art von Tapferkeit.)) Es bleibt aber eine
Herzensangelegenheit, ohne die nichts auf der Welt, nichts
Ernsthaftes, nichts wirklich Großes erreicht werden kann. ((Eine
Tapferkeit, die aus dem Herzen kommt und immer für die Menschheit
lebensnotwendig bleiben wird.))

Vor 600 Jahren verteidigte Serbien hier auf dem Kosovo tapfer nicht
nur sich selbst, sondern auch Europa. ((Serbien stand damals für die
Verteidigung europäischer Kultur, Religion und der europäischen
Gesellschaft insgesamt.)) Deshalb ist es heute ungerecht und im
Widerspruch zur Geschichte, ja, es ist sogar absurd, die Zugehörigkeit
Serbiens zu Europa in Zweifel zu ziehen. Serbien gehört zu Europa,
heute wie in der Vergangenheit, ((und zwar auf eine Art und Weise, die
seiner Würde und seinem Wesen entspricht)). In diesem Geiste möchten
wir heute eine Gesellschaft aufbauen, die reich und demokratisch ist.
Dadurch wollen wir zum Wohlergehen unserer Kinder und unseres Landes
beitragen, das heute völlig zu Unrecht leiden muß. Wir wollen das
Unsere tun, um das Streben aller progressiven Menschen unserer Zeit
nach einer neuen, schöneren Welt zu unterstützen.

Die Erinnerungen an die Tapferkeit der Kosovo-Helden soll ewig leben!

Hoch lebe Serbien!

Hoch lebe Jugoslawien!

((Hoch lebe der Frieden, hoch lebe die Brüderschaft zwischen den
Völkern!))


* Übersetzung nach dem Redetext, der in der Belgrader Tageszeitung
Politika am 29. Juni 1989 erschienen ist. Übersetzung: Dr. Donka
Lange. Diese Übersetzung erschien zuerst in Jürgen Elsässers Buch
»Kriegslügen. Vom Kosovokonflikt zum Milosevic-Prozeß« (Kai Homilius
Verlag). Eine ebenfalls vollständige Version eines anderen Übersetzers
findet sich in dem Buch von Ralph Hartmann: »Der Fall Milosevic« (Karl
Dietz Verlag).

http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=5043

http://www.ilmanifesto.it

La lunghissima estate del `45

di Vittorio Capecchi

su Il Manifesto del 04/08/2005

La bomba ha 60 anni Lo sterminio delle donne e degli uomini di
Hiroshima e Nagasaki non è stato un modo per finire subito la guerra
contro un nemico ormai vinto e in cerca di resa ma un crimine contro
l'umanità rimasto impunito che anticipa la politica di George Bush

Da sessanta anni, ad ogni anniversario dello sterminio delle donne e
degli uomini di Hiroshima e Nagasaki, la domanda a cui si tenta di
rispondere è: «perché?». Oggi, grazie all'ampia documentazione a
disposizione, a questa domanda si può rispondere senza particolari
incertezze. Ma non solo. La domanda, da generico sgomento di fronte
all'orrore che quell'avvenimento continua a suscitare, può essere
meglio formulata e articolata: perché il presidente americano Truman
autorizzò un crimine contro l'umanità dopo che il Giappone si era
arreso? E come è stato possibile che questo crimine contro l'umanità
sia rimasto impunito?

La bomba: inutile per la resa del Giappone

La sequenza degli eventi puo essere ricostruita nel dettaglio. La
Germania ha firmato la resa l'8 maggio 1945 e anche il Giappone è
ormai pronto ad arrendersi: non ha più un apparato militare offensivo
con «milioni di persone senza casa e le città distrutte nella
percentuale del 25-50%» (dichiarazione dell'8 luglio 1945
dell'Us-British Intelligence Committee). Ciò che accade nel mese di
luglio è particolarmente importante: è una storia in cui si
intrecciano i rapporti tra Usa e Urss per il controllo del Sud Est
asiatico, la volontà degli scienziati di sperimentare la bomba
atomica, la decisione di sterminio di un presidente americano, il
destino della popolazione inerme di due città giapponesi.

Documenti, a lungo rimasti segreti e censurati, mostrano che la resa
del Giappone avviene il 12 luglio quando l'imperatore giapponese,
attraverso il suo primo ministro Togo, invia un telegramma
all'ambasciatore Sato a Mosca in cui chiede alla Russia (che non ha
ancora formalmente dichiarato guerra al Giappone) di fare da
intermediaria per trattare la resa. L'imperatore è per una resa
incondizionata e chiede solo che questa non comporti la sua
destituzione per salvaguardare la «sacralità» della sua figura
(condizione, del resto, che verrà accettata dal governo americano, ma
solo dopo aver sperimentato le due bombe atomiche). Truman è a
conoscenza della resa dell'imperatore, come risulta dal suo diario
autografo (reso pubblico dopo gli anni `70) in cui scrive il 18
luglio: «Stalin aveva messo a conoscenza il Primo Ministro del
telegramma dell'imperatore giapponese che chiedeva la pace. Stalin mi
disse inoltre cosa aveva risposto. Era fiducioso. Credeva che il
Giappone si sarebbe arreso prima dell'intervento russo». Da notare che
sempre nello stesso diario Truman aveva annotato il giorno prima che
«Stalin dichiarerà guerra al Giappone il 15 agosto. Quando avverrà,
sarà la fine per i giapponesi».

Il 16 luglio, intanto, era stato fatto il primo test della bomba
atomica nel New Mexico e Truman era stato ufficiamente informato che
il risultato del test era positivo: la bomba era pronta e poteva
essere sganciata sul Giappone. La fine della guerra e la resa del
Giappone sono previste entro poche settimane (tra il 18 luglio e il 15
agosto). Ciononostante, la decisione di Truman è quella di usare la
bomba, distruggere due intere città giapponesi e condannare ad una
morte atroce uomini donne, bambini inermi. Ancora una volta la domanda
è: perché?

La bomba: per dominare il dopoguerra

La risposta oggi convergente da tutte le fonti è che ciò ha
influenzato la decisione di Truman non era un temuto prolungamento
della guerra (ormai di fatto terminata) ma il dopoguerra: se l'Urss
avesse dichiarato formalmente la guerra al Giappone il 15 agosto, le
sue armate avrebbero potuto entrare prima di quelle americane nel
Giappone arreso ed in ogni caso, nel dopoguerra, gli Stati uniti
avrebbero dovuto spartire con l'Urss la loro sfera di influenza nel
Sud Est asiatico. Si tratta di una ipotesi confermata da una
osservazione di Winston Churchill, il 23 luglio 1945: «E' chiarissimo
che al momento gli Stati uniti non desiderano la partecipazione russa
alla guerra con il Giappone». Nella stessa direzione vanno altre
testimonianze. Nel diario di James V. Forrestal (ministro della marina
Usa) si può leggere che «il segretario di stato Byrnes aveva una gran
fretta di concludere la questione giapponese prima che i russi
entrassero in gioco». Il fisico Leo Szilard (che firmò il 7 luglio del
1945 la prima petizione contro l'utilizzo della bomba atomica) nel
1948 ha scritto: «Mr. Byrnes non argomentò che l'uso della bomba
atomica contro le città del Giappone fosse necessario per vincere la
guerra. Egli sapeva, come anche tutto il resto del governo, che il
Giappone era battuto sul campo. Però Byrnes era molto preoccupato per
la crescente influenza della Russia in Europa». Anche Albert Einstein
(New York Times, 14 agosto 1946) affermò che nella decisione di
gettare le due bome atomiche la causa principale era stato «il
desiderio di metter fine con ogni mezzo alla guerra nel Pacifico prima
della partecipazione della Russia. Io sono certo che se ci fosse stato
il presidente Roosevelt questo non sarebbe accaduto. Egli avrebbe
proibito un'azione del genere». Sembrerebbe, dunque, che ci troviamo
di fronte ad un crimine contro l'umanità come «misura preventiva».

La bomba: chi era contro e chi a favore

Contro l'uso dell'atomica si dichiararono le massime autorità
militari. Dice il generale Dwight D. Eisenhower: «Ero convinto che il
Giappone fosse già sconfitto e che il lancio della bomba fosse del
tutto inutile... In quel momento il Giappone stava cercando un modo
per arrendersi il più dignitosamente possibile. Non era necessario
colpirli con quella cosa spaventosa». E dello stesso tipo sono le
dichiarazioni dell'ammiraglio William Leahy, capo di stato maggiore:
«I Giapponesi erano già sconfitti e pronti alla resa. L'uso di questa
arma barbara contro Hiroshima e Nagasaki non ci fu di nessun aiuto
nella nostra guerra contro il Giappone. Nell'usarla per primi
adottammo una norma etica simile a quella dei barbari nel medioevo.
Non mi fu mai insegnato a fare la guerra in questo modo, e non si
possono vincere le guerre sterminando donne e bambini». Leahy
individua anche il gruppo che è stato più a favore: «Gli scienziati ed
altri volevano sperimentarla, date le enormi somme di denaro che erano
state spese nel progetto: due miliardi di dollari». Quindi, a parte il
limitato gruppo dei fisici che era sulle posizione di Szilard e
Einstein, c'è un gruppo consistente di attori legati al costosissimo
progetto Manhattan che desidera «rendere produttivo l'investimento».

Si arriva così al 25 luglio, quando il Comitato presieduto da Truman e
Byrnes (con anche la presenza del rettore dell'Università di Harward
James Conant, invitato al Comitato «a nome della società civile», che
vergognosamente appoggia lo sterminio) ordina al generale Caarl Spatz
dell'Air Force la «missione atomica» su quattro possibili obiettivi
(Hiroshima, Kokura, Niigata e Nagasaki) indicando una data provvisoria
(il 3 agosto).

La prima bomba atomica scenderà sul centro di Hiroshima il 6 agosto
alle ore 8,15 del mattino quando le scolaresche vanno a scuola e le
donne e gli uomini al lavoro; la seconda scenderà il 9 agosto alle
11,02 nel quartiere più povero (prevalentemente cattolico) di Nagasaki
(tra le due bombe arriva, ormai ininfluente, la dichiarazione di
guerra della Russia al Giappone).

Per documentare l'entusiasmo che l'annuncio di questo crimine contro
l'umanità riceve negli Stati uniti si può ricordare la testimonianza
del fisico Sam Cohen sulla sera del 6 agosto 1945: «Quella sera,
Oppenheimer non passò dall'ingresso laterale, fece piuttosto una
entrata trionfale come Napoleone al ritorno di una grande vittoria.
Mentre entrava, tutti - a eccezione forse di una o due persone - si
alzarono in piedi applaudendo e battendo i piedi; erano veramente
orgogliosi che ciò che avevano costruito avesse funzionato ed erano
orgogliosi di se stessi e di Oppenheimer».

La bomba: come fu mistificata

Nonostante l'euforia, Truman si rende conto che non può rivelare al
mondo che ha ordinato un crimine contro civili senza che ve ne fosse
bisogno per finire la guerra. Due sono le strategie utilizzate: la
menzogna e la censura. La prima menzogna (quella con le gambe corte) è
detta da Truman alla radio il 9 agosto quando afferma che «la prima
bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, una base militare». La
seconda menzogna (quella con le gambe lunghe) serve a nascondere che
il Giappone aveva già dichiarato la resa: la bomba è «giustificata»
dal numero di morti americani evitato. Come affermò Truman il 15
dicembre 1945: «A me sembrava che un quarto di milione dei nostri
giovani uomini nel fiore degli anni valesse un paio di città giapponesi».

Viene poi fatta scattare una durissima censura sia negli Stati uniti
che in Giappone. Ad Eisenhower viene inviato il 2 aprile 1946 un
memorandum in cui si ordina: «Da nessuno dei documenti destinati alla
pubblicazione deve risultare che la bomba atomica fu lanciata su un
popolo che aveva già cercato la pace» e nel 1946 venne approvato
l'Atto dell'energia atomica che prevedeva l'ergastolo e la pena di
morte per chi divulgasse «documenti protetti da segreto con lo scopo
di danneggiare gli Stati uniti». In Giappone il silenzio stampa e la
censura di qualunque commento critico all'uso dell'atomica furono
ferrei fino al 1949.

Le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki non hanno segnato,
dunque, la fine della seconda guerra mondiale ma l'inizio di una nuova
era. Quella che usa lo sterminio come misura preventiva, separa
l'economia e la politica dall'etica, difende la «neutralità» della
ricerca scientifica, legittima la menzogna e l'impunità per chi ha il
potere. Il neoliberismo alla Bush è stato anticipato sessanta anni fa
da Harry Truman.

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VEDI ANCHE:
Cronaca di un bombardamento atomico
http://it.groups.yahoo.com/group/crj-mailinglist/message/4524
60 anni dopo Hiroshima gli USA hanno più della metà delle armi nucleari
http://www.resistenze.org/sito/os/dg/osdg5g24.htm
http://www.thebulletin.org/article_nn.php?art_ofn=nd02norris
http://www.ptb.be/scripts/article.phtml?section=A1AAAABM&obid=27775